Le tigri di zia Jennifer

da | Nov 3, 2025

Un estratto da “Aureole e tigri dal mondo queer. Racconti di un’altra letteratura” di Franco Buffoni, appena uscito per Il ramo e la foglia edizioni.

 

Nata nel Maryland da padre medico di origine ebraica, Adrienne Rich – già dal primo anno di università a Harvard – non si limita a scrivere ottimi testi, ma riesce a farli circolare negli ambienti e tra le persone giuste, ottenendo per il primo libro A Change of World (Mutare mondo) nel 1951, l’anno della laurea, niente meno che la prefazione di un W. H. Auden ormai “americano” e all’apice del successo. Va da sé che non poteva suscitare indifferenza nell’autore di The Age of Anxiety, come in molti altri lettori, un testo quale “Aunt Jennifer’s Tigers” (“Le tigri di zia Jennifer”), dove i feroci animali incedono con passi eleganti sul telaio, e le dita della zia volteggiano attraverso la lana che ricamano, ma fanno fatica a muovere anche l’ago più leggero perché “la fede nuziale dello zio è un peso opprimente che le schiaccia la mano”.

Alleggerire il peso di quella mano, fino a liberarla completamente dal vincolo, sarà il vero compito artistico e politico di Adrienne Rich. In un altro testo poetico – “Snapshots of a Daughter-in-Law” (“Istantanee di una nuora”) – del 1963, dalla raccolta omonima, l’autrice si raffigura come giovane moglie (“Si depila le gambe fino a farle brillare / come zanne pietrificate di mammuth”) e come giovane madre (“Donne, non vale la pena sospirare. / Il Tempo è maschio / e quando beve brinda alle belle”), ma vista dalla suocera. E già è preconizzata la svolta, con l’avvento di un vagheggiato Cristo-femmina: “Così tarda a venire colei che deve essere verso sé stessa più crudele della storia”.

Ma prima della “liberazione”, la storia – quella vera, privata e pubblica, fatta di cartoline-precetto e di ospedali – ha in serbo per Adrienne altre esperienze brucianti, come la militanza forsennata contro la guerra in Vietnam (“Prigionieri, soldati, rannicchiati come sempre a scrivere, / a spiegare l’imperdonabile a una moglie, a una madre, a un’amante”) o una delicata operazione per una grave forma di artrite reumatoide che la tormenta sin dal primo anno di matrimonio (“Rottami metallici per le radiazioni / Fiore di ferro forgiato, donna di Picasso, sorella”). La svolta consegue alla morte del padre (“vecchio albero di vita / vecchio uomo di cui ho desiderato la morte”), avvenuta nel 1968, e – due anni dopo – a quella, per suicidio, del marito, entrambe evocate nella poesia “When We Dead Awaken” (“Quando noi morti ci destiamo”) del 1971. E il titolo, molto significativamente, è tratto da Ibsen, l’autore di Casa di bambola.

A partire proprio dal 1971 la militanza nel movimento femminista diviene costante e fondamentale, fino alla pubblicazione nel 1976 del saggio Of Woman Born (Nato di donna), sulla maternità come esperienza e come istituzione. Incidentalmente si può anche notare come la grande letteratura sia sempre presente in Rich, quasi come un riflesso condizionato. Questo titolo è tratto infatti da Macbeth, come in precedenza quel “Donne, non vale la pena sospirare” pure viene da Shakespeare, Much Ado About Nothing (Molto strepito per nulla, II, 3).

La notorietà, il suo essere ormai divenuta personaggio pubblico e carismatico, viene sancita dall’assegnazione nel 1974 – ex aequo con Allen Ginsberg – del National Book Award e dalla ufficializzazione, non appena anche il terzogenito diviene maggiorenne (“Oh se potessi sentirti ora / balbettare un dolce suono animale! / Se dal mio seno scorresse di nuovo il latte…”), del suo legame con Michelle Cliff, affascinante donna di colore di origine caraibica alla quale Rich dedica Twenty-One Love Poems (Ventuno poesie d’amore): “Figure di donne balzano nell’estasi / verso la grotta della sibilla o l’antro eleusino”.

