Lame

da | Ott 7, 2016

E’ da poco uscito, per L’orma, Lame di Gabriele Frasca, a cura di Riccardo Donati e Giancarlo Alfano. Il volume è un’«edizione critica d’autore» e al tempo stesso un libro nuovo sulle varie forme della maniera neometrica, introdotta da Frasca agli inizi degli anni Ottanta. Contiene le raccolte Rame, Lime, seguite da Quarantena e Versi dispersi. Presentiamo una scelta d’autore di nove testi che ripercorrono il volume.

Che piega espelle (da Rame)

….che piega espelle questa pulsazione
che plasma suoni sulle piaghe inferte
spingendo pece nelle falle aperte
per cui diventa affetto ogni emozione
….e quale plesso ancora predispone
di percezioni che si dànno incerte
la nicchia dove si compone inerte
un pensiero per ogni repulsione
….e poi da dove affiora questa forma
che viaggia voglie quanto più s’appresta
a raggelare vita nella norma
….come se infine ciò che si protesta
vivo vivesse per calcare un’orma
la testa si risponde dalla testa

*

Orologio a pendolo (da Lime)

….da zero fino a dieci. la pausa giusta per guardarmi intorno. e dopo alla rovescia. da nove fino a zero. e poi di nuovo su dall’uno al dieci. il conto è facile se persino io. perso nell’universo enumerabile. infine mi ritrovo. e non per dire. anzi ci sto da re nel mio sistema. dritto e rovescio. d’ingannare attese. ah che volete sono proprio in tanti coloro che mi chiedono li aspetti. non ch’io schizzi veloce più del vento. o che abbia su di loro il mio vantaggio. eppure non ce n’è. fra i tanti che frequento. o gli eventi che accadono nel mondo. chi non si faccia attendere. anche per un bel pezzo. a partire chessò dalla mia donna. a finire all’amico più solerte. o al principale. e poi magari all’autobus. e manco a dirlo al medico. insomma non ce n’è proprio nessuno che non mi tocchi al dunque d’aspettare. da qualsiasi cosa poi dipenda. dal fatto che propendono ai ritardi o dal mio giungere invece in anticipo. inevitabilmente. come al solito. oh certo che ne sono consapevole e non da adesso di trovarmi sempre prima sul posto d’ogni appuntamento. prima di tutti e prima che sia il tempo. mi piace prepararmi che volete. ad ogni nuovo incontro. e penso che la testa. insomma quella cosa che è nella testa e che diciamo testa. occorra che s’abitui al loro impatto. a quello che ne so del mio dentista. o a quello dell’idraulico ad esempio. e che nulla addomestichi l’attesa. e niente mai ne attenui la tensione. se non un bel conteggio. da zero fino a dieci. e dopo alla rovescia. da nove fino a zero. e poi di nuovo su dall’uno al dieci. convinto come sono da un bel po’ che a ben vedere nulla ricominci. ma oscilli invece il tempo come un pendolo. avanti e indietro in un moto perpetuo. insomma mica sono nato ieri. nemmeno l’altro ieri a dire il vero. e so quanto infinito c’è nel limite. e quale sogno infine si nasconda nel provare a forzarlo con un salto. per questo nulla segue dopo il dieci. almeno nei miei numeri. nulla che non sia invero l’incremento della potenza stessa del rovescio. che m’impedisce al dunque ch’io misuri. e oltraggi nel raffronto. vita con vita. evento con evento. o che m’affidi infine allo statistiche almeno il tanto necessario a imporre un margine plausibile d’errore per ogni eventuale previsione. tipo che la mia donna. a tener dietro al suo tempo d’attesa. equivarrebbe forse a un paio d’autobus. se non piuttosto ad un dentista e mezzo. ed altre simili comparazioni dei tutto incomparabili. e persino irridenti a ben pensarci. no. c’è questo di buono nei miei numeri. a tacer d’altro. non sono granelli. men che meno lancette. potrei paragonarli invece a un lume. che s’accende e si spegne appena brilla come avviene talvolta nelle insegne il successivo inderogabilmente. e così scruto il fondo. da cui verrà chi attendo. tranquillo e fermo almeno all’apparenza. diciamo a prima vista. perché a guardarmi con circospezione qualcuno penserebbe forse a un tic. le labbra con sussulti impercettibili. infatti quanto più lo sguardo mente e già trasogna un volto. fanno ogni volta che in sua vece arrivi un numero poi l’altro e l’altro ancora. almeno a fior di labbra. e fino a dieci. la pausa giusta per guardarmi intorno. scrutare il niente che mi fa da sfondo. e dopo alla rovescia. da nove fino a zero. e poi di nuovo su dall’uno al dieci. finché tutto combaci. ad ogni nuovo salto di livello. da un cardinale all’altro. e al successivo multiplo di mondo. o almeno fino a quando all’improvviso. e proprio quando meno me l’aspetto. non decidano tutti quanti sono di farsi alla buonora infine addosso. e giungere d’un sùbito a fissare a un qualsivoglia numero l’avvento. uno per volta e senza diserzioni. per primo l’autobus malgrado il traffico. e tutti gli altri dopo. la mia donna che proprio non poté sbrigarsi prima. il principale che fra tante urgenze nemmeno trovò il tempo d’avvertirmi. e il padre confessore cui andò per le lunghe il funerale. sia come sia tutti alla fine giungono. e prima o poi rivanno. questo è certo. rivanno così come son venuti. da uno fino a dieci e poi al rovescio. da un mondo immaginario al suo riflesso. senza ch’io trovi il punto. e proprio quello esatto. che mi riveli il resto irrisolvibile. il segno incancellabile di gesso. il conto in cui è cifrato il mio ritratto

