La storia e la vita. Un’intervista inedita a Andrea Zanzotto

da | Ott 20, 2021

 

Quella che segue è un’intervista inedita ad Andrea Zanzotto, tratta dalla trascrizione di un colloquio fra Zanzotto e Sergio Petrella (Pieve di Soligo, 24 maggio 1985). Pubblichiamo in chiusura il saggio di Petrella “L’oltraggio della parola. Per una lettura fenomenologica della poesia di Andrea Zanzotto”.

 

PETRELLA: la tensione verso un rinnovamento delle tecniche di scrittura iniziato con il post-ermetismo, se da un lato ha aperto un nuovo orizzonte di ricerca verso moduli espressivi che volevano essere di rottura rispetto a quelli della tradizione, dall’altro ha portato con sé elementi contraddittori rimasti irrisolti e pertanto incapaci di costituire valide alternative per un discorso poetico letterario.

ZANZOTTO: tracciare un quadro sistematico dell’odierna scrittura poetica ossia di tutto ciò che è venuto fuori negli ultimi anni è un’impresa estremamente difficile perché si ha la sensazione di un qualcosa in cui tutto convive con il suo contrario. È un quadro che può definirsi post-moderno nel senso che esistono solo vacue forme di ciò che è stato il moderno o anche l’antico e che si equiparano sullo stesso orizzonte e tutto si equivale a tutto e contraddice tutto e afferma o conferma tutto. Insomma anche se fortunatamente non c’è mai stata una vera omogeneità di panorama espressivo, pare che oggi si assista ad un sovrapporsi di stili contrastanti proprio perché si è di fronte ad una saturazione. Tutto il nostro secolo è stato corroso dal desiderio e dalla ricerca di novità a qualunque costo, di rottura o di ripresa dopo la rottura. Si avverte dovunque un senso di stanchezza, un manierismo o dei manierismi per cui se si eccettua qualche personalità abbastanza netta e precisa di giovani poeti, ciò che si può notare è la prosecuzione, un po’ a vuoto, dello sperimentalismo e dell’avanguardia a volte caratterizzata da una certa vivacità ironica. C’è poi una vastissima produzione di plaquettes che macinano una specie di linguaggio decomposto che però negli ultimi vent’anni è stato sottoposto ad una serie di stravolgimenti tali da non poter essere considerate più delle operazioni particolarmente significative. C’è stato poi il momento del pubblico e della poesia (si pensi all’antologia di Cordelli) seguito dalla pubblicazione di un certo numero di antologie in cui si presentavano alcuni giovani autori animati dal desiderio di evadere da un certo accademismo scolastico e sorretti da una specie di istinto brado che sembra uscire fuori dal vuoto e che li qualifica già come post-moderni. È importante sottolineare l’importanza letteraria di questi giovani autori caratterizzate da un certo essenzialismo ripreso da filoni già noti. I bigliettini poetici facevano già pensare ad una ripresa quasi ungarettiana della parola prosciugata al massimo tale che si poteva parlare di un neo-analogismo piuttosto che di un neo-ermetismo. Personalità anche molto diverse tra loro si sono orientate verso questa tendenza neo-analogica: accordi di parole messe a contatto l’una con l’altra in modo da creare una musica intellegibile con scarsi riferimenti alla realtà, appunto paradisi artificiali di parole. Intorno a queste esperienze che hanno fatto capo alla Società di poesia, si sono ritrovati poeti che erano partiti da punti abbastanza diversi: Puppi che dall’area letteraria della linea lombarda si è spostato sempre di più verso un’espressività astratta costituita da frasi sospese nel vuoto; gli ex-epigoni della neo-avanguardia, che pur conservando certe spezzature si sono spostati verso un tipo di linguaggio non referenziale e analogico, mentre l’esperienza poetica di Viviani, tipica per il gioco lacanistico, ricca di calembours per le fratture e per le spezzature linguistiche si è poi marcata di questo neo-analogismo. De Angelis, rispetto a questa tendenza neo-analogica appare il più coerente, in quanto la sua esperienza poetica attraversa il periodo della neoavanguardia, salvaguardandone le tecniche espressive e approdando in maniera più coerente verso questa metafisica della parola intesa anche come metafisica rovesciata che è appunto l’analogismo. In Conte è, invece, presente una forza mitica legata ad una tradizione del mito in cui di rado c’è una distorsione del significante, una distorsione già data in partenza dalla ripresa di una tradizione mitica e da una tradizione protonovecentesca (Onofri). Ci sono poi parecchi scrittori che conservano la tradizione dell’impegno, di una poesia il cui riferimento alla socialità è radicato e netto, caratterizzata da una tensione analogica rispetto ad un programma di impegno e di incisione sociale proprio perché fare il discorso politico dell’impegno non era più possibile. In questo panorama variegato c’era la sensazione comune di una compresenza di stili e quindi una compresenza di manierismi. Per quanto riguarda la novità che l’ondata della neoavanguardia e soprattutto dei Novissimi ha portato con sé, essa non toccava il piano letterario quanto l’atteggiamento e il modo di essere dal punto di essere della sociologia letteraria. Anche per tutto l’apparato teorico che mobilitavano, denunciava cose che tutto sommato si sapevano, relative ad una situazione traumatica caratterizzata dal passaggio da un’Italia agricola, artigianale e paleo-industriale ad un momento di incalzante pubblicità. Il vero e unico cambiamento per la letteratura avvenne quando un industriale dei libri (Giangiacomo Feltrinelli) favorì una specie di balzo a tipi di pubblicità allora non immaginabili per quel che riguardava un fatto letterario. Sembrava allora un’operazione anche opportuna, in un certo senso, ma grossolana e ingenua e poi molto spesso anche frigida dal punto di vista della partecipazione reale. Scrivere poesie significava cambiare dentro, esistere in modo diverso. Per quanto concerne l’aspetto più ludico, del giocherellare, (si pensi a Nanni Balestrini che faceva poesie con i primi IBM) c’è da ricordare che da molti anni esisteva una rivista, Il caffè di Vicari che ospitava tutta la letteratura bizzarra, avanguardistica e soprattutto quella dove c’era in mezzo l’umorismo. Certo, con il passare del tempo, si sono rimescolate tutte le carte; è sopraggiunto il Sessantotto e i Novissimi si sono visti superati da quella visione del mondo in cui sembrava che tutto dovesse cambiare. In realtà tutte le alternative proposte erano tarate da un’insufficienza ideologica: da una parte la scarsa presa di contatto anche con i bisogni reali della popolazione. Si partiva da fantasmi molto spesso coltivati in piccole congreghe nate in uno stato (quello italiano) perpetuamente collassato, nato collassato e rimasto tale. Quello che è successo in altri stati non è capitato in Italia; ma, nell’affrontare questo problema ci si inoltrerebbe nell’eterno labirinto dei rapporti tra letteratura e realtà, letteratura e politica. Se qualcosa non fosse stato pagato in termini di esperienze concrete e di sofferenza, non avrebbe potuto avere abilitazione nelle pagine nel senso di un automatico spostamento nella scrittura di certi problemi reali. Personalmente ho sempre distinto tra sperimentalismo e avanguardia: lo sperimentalismo deriva proprio da un darsi da fare per cercare di vivere anche in senso esistenziale, l’esperimento è qualcosa che costa, non è un mero fatto di laboratorio letterario mentre l’avanguardismo pone come programma il sentirsi avanti rispetto agli altri senza porsi in una seria analisi riflessiva dei reali problemi esistenti. Rispetto a questi movimenti mi sono sentito sempre estraneo. I programmi di cambiamento che i gruppi avanguardisti si proponevano di realizzare erano anacronistici ed inefficaci rispetto alla situazione storica in cui era coinvolta non solo tutta l’Italia ma il mondo intero. L’avanzata tecnologica sostenuta dall’apparato militare-industriale dell’URSS e degli USA creava un sistema di forze bloccato rispetto al quale non si poteva fare niente. Il rinnovamento del linguaggio letterario da parte della poesia contemporanea si è effettuato in maniera forte laddove certi meccanismi di rinnovamento sono stati meno palesi.