Con il 1974 il canto di Adrienne Rich si libera in una nuova fase creativa, giungendo a vette dickinsoniane nella descrizione delle fattezze di eroi-donna, come Renée Falconetti che presta il volto alla Giovanna d’Arco di Dreyer (“Il silenzio che denuda / capelli tosati…”) o a soglie emotivamente hopkinsiane nella narrazione della tragedia della scalatrice sovietica Elvira Shatayeva, capo di una spedizione di sole donne, morte assiderate in una tempesta sul monte Lenin nell’agosto 1974. Gli anni successivi sono anni d’amore, onori e militanza, con l’impegno nella redazione della rivista lesbica-femminista “Sinister Wisdom” (Saggezza sinistra), il conferimento del premio della National Gay Task Force, i prestigiosi incarichi universitari a Cornell e Stanford, le lauree honoris causa da Brandeis e Wooster, a dimostrazione del fatto – ben sperimentato per altro anche da Allen Ginsberg – che negli Stati Uniti il sistema cultura-contestazione-inquadramento funziona a due marce: ignorare e/o boicottare qualunque forma di sperimentazione (per esempio poetica) fino a che essa è graffiante; quindi inglobarla, ricoprendola di incarichi, onorificenze e denari, trovandole una nicchia nel sistema e ben definendola.

Con Rich, per quanto attiene alla produzione poetica, anche il termine “sperimentalismo” può però risultare inefficace e fuorviante. La sua capacità innovativa non sta infatti nella forma, che nelle ultime raccolte torna a essere tendenzialmente chiusa, come negli esordi tanto apprezzati da Auden; né nell’intarsio di citazionismo intertestuale, tipico di tanta produzione d’area modernista. Né in una sorta di surrealismo imaginifico, che più che a Auden ci riporta alla prima produzione di altri autori trentisti come Spender o MacNeice o – per l’appunto – surrealisti – come David Gascoyne. La sua originalità consiste nella capacità di proporre al lettore una poesia “onesta”, costi quello che costi. Còlto e fatto proprio questo dato, al lettore di Rich non resta che abbandonarsi a una poetica essenziale, dove moralità e metrica, idealità e forme poetiche appaiono strettamente dipendenti da qualcosa che spesso manca – o viene a mancare – a molti poeti: avere realmente qualcosa da dire.

Adrienne Rich, che in una intervista del 1991 parla con entusiasmo della sua scoperta delle Ceneri di Gramsci, il suo bruciante “qualcosa da dire” sa anche benissimo a chi vuole dirlo. E lo fa nella poesia “Dedications” (Dediche) che appare nella raccolta An Atlas of the Difficult World (Un atlante del mondo difficile) pure apparsa nel 1991. Con funzione vocativa la poesia di Rich è volta a colei che la legge “mentre il metrò rallenta la corsa”, prima di salire le scale verso “un nuovo tipo di amore”; o che la legge in piedi in una libreria, o la trova “in una stanza in cui è accaduto troppo per poterlo sopportare”; ma soprattutto è dedicata a colei la cui lingua-madre non è l’inglese: “Di alcune parole non conosci il significato, mentre altre ti fanno continuare a leggere / e io voglio sapere quali sono”.

Eco whitmaniana riportata ai tempi nuovi del meticciato linguistico? Perché no? Ma nel solco puro tracciato da “Calamus”, almeno fino a Midnight Salvage (Salvataggio di mezzanotte), la raccolta che nel 1998 ha sigillato un cinquantennio di lotte e di scandali, di vita vissuta con ferocia e tenerezza, di arte. Perché, se il contraltare storico al Gay Liberation Front fu il Women’s Rights Movement, Adrienne Rich ad esso riuscì a imporre un ulteriore, leggendario step, configurando il lesbismo come l’ineluttabile esito del femminismo.