*

Alessandro Magnasco, Rovine con ciarlatano e fanciulli (da Rame)

….se a gran voce vi chiamo dove il bianco
di piombo e lo smaltino innalza gli archi
consunti giù dal cielo e sopra il banco
su cui poggio le membra d’azzurrite
e terra verde attendo che s’imbarchi
lo sguardo che contrae le vostre vite
….fanciulli cui bastò l’imprimitura
e la vernice della terra d’ombra
sarà perché persino la natura
verace e densa non vi riconosce
se non il sogno che la carne ingombra
e vi piega affannati sulle cosce
l’intero tempo a risputarvi in gola
le favole da prendere in parola

*

Un sonetto di Shakespeare (da Versi rispersi)

….Dunque odiami se vuoi, e fallo adesso,
Ora che il mondo m’ostacola ogni voglia,
Piegami irato come il fato stesso
E non cadere tardo estrema spoglia,
….Quando dal cuore il male avrò represso,
Per aggiungervi un ultimo cordoglio;
La pioggia all’alba segue il vento spesso
E, se è decisa, la mia fine voglio.
….Se vuoi lasciarmi, ultimo non lasciarmi,
Dopo che abbia assaggiato già il livore
Di dolori meschini, ma con le armi
….Dei primi vieni, e da’ il colpo peggiore.
Così saprai, sparso il tuo vuoto, farmi
Timido e incerto ogni altro mio dolore.

*

Spiaggia settembre del ’64 (da Lime)

stasera vedi staglia il tuo residuo
la minuscola falla da cui passa
l’oceano dei rimbrotti la grancassa
dei debiti e dei saldi l’individuo
che ristagna qui dentro dove grido
il tuo nome senza eco senza che
mi dica me senza mi dica vedo
il luogo dove sto dove io che rido
sto fisso nel sorriso della posa
non ricordando il gesto né il perché
né il come o l’oggi esatto che non posa
e mentre con il tempo il tempo predo
sento la tua distanza nel divieto
che mi ricaccia qui dove rimango
quello che fui per te lungo la falla
da cui passo e ripasso e viene a galla
la colpa stessa per cui canto e piango
come se fossi al fondo della scala
e non sentissi il colpo della pala
che mi fa padre di mio padre e stampo
che mi ricalca tuo senza più scampo

*

Prossima postuma (da Versi rispersi)

….credete poi che andarsene a ritroso come pure talvolta occorre fare. magari con l’intento dell’ennesima edizione corretta alla bisogna. di un testo antico quanto il desiderio di divenire o rimanere tale. aiuti a ripercorrere le tracce di chi nemmeno sembrerebbe in vita. quanto meno a cercarselo nel fondo del magazzino che alla fine siamo. o non è invece vero che al contrario sconnesso il tempo a suo modo si vendica. e fa d’un tratto che la prospettiva si rovesci del tutto inaspettata. lasciando dietro i fori della maschera un paio d’occhi talmente sorpresi. di spingere lo sguardo tanto innanzi e di trovarvi dipinta dal vero. quella voragine che pure aveva attratta l’attenzione col suo insistere. innanzi tutto lì dove sembrava solido il suolo e senza cedimenti. da non sapere più nemmeno come provare a ritornare su quel volto. da povero coglione ancora in boccio che nemmeno l’avrebbe sospettato. d’essere in posa per la candid camera allestita per lui da un vecchio stronzo. delle due l’una o sono invece entrambe di quelle che a dispetto della logica. appaiono domande incompossibili e nello stesso tempo ben redatte. e dunque l’equazione formalmente perfetta del non essere risolta. no no non è così che si recupera il solito ammontare d’occasioni. non quelle almeno riportate perse dal proprio dispendioso portolano. su cui si segnalò come interdetto ogni golfo o possibile riparo. né tanto meno fu poi quello il modo di cifrare se mai nel rendiconto. i crediti inesatti e i pagherò da esigere e onorare a tempo debito. è tutto invero un caso come càpita e sembra non lo sia perché se togli. e con il tu intendo il tu generico e un po’ piacione che mi prende all’amo. se insomma togli il tempo ch’è in eccesso e che poi a ben pensarci è tutto il tempo. o quasi tutto te ne resta solo quello che stai impiegando a ricercare. l’altro che in fin dei conti hai già impiegato per metterne da parte quanto basta. per avviare almeno la ricerca senza i fondi che occorrono a concluderla. ed è per questo che poi tutto quadra e il giovane imbecille presuntuoso. sul successore ottuso e affaticato calza così a pennello che è uno spasso. vederli andare via quasi a braccetto stagliati sopra il ciglio dell’abisso.