 

PETRELLA: nella produzione poetica compresa tra il 1968 e il 1973 mi pare che la sua poesia porti agli estremi certe tecniche di scrittura che consistono da un lato nella esasperazione della funzione metonimica su quella metaforica e, dall’altro, nella massima ambiguità della funzione referenziale con la conseguenza di una frattura radicale e insanabile nella struttura interna del segno e, di conseguenza, una decostruzione dell’intero istituto linguistico. La ricerca di un significare puro è veicolata proprio dai continui slittamenti di referenza ossia dall’esasperazione di quei rapporti di contiguità logica e/o materiale tra i termini in praesentia e i termini in absentia. Questa spinta metonimica, esprime una ricerca di significati che si attua nello spazio dei segni, in quel rincorrersi e talvolta scontrarsi (balbettii, amnesie, ipomnesie, esitazioni e ripetizioni) alla ricerca di un posto in cui collocarsi definitivamente al fine di acquisire un senso) . Ecco allora che la ricostituzione del segno nella forma di significato-significante sembra essere garantita dall’intervento degli Erlebnisse (vissuti psichici) e del loro potere di assorbire il significato di quel caotico messaggio di instabilità segnico. D’altra parte, l’equivalenza di significato e di Erlebnisse sta a significare che la comprensione del linguaggio metaforico è
possibile grazie all’autonomia del significante come condizione di apertura del senso.

