Lo splendore della vita reale

da | Set 2, 2016

Un’anteprima dal libro Gli scomparsi – storie da Chi l’ha visto? di Maria Grazia Calandrone, uscito da poco per la collana “Gialla-Oro” di Lietocolle-Pordenonelegge.

Lo splendore della vita reale
parla Adele Mongelli, rea confessa dell’omicidio del giovane compagno Giuseppe Demarinis

* Molto di quanto è accaduto riguarda un fenomeno di “marmorizzazione” del tempo.
Viene infatti alla mente, relativamente al comportamento del tempo in questa vicenda, un’immagine simile al groviglio di sangue metallizzato nei circuiti venosi dopo che i corpi dell’uomo e della donna, oggi esposti nell’omonima cappella di Napoli, ebbero subito il misterioso trattamento alchemico da parte del Principe di Sansevero. Sono corpi ridotti a un viluppo apparentemente naturale. Ma c’è, d’innaturale, l’esposizione della loro fermezza mortale. L’addome di lei esibisce pure una cavità aperta, perché, oltre che della sua propria carne, è stata derubata della carne fetale del figlio.
Un’immagine emblematica: una donna arrivata dal 1700 fino a noi non nelle sembianze della sua discendenza – un sorriso, o quel modo unico di arrotolarsi i capelli intorno all’indice, che misteriosamente si eredita – ma tramandata dalla sua propria morte.
Forse così si potrebbe pensare anche di me e delle mie intenzioni: forse tu, Giuseppe, fosti la sostanza irreperibile in natura con la quale io volli cristallizzare il mio sangue, la mia parvenza d’immortalità.
Ma veniamo ai fatti, alla irremovibile fatalità degli eventi nei quali ebbi quasi inconsciamente a inciampare. Forse agli effetti della solitudine. Lui aveva ventisette anni meno di me e nemmeno un errore.

Insieme al sentimento del tempo si disperse immediatamente in me anche il sentimento della realtà.
Se volessimo astrarre una norma generale dal mio caso specifico, ne risulterebbe che il tempo sia lo schema per intendere e volere il mondo e che senza lo scorrere del tempo diventiamo incapaci di orientarci nelle declinazioni cardinali del nostro vivere.
La giovinezza dell’altro ci riverbera addosso una quasi malevola cecità sul nostro conto. Ma una invincibile mortalità ci assale all’improvviso, tanto più violenta quanto più rimossa.

** Proviamo una compassione serena, vegetale, per il nostro lentissimo disfarci, se è riflesso nel corpo di un amante, ovvero in quello specifico disequilibrio che abbiamo riempito della nostra tenerezza e del nostro pacificato rimpianto per la tenerezza utile.
Cominciamo a sognare che la nostra casa si ingrandisca a sorpresa e apriamo con un sorriso di gioia le tante porte ancora sconosciute, intraprendiamo uno schiudimento seriale di stanze ancora da arredare e da abitare: ballatoi, ripostigli, belle scale con ringhiere evidenti e diritte, prive di immagini da decifrare – e piani rialzati, una seconda cucina, bagni lustrali e bagnetti lustrissimi, cameroni dalle madie panciute, pavimenti a mosaici di marmo e, da ogni lato, finestroni su grandi porzioni di giardini. La casa è colma di un’abbondanza in gran parte inutilizzata. Ma fuori:
ovunque ci affacciamo vediamo che la grande campagna intorno alla casa, durante la nostra brevissima assenza, come di una malattia facile, si è popolata di gitanti. E che altri ne arrivano.
A dieci metri da una di queste nuove finestre sulla bella campagna è stata messa su una trattoria semplice e generosa che gronda profumi e pergole di glicine in fiore e rumori domestici, tavolate di gente felice sotto i graticci, che producono risa e rumori domenicali di stoviglie, di gente riunita, quei suoni comuni e allegri che rassicurano la specie umana.
Lo splendore della vita reale.
Dietro la trattoria si apre lo sterrato ampio di una pista da ballo, al fondo del quale sosta una breve linea colorata di macchine, come un arcobaleno sceso in terra. Sono belle anche quelle. Integrare automobili nel paesaggio semiboschivo intorno alla propria casa è davvero un bel gesto di spalancamento, fiducioso e gioioso.
Proprio davanti alle finestre sono cresciuti alberi secolari, tragici e incrollabili come mangrovie, con rami che vediamo nei dettagli, tanto sono vicini alle finestre: li vediamo porosi e resistenti, lanciati verso la leggerezza del cielo primaverile sopra un gran prato pulito e brillante, pieno di bambini che giocano a rincorrersi squillando come rondini.
Mentre il nostro viso comincia a diventarci dolcemente estraneo, la nostra casa si espone in tutta la sua lavata grandezza ed è sempre più aperta. Noi abbiamo ceduto all’invasione come cede in silenzio una città, e offre strade e panchine.
Solo nel nucleo originario, quello in blocchi crudi di tufo montati a secco sotto il tetto di coppi granata, ecco la ciocca nera del compagno dal quale cominciammo a costruire e a modificarci e ad ampliarci, eccolo che lavora insieme ai figli nel semibuio tra i pentoloni che esalano vapori. Questa bella famiglia nucleare prepara da mangiare per gli ospiti.
Lo spazio si è contratto, tutto viene da noi. Adesso siamo pronti per il mondo.

