La traduzione d’autore

da | Mar 25, 2014

Il termine ‘traduzione d’autore’ così come viene inteso generalmente vuole indicare e circoscrivere quelle versioni compiute da scrittori – e più in particolare da poeti –. Questa discriminante così selettiva è da considerarsi come uno strumento privilegiato per investigare in modo minuzioso una (ri-)produzione lirica che è sempre «sorretta da principi estetici, quindi con interessi anche allo stile e alla creatività»[1]. Altrettanto importante e per nulla accessorio è poi esaminare tale fenomeno da una prospettiva diversa, e cioè da quella della storia letteraria tout court e tenere a mente che alcune di queste traduzioni sono addirittura parte fondante e integrale della poesia nostrana. Si consideri, ad esempio, quello che viene considerato come il primo testo della Scuola siciliana: la canzone Madonna, dir vo voglio di Giacomo Da Lentini che apre il Canzoniere Vaticano Latino 3793 che è, de facto, una traduzione di A vos, midons, vuelh retraire en chantan di Folchetto di Marsiglia. Quando però si mettono in evidenza anche le importanti novità applicate alla costruzione retorico-stilistica da parte del poeta federiciano, a ragione si dovrebbe parlare di imitazione; e non è un caso che il canto XXXV di Leopardi, intitolato appunto Imitazione, è a sua volta la traduzione di La feuille di Antoine-Vincent Arnault. Mi preme rammentare che il significato del termine imitatio non va confuso con quello ormai corrente − ma avviato nel Romanticismo − di una manierata e avvilita riproposta di modelli prestigiosi; o, magari, frainteso con il plagio. Semmai l’imitazione, almeno fino al classicismo di matrice umanistico-rinascimentale, è da intendersi come una ricerca etico-estetica che, fondata sull’esempio dell’antico, si confronta con il modello per verificarne il superamento[2]. In questo caso si parla anche di aemulatio.

Secondo Steiner dal Seicento invero si è passati a tre campioni metodologici: il primo è di una letteralità stretta, fondata sul confronto parola per parola (così Dryden); il secondo è la riformulazione, fedele ma autonoma (Goethe) e il terzo che si fonda sulla ri-creazione (Jakobson) [3]. In effetti ciò è acclarato in modo abbastanza gagliardo quando si pensa che il dibattito teoretico attorno alla prassi traduttiva abbraccia per intero – da Cicerone a San Girolamo a Lutero – la nostra storia culturale, e s’innesta con quello più squisitamente letterario e dunque, per rimando, al concetto d’imitazione a cui è conciliabile e assimilabile[4], almeno fino all’Über die verschiedenen Methoden des Übersetzen di Schleiermacher (1813). Così Bruni nel De interpretatione recta (1420) intende la traduzione in modo totalizzante, tanto che chi ci mette mano deve «rivolgere la mente, l’animo e la volontà all’autore tanto da incarnarlo»[5]. Pure per Leopardi, traduttore in proprio e teorico, «La piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione»[6]. In queste due citazioni si può constatare come nella storia della traduzione poetica esista un atteggiamento pragmatico che concentra la propria attenzione sulle modalità traduttive (come si traduce?) e che è antagonista a quello ontologico (cos’è la traduzione?) e più prettamente a quello etico (si può tradurre?) che si preoccupa di sottolineare la dipendenza tra unicità dell’intuizione e dell’artefatto. Esempi in questo senso sono di certo Dante, per cui «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»[7], mentre Croce ribadisce che «ogni espressione è un’unica espressione»[8]. La novità di Leopardi, pur se sfrutta una terminologia per noi ormai alterata, è invece più compatibile con la nostra sensibilità nella sua scelta di un approccio tutto fondato sulla prassi: tant’è che è stata recepita pienamente da alcuni poeti-traduttori contemporanei. Mi riferisco alla collezione di quattro traduzioni oraziane di D’Annunzio che intitolò Imitazioni e furono incluse nella prima edizione di Primo Vere (1879), mentre nella seconda edizione pubblicata l’anno dopo si arrivò a 19 testi (15 dal latino e 4 dal greco) intesi, in modo programmatico direi, come Tradimenti. Ma penso anche alle Imitazioni di Bertolucci (1994) e per quanto non così definite, un discorso simile vale anche per i Lirici greci e il Catullo di Quasimodo (1940) e per quelle senza testo a fronte negli Esercizi di Giovanna Bemporad (1948), di Cristina Campo ne La tigre assenza (1991); e quelle raccolte da Deidier in Gabbie per nuvole (2011). Alcuni poeti poi non solo condividono l’aspetto intellettuale delle idee leopardiane, ma vi aderiscono fino ad autocommentarsi e, in ciò, esaltando l’appartenenza culturale al modello. Così, difatti, si esprimono Caproni: «Io non chiamo mai le mie delle traduzioni, ma, sull’esempio leopardiano, le chiamo delle imitazioni»[9], e più recentemente Buffoni, quando dice che il suo Quaderno è appunto come una «messe di traduzioni e imitazioni»[10].

