Lettere a Bruna

da | Set 8, 2017

Un’anteprima da Lettere a Bruna, di Giuseppe Ungaretti, a cura di Silvio Ramat, di prossima uscita per Mondadori. Il volume raccoglie le lettere di Ungaretti a Bruna Bianco. Pubblichiamo la lettera 122, del gennaio 1967, con un’introduzione di Francesca Cricelli.

Mi trovavo nella sala riunioni della Casa das Rosas – Centro de Estudos e Pesquisa Haroldo de Campos,  quando ricevetti dalle mani della segretaria un piccolo pezzo di carta con il nome Bruna Bianco e un recapito telefonico. Era un pomeriggio fresco, era giugno del 2012, nel cielo non c’era neanche un segno di nuvola.
La Casa das Rosas è un museo dedicato agli studi sulla poesia e alla memoria del poeta e traduttore brasiliano Haroldo de Campos. Si trova nel cuore pulsante della drusiaca città, come direbbe Bruna. In piena Avenida Paulista c’è una delle ultime ville di fine ottocento rimaste in piedi tra una selva di grattacieli. Sono da sempre un’amante non solo della poesia di Ungaretti, ma di tutta la sua storia con le sue molteplici patrie e lingue. Nutrivo una curiosità speciale e un certo ardore nei confronti di quel breve libro, Dialogo. Mi colpivano non solo le sue poesie, ma le repliche di Bruna Bianco, nella mente cercavo di immaginare cosa fosse stato quell’incontro per entrambi.
Delle poesie scritte l’uno per l’altra ne parlavo persino nel testo di apertura della mostra che curavo in quel momento, “de uma estrela a outra”.  La manifestazione rientrava nei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, celebrati anche qui in Brasile. Insieme alla Casa das Rosas e con l’inestimabile sostegno di alcune persone, come Lucia Wataghin, Antonio Riccardi e Davide Rondoni, nonché con la generosa collaborazione della Fondazione Mondadori, nella persona di Luisa Finocchi, siamo riusciti ad allestire all’interno dell’antica villa un percorso con foto, video, libri e traduzioni del poeta. Si cercava di portare alla luce, soprattutto, ciò che legava Ungaretti al Brasile: il vincolo con l’Università di San Paolo, il barocco brasiliano orchestrato nella natura, il dolore per la perdita del figlio Antonietto e un amore di cui non si avevano molte notizie, ma che, per qualche intuizione poetica, ritenevo così fondamentale da citare del testo di curatela della mostra.
Non avevo idea, allora, che la mostra era solo l’inizio di un lungo e meraviglioso percorso che mi avrebbe portato a conoscere Bruna Bianco. Sarebbe poi cominciata la lettura e trascrizione delle lettere a quattro mani. Per telefono Bruna mi chiese una copia del video presente nella mostra – “da far vedere ai nipoti”, diceva, affinché potessero familiarizzarsi con la voce di Unga’. Io, in cambio, le chiedevo un incontro vis à vis. Volevo vedere da vicino gli occhi che così a lungo avevano visto Ungaretti. Bruna mi ricevette nella sua casa, io le portavo in dono un vaso con dei tulipani rossi, li abbiamo poi deposti insieme sulla tomba di Antonietto. Mi chiese allora di non portarle più nessun dono.  Pochi mesi dopo si cominciò a lavorare sulle lettere. Rileggendole, mi viene ora in mente una lettera del gennaio ‘67, scritta a Frascati, nella quale il poeta le chiede: “Arrivi sempre con quei passi frettolosi e risoluti?”. La mia prima immagine di Bruna è questa, lei che scende con passi frettolosi e risoluti una lunga scala di marmo, gli occhi con la medesima ampiezza e varietà di azzurro e blu come i cieli di Roma descritti da Ungaretti in queste lettere. Il passo di Bruna è lo stesso. Io la ringrazio per avermi aperto, con le lettere, ai tormenti che aveva messo nel cuore di Unga’, la “non cecità, ma luce” che fu ed è il loro amore.

Francesca Cricelli

122

 Frascati, il 21 Gennaio 1967[1]

