L’opera in versi di Osip Mandel’stam

da | Dic 13, 2018

Da poco uscita L’opera in versi di Osip Mandel’stam per Giometti e Antonello (2018), che raccoglie la sua intera produzione poetica e un’ampia selezione delle poesie pubblicate postume o solo in rivista. Pubblichiamo una selezione.

13.

Il fine udito tende la vela,
lo sguardo dilatato si svuota
e il silenzio è solcato
dal coro silente degli uccelli di mezzanotte.

Sono misero come la natura,
sono semplice come le nubi,
e la mia libertà è illusoria
come il canto degli uccelli di mezzanotte.

Vedo la luna esangue
e il cielo più smorto d’una tela;
il tuo mondo, cagionevole e strano,
lo accetto, o vacuità!

15.

Dal gorgo crudele e vischioso
sono cresciuto, giunco frusciante,
con passione, languore, dolcezza
respirando di vita interdetta.

Non notato da alcuno, accolto
dall’augurale fruscio dei brevi istanti
d’autunno, m’incurvo avvilito
sul mio ostello freddo e fangoso.

Un’offesa atroce mi riempie di gioia
e nella vita, simile a un sogno,
invidio in segreto ciascuno
e di ciascuno sono in segreto innamorato.

64.

Sul Monte Athos cresce tuttora
un albero miracoloso,
su di un ripido verde pendio
canta il nome di Dio.

Gioiscono in ogni cella
i mugichi che glorificano il nome:
gioia pura è la parola,
guarigione dall’angoscia!

In pubblico, a gran voce,
i monaci sono condannati,
ma dall’eresia meravigliosa
noi non ci dobbiamo salvare.

Ogni volta che amiamo
vi ricadiamo.
E roviniamo insieme al nome
l’amore senza nome.

94. Tristia

L’ho appresa la scienza degli addii
negli scarmigliati lamenti notturni.
Ruminano i bovi, perdura l’attesa,
è l’ultima ora delle vigilie urbane.
E osservo il rito di quella notte da gallo
in cui, levato il carco della viatica afflizione,
guardavano lontano gli occhi lacrimosi
e il femmineo pianto si mesceva al canto delle muse.

Chi può sapere alla parola «addio»
quale distacco ci si fa d’accanto,
cosa ci predice il canto del gallo
quando il fuoco riarde sull’acropoli
e nell’aurora di chissà che vita nuova,
quando nell’antiporta rumina il bove,
perché il gallo, annunciator di vita nuova,
sulle mura della città sbatte le ali?

E l’amo la consuetudine della tessitura:
la spola va e viene, ronza il fuso.
Guarda, incontro, come piuma di cigno,
già scalza Delia spicca il volo!
Oh, della nostra vita gracile sostegno,
ma quanto è scarsa la gioia della parola!
Tutto è già accaduto, tutto si ripeterà,
e dolce è solo l’istante dell’agnizione.

E così sia: una diafana figurina
giace sul limpido piatto d’argilla
come una pelliccetta di scoiattolo appiattita,
china sulla cera una fanciulla scruta.
Divinare sull’Erebo greco non ci è dato;
per le donne la cera è come per gli uomini il rame.
Nelle guerre soltanto a noi vien tratto il dado,
mentre loro è dato divinando di morire.

153.

Ce ne staremo un po’ seduti in cucina.
Dolce odora il bianco cherosene,

il coltello affilato, e la bianca pagnottina…
Se ti va: ravviva il fuoco nel fornello,

se no racimola qualche cordicella,
per legare la cesta prima dell’aurora,

e poter andare alla stazione
dove nessuno ci possa rintracciare.

292. Roma

Là dove le rane delle fontane, dopo aver gracidato
e schizzato non se ne restano più assopite
e ridestatesi, scioltesi in lacrime,
con tutta la possanza delle proprie gole e conchiglie
impiastricciano d’acqua anfibia
la città che ama assentire ai forti,

lieve antichità stiva, sfrontata,
dal cupido sguardo e il piede piatto,
come l’intatto ponte dell’Angelo
piede piatto sull’acqua gialla,

azzurra, fatta da mano umana, cinerina,
in una tambureggiante escrescenza di case,
la città plasmata dalla cupola rondinina
di stretti vicoli e correnti d’aria,
l’avete trasformata in un vivaio d’assassini,
voi, mercenari dal sangue bruno,
italiche camicie nere,
cuccioli feroci dei Cesari defunti…

Son tutti tuoi orfani, o Michelangelo,
rivestiti di pietra o di vergogna:
la notte, umida di lacrime, e l’innocente,
giovane, dal pie’ leggero Davide,
e il giaciglio su cui non rimosso
giace Mosè a cascata,
la libera possanza e la misura leonina
tacciono assopite e schiave.

E delle rugose scale le sporgenze
nella piazza in cui si riversano i fiumi delle scale,
perché riecheggino i passi come gesti
ha levato la tarda Roma-uomo,
non per gli agi menomati,
come indolenti spugne marine.

Le fosse del Foro sono state scavate di nuovo
e spalancate a Erode le porte,
e su Roma incombe il mento pesante
del dittatore degenerato.

387.

Come pecore, in folla pietosa
i vecchi sfuggivano Euripide.
Percorro un sentiero da serpi
e in cuore serbo un’offesa oscura.

Ma quest’ora ormai non è più lontana:
mi scuoterò di dosso le mie tristezze,
come un bambino la sera scuote via
la sabbia dai sandali.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).