Una metodologia del genere, per quanto a primo acchito possa apparire sconnessa, al contrario neutralizza l’odiosissimo approccio manicheo tra una traduzione fedele alla lettera o al senso[11]. Questo perché un tale atteggiamento non è corrotto dallo stimolo agonistico di superamento dell’originale, quella emulazione che dicevo sopra e che per Voltaire è la ragione per cui «i traduttori nella loro maggioranza guastano l’originale per l’ambizione falsa di sorpassarlo»[12]. Non può essere un caso, io credo, che ad esporsi verso un modus che rispetti in modo inequivocabile lo stile del testo di partenza sia proprio Leopardi – sempre in bilico come uomo e come poeta tra Classicismo e Romanticismo – trascurando di netto quella competizione di matrice individualista che ha avuto principio proprio nel Settecento[13].

Chiarito dunque cosa s’intende per imitazione nella sostanza e non nella eco del termine, non può stupire come le collezioni di traduzioni siano considerate in modo unanime come parte integrante della bibliografia di un poeta, e questo è ancora più rilevante quando si constata che sia in Italia sia all’estero davvero in pochi sono quelli che si sono sottratti al confronto con una lingua forestiera. La traduzione è esperita come un esercizio che ha una piena autonomia rispetto allo scopo di diffondere dei testi allogeni. Questo non vuol dire che le versioni, per quanto incluse all’idea di prodotto letterario, possano essere considerate come res autonoma, ma perlomeno come un gesto letterario che sfoga la necessità di emancipare il traduttore dal ruolo subalterno rispetto a quello dell’autore originale[14].

A partire dal secondo Novecento l’esposizione a questa prassi è stata talmente diffusa e significativa anche perché sollecitata da editori convinti che la traduzione d’autore apporti un certo prestigio alla pubblicazione. Questo vale per alcuni progetti editoriali come quello einaudiano della collana «Scrittori tradotti da scrittori» e l’altro della collana «Assonanze» della milanese SE che, negli anni, hanno coinvolto autori come Penna, Bilenchi, Ginzburg, Morante, Alvaro, Sanesi, Magrelli. Un discorso a parte, invece, andrebbe fatto per alcuni poeti-traduttori come sono Pasolini, Fortini, Raboni, Caproni, Valduga, Grasso che nella traduzione risolvono delle problamatiche estetiche e stilistiche riproposte parimenti nelle proprie opere, mentre altrettanto originale e imprescindibile è stato l’avvicinamento alla poesia americana per Pavese che, com’è noto, non non lo fece esclusivamente per il suo ruolo alla Einaudi.

Una prova di quanto dico si può riscontrare nel fatto che quando viene pubblicata l’opera omnia di un autore, generalmente le traduzioni liriche vengono incluse perché concepite come parte integrante del corpus. Anzi, la critica ormai tiene il genere in una considerazione così alta che al progetto unitario e totalizzante di Vita d’un uomo di Ungaretti (che già conteneva degli esempi) è stato recentemente dedicato un «Meridiano» tutto nuovo (Traduzioni poetiche; 2010), integralmente impegnato a completare quel progetto di Vita d’un uomo, dando un messaggio potente alla critica. Il vistoso caso ungarettiano conferma come questi lavori vengano esposti con sempre maggiore convinzione come una produzione a sé, contraddistinta da una propria fisionomia che ne vuole esaltare la dignità creativa[15]. In questa direzione un’esperienza del genere spesso si è concretizzata in modo adeguato in quelle pubblicazioni autonome che sono i Quaderni di traduzioni di Montale, Caproni, Sereni, Sanguineti, Fenoglio, Giudici, e oggi Buffoni, Deidier, Zuccato.

Da queste considerazioni scaturisce un corollario che può aiutarci a capire la dinamica che porta un poeta a tradurne un altro. Una prima ipotesi è che la traduzione d’autore faccia coincidere due personalità. Questo è comprensibile e condivisibile ma, in casi più eccezionali, è vero anche il contrario: quando si pensa che Caproni nelle sue scelte adottava una strategia tutt’altro che assimilabile a quello che crediamo sia il buon senso:

Sembra piuttosto che ogni volta io mi sia accanito a cercar proprio gli autori a me (e fra loro) più dissimili, quasi animato dal perverso gusto di sudar su strutture e laterizi il più possibile distanti dai miei normali strumenti[16].