*

Suez (da Lime)

….se mai provassi, provassi a dirmi, via si uscirà pure da qualche parte, e aggiungessi, in qualche modo, e in qualche modo si dovrà finire, di finire, finirebbe col piacermi, non ci crederei ma finirebbe col piacermi, e se, brillati come i fuochi di sant’elmo, rivedessi i giorni, e immaginassi di viverli, ma ripuliti, dall’eccedente, dai tempi morti, dalle lentezze del presente, e questo lo chiamassi futuro, il fottuto futuro, mi fotterebbe col piacermi, sì, col farmi sentire diffuso fra il prima e il dopo, e poi ancora deluso dalla voglia di volere, volere di nuovo, ripetere astuzie e inganni, per dirli voglie vere, passioni, fino a sentire quanto spinge, in finte mete, muto il motore al rapido tagliere, dove ciascuno placa la sua sete, oppure, oppure se chiedessi soltanto qual¬cuno come me, cui dare un nome, ma un nome vecchio, o se soltanto mi bastasse portare le mani agli occhi, o gli occhi a loro, per poter dire loro
……………..siate opachi, sui miei palmi, siate opachi, sono il taglio dove s’incontrano due mari, quello di prima, quello di dopo, e aggiungessi di non conoscerne lo scopo, né dove questa corsa, né quando queste ore dorate, finirebbe col pia¬cermi, non ci crederei ma finirebbe col pia¬cermi, eppure, sai, io e gli altri, lassù, in questi tempi misti, fummo così tristi, così tristi

*

Cinque ricette dal Chemista domestico (da Rame)

fossi quello dei bagni così gli arabi
invidiavano il gusto del massaggio
eppure sappi con un solo assaggio
ti farò rigido più della bara

non copuli la notte con la mano
d’una parola amplificata in ombra
meglio l’insonnia che la mente sgombra
di tutto lo squittio che dici umano

lei voleva morire nel terrore
fra i più aspri tormenti della grata
metteva su la biancheria migliore
chissà se l’hanno infine accontentata

persino il tuo piacere sa di sale
ed è tutta ‘sta chimica che cola
che lascia naso all’aria l’animale
e l’anima se c’è col nodo in gola

scivola via dai cancelli d’acciaio
tieniti piatto e passaci attraverso
lo vedi sei finito in un vespaio
il giorno che hai sputato il primo verso

*

Quelli che sono ancora asserragliati in casa (da Quarantena)

Quanti ne sono ancora, e stanno sempre a casa,
magari in camera da pranzo,
con le posate in mano e col sorriso
di circostanza, che malgrado abrasa
via dalla testa la mascherata del viso,
a tempo li denuncia ognuno avanzo
di quell’affetto che li colse in vita
dal sobrio anonimato in fondo condiviso
con la carne che incombe e regge la partita;

quelli rimasti ad occupare l’edificio,
persino i morosi raggiunti
da un ordine di sfratto esecutivo,
o gli altri che nemmeno sono briciole
in tempi d’abbondanza, e l’esperienza in vivo
di quanto in vitro invero si è consunti
dalla sostanza stessa che preserva,
al punto che sorprende a tanto dall’arrivo
trovarli in testa al gruppo e non nella riserva;

quanti ne sopravanzano, e furono schiere,
dei troppi presunti dispersi
una volta per sempre, che nemmeno
in sogno osarono esporsi alle fiere
dove il senso di sé desala il suo veleno,
e lascia solo un coro di sommersi
a intonare il mugugno di maniera
di questo nostro presentare il muso al freno
che tanto ci distingue, e sfiata la materia;

e quelli consumati a furia d’invocarli,
che logori e assorti nei loro
abiti smessi, continuano appena
a seguitare, come fanno i tarli,
a rosicchiare intorno senza darsi pena
che più l’inghiotte ad ogni morso il foro;
e i troppi ancora nascosti negli angoli,
e quasi non li vedo, e ingrossano la piena:
non sono roba mia, ma quello che rimango.

Ah che volete, non crediate sia la croce
che m’esalta, o piuttosto una cartella
da tenere aggiornata, eppure
nemmeno faccio in tempo a schiarirmi la voce,
che torno a raccontarmi le loro imposture.
Mi dicono di me, di come quella
volta pensai d’averla fatta franca,
ad esempio, che stronzo, o di come al contrario
nessuno di loro si stanca
di mangiare con me, recitarmi il rosario,
cacare insieme nello stesso buco,
e soprattutto, figuratevi, dormire,
per sognare con me di come si travasano
uno per volta, e sempre per le stesse mire,
quelli che sono ancora asserragliati in casa.

Immagine: Luca Forte, Natura morta.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).