Io posso solo dire che il mio letto
esprimeva un ragazzo
con le mani che ancora non arrivavano a toccare il destino.
Furono mesi di profitto
perché davanti a lui ero disadorna
perché gli anni non li sentivo più
quando eri vicino e io tremavo e non sapevo
perché il cuore picchiasse come un tavolario
battuto da gazzelle e da simili prede
vergini e perché fossi
io tutta smarrita nella tua voce e perché la tua voce
tenacemente resistesse all’urto della tigre
del buon senso e perché il tempo
fosse immobile mentre passava e tutto fosse
veramente apparenza e io come le ossesse e le simili prede
avessi questi sogni da innalzare.
Io so che il petto mi faceva male quando parlavi.

La rosarossa spicca dalla roccia come dal lago del tuo [sangue l’osso
senza intelletto, il tuo osso sfilato verso l’alto dal profondo [del cuore.
Io indossavo maschere d’argento e fiaccole
di sangue, trascinavo valanghe per passare di stato e [diventare più vasta
e più nulla: emancipata dall’amore umano come scena [logica
e ovunque il suono liquido del cuore,
il silenzio che avevi eretto in me.

Il tuo corpo deposto dalle mie mani come un attrezzo.
Io mi sono sdraiata accanto a te che avevo
sterminato perché anch’io me n’ero andata in fumo come [il calice di una granata
e riaffermo che sì, che nonostante
questa scena coperta di lana e sangue, sei tu quello che [voglio.

Dunque persevero nell’errore.
Non sono più immortale, lo vedi, dunque sento
cose come questo bisogno di tenerezza. Sono [completamente
dissipata. Comunque provo
la gratitudine di essere viva, quell’attonita e sulfurea [gratitudine di esistere che hanno i pampini della vite [americana
in autunno. E provo
su di te la bellezza della mia voce
nera, che riempie di compassione
il vuoto che hai lasciato
e le mie ossa, i secreti del corpo che amavi, sono i chiodi
che ti tengono a terra.

Così, trascorsa
la circostanza ferina e incomprensibile della tua morte
torni a caso nei sogni, piccolo come un figlio, in questa [vita parallela che non so
se veramente condividi: a me
sembra quando, appena svegli, uscivamo di casa, [aspettando che il corpo lasciato al sole
smettesse di separarci.

La prima volta tanto è stato forte che mi sono messa a [piangere. Non lo so, non lo avevo mai provato.

Mi dici – con il petto sfondato – mi dici allontana
chi ti rimpicciolisce. E per favore
riprendimi con te, lasciati amare (lasciati amare, lasciati [amare…)
e i baci del perdono – baci
dal senza vento – siglano
i documenti di bordo:

il primo amore, la prima morte.

Trascorsa l’efferatezza
e trascorso il perdono.
Quando tutto sarà perduto,
io ricorderò ancora.

Roma, 12 febbraio 2011

Adele Mongelli, cinquantunenne ed egregia madre di quattro figli, si separa dal marito per vivere l’amore con Giuseppe Demarinis, di ventisei anni più giovane di lei, che l’ha completamente conquistata. Con Giuseppe, Adele vive quell’assoluto che scavalca le inezie dei dati reali e impedisce di porsi domande banali, cioè ovvie e concrete. Dopo oltre due anni di passione, rivestendosi dopo l’amore, Giuseppe improvvisamente rivela alla donna di aver deciso di interrompere ogni rapporto con lei, perché sta per sposare una ragazza con la quale è unito da quattro anni, e della quale esibisce la foto. Adele supplica non mi lasciare. Giuseppe è irremovibile. La camera da letto è debolmente rischiarata dal lumino dello schermo televisivo. Dopo aver colpito Giuseppe con 38 coltellate, Adele lo sveste, lo stende sul letto, si sdraia e dorme l’intera notte accanto al corpo di lui, che consuma da solo la propria lunga agonia. Al risveglio, la donna prepara la colazione alla figlia più piccola e la manda a scuola. Tornata in camera da letto, Adele si accorge di aver ucciso l’amato e, in stato di totale incredulità, immediatamente si costituisce.

Immagine: Clip dal video dei Tame Impala, The Less I Know The Better, 2015.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).