Detto ciò, mi preme sottolineare ancora un punto, e cioè che sarebbe inutile contraddire la convinzione “che senza esser poeta non si può tradurre un vero poeta”[17], una restrizione come questa non è da intendersi letteralmente: perché una tale premessa si risolverebbe esclusivamente nell’esaltazione di un noioso e non verificabile precetto. Semmai è una condizione che alla coscienza lirica coinvolge una pratica della poesia, perché:

 Solo l’esercizio della poesia, l’esperienza dei suoi interni – di faticosa costruzione e di illuminazione – può garantire una prossimità di ascolto, di comprensione, di percezio-  ne profonda, al testo originale. E c’è da aggiungere che chiunque traduca poeticamente un poeta è, necessariamente, nel corso di quell’esperienza di traduzione, un poeta, anche se non ha mai pubblicato suoi propri versi[18].

 Allora, accogliendo senza troppo fastidio la situazione approssimativa della traduzione come di un «quasi»[19] mai pienamente realizzato, ci conviene affermare che «siamo di fronte a una traduzione quando almeno un elemento del modello originario va perduto»[20].

Per l’insieme delle ragioni che ho esposto si capisce perché la critica della traduzione pretenda negli ultimi anni un interessamento sempre più intenso alla traduzione d’autore, perché analisi di questo genere possono aiutare a capire in modo autre sia il poeta tradotto sia quello traduttore: dove dell’uno si apprenderà il bacino che è riuscito a occupare nel nuovo campo linguistico, mentre dell’altro si può provare a sondare se la frequentazione così ravvicinata  abbia permesso di contaminare la propria scrittura.

 

[1] R. Bertazzoli, La traduzione: teorie e metodi, Roma, Carocci, 2006, p. 35.

[2] Cfr. di P. Bembo, oltre al secondo libro delle Prose della volgar lingua (1525), anche l’epistola De imitatione (1512).

[3] Cfr. G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione (1975), Milano, Garzanti, 1994, pp. 306-316.    

[4] Il problema è trattato in modo chiaro nel terzo capitolo in G. Vincenzi, Per una teoria della traduzione poetica, Macerata, Edizioni Università Macerata, 2009, pp. 99-114.  

[5] L. Bruni, Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino, UTET, 1996, pp. 152-159.

[6] G. Leopardi, Zibaldone, 25 ottobre 1821 [1988-1989].

[7] Dante, Convivio, I, cap. 7, 14.

[8]B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1928, p. 23.

[9] G. Caproni, Era così bello parlare: conversazioni radiofoniche, a cura di L. Surdich, Genova, Il melangolo, 2004, p. 144.

[10] F. Buffoni, Una piccola tabacchiera. Quaderno di traduzioni, Milano, Marcos y Marcos, 2012, p. 13.

[11] Esempi celeberrimi di chi ha preso parte a questo dibattito sono Cicerone: «verbis ad nostram consuetudinem aptis»: De optimo genere oratorum, IV, 14; messaggio ripreso da Orazio: «nec verbum verbo curabis reddere fidus | interpres, nec desilies imitator in artum»: Ars poetica, 133-134; e da San Girolamo: «non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu»: Liber de optimo genere interpretandi, Epistola a Pammacchio, 57, 5.

[12]Citato in L. Anceschi, I poeti traducono i poeti, in «L’altro versante. Quaderni di poetica e poesia», I, 1983, pp. 18-19.  

[13] Vedi A. Bruni, R. Turchi (a cura di), A gara con l’autore. Aspetti della traduzione nel Settecento, Roma, Bulzoni, 2004.

[14] Cfr. a tal proposito sia L. Venuti, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, London, Routledge, 1995, sia Y. Bonnefoy, La comunità dei traduttori, Palermo, Sellerio, 2005.

[15] Così in G. Mounin, Les problèmes téoriques de la traduction, Paris, Gallimard, 1963 e in G. Steiner, cit.

[16]G. Caproni, Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, pp. 63-64.

[17] G. Leopardi, Preambolo alla traduzione del libro secondo dell’Eneide, in Poeti greci e latini, a cura di F. D’Intino, Roma, Salerno Editrice, 1999, pp. 321-322.  

[18]A. Prete, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 26.

[19] Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003.

[20] V. Magrelli a A. Monda: Valerio Magrelli: cuore di poeta, in «RaiLibro. Settimanale di letture e scritture», V, 92, in:  www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=39 [28.06.2012].

Immagine: Ryan Gander, “How the present can pierce the past”, 2013.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).