Mia Bruna,

c’è un po’ di nebbia, stamani, un cielo opalescente, una luce mite e un po’ ambigua. Non è oggi il tempo, amore mio, che si addirebbe alla tua schiettezza d’azzurro senza nemmeno un puntino di torbido. Amore mio, questa prima nottata sui colli albani, l’ho trascorsa interamente in bianco, come sempre m’avviene quando non mi corico su un letto solito, finché non divenga, in due o tre giorni, anche il nuovo, il solito letto. L’ho passato in bianco, ma non solo, c’era, come sempre, a tenermi compagnia in me, la tua presenza, il tuo discorrere in segreto con me. Lo sapevi che discorro sempre con te, di giorno e di notte, di notte meglio, non c’è nessuno che possa disturbarci, nel nostro buio vediamo noi soli, perché noi soli siamo in possesso della luce del nostro amore, e ne siamo gelosissimi, no?
A quel pranzo del compleanno, c’erano le graziose giovani donne, e c’eri anche te, la più graziosa di tutte, la grazia stessa, ma visibile solo a me. Ascoltavi, intervenendo qualche volta, le due sole persone anziane del convito, una gentildonna di gran casato, la moglie di Guttuso, e l’omino vecchio che t’ama.
/ Si parlava delle Mille notti ed una,[2] e la gentildonna le sapeva tutte a mente le storie d’amore più incantevoli, di quel libro, e uno dopo l’altro me ne citava i passi. Intervenivi, ma t’udivo io solo, per migliorare questo o quel tratto che la nostra esperienza mostrava mancante d’ardore, di zelo o di d´irrequietezza per un’attesa troppo lunga.
T’amo, amore mio. Arrivi sempre con quei passi frettolosi e risoluti? T’accorgi ancora subito che mi sono innamorato di te subito, innamorato tanto, appena t’eri fermata a darmi il manoscritto, da non capire subito più altro che non fosse ch’era necessario che t’amassi per continuare a vivere, e che t’amassi come preso da follia. Ma l’amore non è sempre la follia anche quando non sia il poveretto vecchino che sono a provarlo? T’amo, fatina, anche per i tormenti che mi hai messo nel cuore insieme a questa, non cecità, ma luce che è il nostro amore.
Cara luce, non c’è molta luce fuori, sui colli davanti a al nostro, e quello dove sorge la villa,  le piante, tranne le poche conifere, sono prive di foglie, e formano quel cerchio che non posso non vedere se quel cerchio alzo gli occhi, che guardo di un cerchio d’un matassame con trasparenze nell’intreccio che rendono vaghe  largitrici di vaghezza aerea al quell’oscuro grigiume suo grigio buio.
Ma la tua luce non muta mai, è luce di dentro, è vero; ma che bisogno c’è di guardare fuori; del resto, la luce di fuori posso mutarla come voglio, ricorrendo alla tua luce, cara, cara, amato amore.
/ Sono in una gradevole casa con mobili antichi scelti con gusto e con competenza, ed  è attorniata da un parco, e c’è la piscina. È più una residenza estiva, ma può essere, così quasi vuota com’è, un luogo non da disprezzare anche per starci d’inverno a proseguire in pace il tanto  lavoro che ho.
Mi scrivi della situazione conseguita alla riforma monetaria[3]. Ne ho sentito il lamento anche dagli amici brasiliani di qui. Puoi immaginare con quale tristezza d’animo ho ricevuto la notizia del disagio che ha provocato nel parco industriale di San Paolo. Era una decisione preannunziata, mi pare, da un anno. Non c’è dubbio, l’inflazione abbandonata a sé stessa, porta al disastro, e va frenata, e non c’è, purtroppo, altra via di risanamento se non quella della limitazione del credito e della conversione in valuta forte della valuta in circolazione. Sono rimedi ai quali in Europa, gli Stati hanno fatto ricorso, la Francia, per esempio, ma senza scombussolare tutto. Certo occorre nell’applicazione di tali misure molta prudenza, molto tatto, molta perizia, discernere chi merita il credito da chi ne abusa, ecc.
Sono molto triste per quanto mi dici di questa misura, molto triste. Bisogna quandi si ricorre a una misura Sono cose delle quali non mi sono mai occupato e delle quali poco m’intendo. Da profano credo che occorra, ricorrendo, a un’innovazione, che essa non faccia molto più male che bene, che non semini rovina invece di restaurare su basi salde la ricchezza e la produzione.

[sul margine sinistro dell’ foglio]

Domani ti scriverò più a lungo. Questi sono i posti dove è nato in gran parte il Sentimento, dove ho scritto quasi tutte le prose di del Deserto e dopo  (te l’ho mandato questo libro?) qui ho vissuto tempi d’una felicità eccezionale d’ispirazione e di resa poetica[4]. Ma, per quasi 15 anni, io e i miei, ed era sopratutto pena mia per i miei, qui abbiamo vissuto negli stenti. Ti bacia a lungo, continua a baciarti il tuo per sempre

Unga

123

Stella, mia unica stella,
Nella povertà della notte, sola,
Oggi per me rifulgi,
Per la mia solitudine rifulgi,
Ma, per me, stella cara
Che mai non finirai d’illuminare,
Un tempo ti è concesso troppo breve,
Mi elargisci una luce, stella mia,
Che solo acuisce in me disperazione.[5]

Grottaferrata, il 22 febbraio 1967
Giuseppe Ungaretti

 

 


[1] Bruna corregge il mese in “febbraio”.

[2] Così Ungaretti chiama l’opera popolarissima anche da noi, che la conosciamo come Le mille e uma notte.

[3] Più propriamente “correzione monetaria”, criterio adottato da Roberto Campos, ministro

dell’Economia, per attualizzare il valore dei beni, che si aggiorna al momento della chiusura

dei bilanci annuali, rispetto al valore dichiarato in bilancio al momento dell’acquisto.

[4] Ungà ripensa a quanto gli erano stati prodighi di ispirazione i luoghi dai quali sta ora scrivendo a Bruna. Era il 1927 quando, in gravi difficoltà economiche, con la moglie e la piccola Ninon il poeta aveva abbandonato Roma, città dove la vita era troppo costosa, e preso alloggio a Marino.

[5] Con varianti, e intitolata Stella, sarà la seconda poesia nell’impaginazione di Dialogo.

Immagine: Bruna Bianco e Giuseppe Ungaretti in Argentina nel 1967.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).