ZANZOTTO: ciò che ho sempre cercato di esprimere è proprio la tensione alla necessità della comunicazione nonostante si riproducesse continuamente un limite a questa comunicazione. La spinta metonimica deriva dal fatto che uno imbocca con violenza la strada di significazione come se si scontrasse su un muro e l’onda si spostasse lateralmente operando una frattura in un altro punto. Questo atteggiamento denota sia una spinta iniziale a voler coagulare e comunicare sia il fatto che questa spinta viene continuamente inibita ma, nello stesso tempo, l’inibizione non blocca il risorgere della spinta. In verità queste operazioni sono operate, in maniera spontanea anche se drammaticamente e dolorosamente. Il significante tendeva a sganciarsi dai significati prestabiliti o da quella che era la sua prassi normale. Ma in questo svitarsi dal significato si creava in parte una vitalità del significante che serpeggiava in avanti per conto suo, dall’altra, però, il significato arretrava; più il significante andava avanti, più creava il desiderio del significato all’indietro. Certe volte l’implicazione del significato scatenava il significante in avanti. Io ho vissuto più volte una forma di piacere strano perché partivo da uno stato molto doloroso di compressione e di limitazione per poi assistere a questa partenza del significante e del suo scontrarsi con questo muro che poi lo portava ad una lateralizzazione della funzione metonimica. Nello stesso tempo esisteva una memoria dei vari significati che lo stesso significato aveva avuto: la spinta etimologica. Attraverso la spinta etimologica la metaforizzazione poteva apparire anche come stria compiuta attraverso una serie di metafore di una parola che era anche una storia di esperienze che non venivano veicolate se non tramite
questa storia della parola. È qui che può essere riscontrata una situazione heideggeriana. Si pensi a tutte quelle analisi che Heidegger fa sulle etimologie che sono servite a molti. Nelle poesie di Heidegger c’è una specie di sacrosantità del legame tra significato e significante, mentre nelle sue opere strettamente filosofiche egli slittava continuamente attraverso l’autocontraddizione. Tutto sommato è possibile notare in Heidegger un impoverimento rispetto alle posizioni di Husserl. Husserl era ancora ben piantato nel pullulare di un vissuto estremamente ricco anche analisi fenomenologica dei vissuti. È giusto l’appunto che fa Binswanger ad Heidegger quando dice che si può sostituire l’essere-per-la-morte a l’essere-per-l’amore. Tutti questi discorsi non hanno senso se non si tiene conto anche delle modificazioni reali delle strutturazioni psichiche mentre uno compie questi fatti o se modificazioni psichiche non siano quelle che spingono in una certa direzione. È per questo che non si può fare una sperimentazione vera che non lasci traccia in chi la fa, perché questo “chi” diventa sempre “chi” per diventare un “che” attraverso il quale serpeggia la forza del linguaggio che si autoconsidera e autodemolisce ma che si autocostituisce di nuovo. Quando si è insistito molto sul primato del significante, non ho mai accettato questo fatto perché il significante è un nucleo di memorie di significati vari che esso ha avuto e che spinge in avanti verso altre forme di significazione. Se così non fosse si andrebbe verso uno scollamento, verso un grado zero e si produrrebbe silenzio oppure la tautologia pura. Di fatto, nel vissuto reale questo non si produce finché siamo di fronte a testi letterari. E per testo letterario va inteso anche la filosofia e la critica.

 

PETRELLA: nella sua poesia è presente una tensione verso le cose: In questa tensione che è cammino, ricerca, esplorazione irrompe il sentimento di una mancanza d’identità, di una memoria intesa come esperienza della propria storia e della propria vita: E’ possibile che in un mondo incapace di fare esperienza e privo quindi di identità, che ha fatto della storia il primo e il più importante referente perduto, la poesia rappresenti l’unica possibilità di recupero di un originario orizzonte di senso?

ZANZOTTO: propria storia e propria vita in quanto vita e storia in generale devono farsi puntiformi dell’Io singolo per essere vissute. La storia della guerra mondiale è in primo luogo storia delle persone che l’hanno vissuta. Il luogo reale dove si compie la realtà e l’esperienza è il puntiforme dell’Io, dell’Io preso come persona nella sua globalità e soprattutto nel suo inconscio. E’ il rapporto intenzionale husserliano che sta molto vicino a questo fatto. E’ così che ad un certo momento, mi si è imposta questa calata regressiva a forme primordiali di linguaggio che dovevano corrispondere ai momenti iniziali della storia dei primi balbettamenti dell’uomo come bambino con i suoi vagiti; e il linguaggio rinasceva sempre diverso: Non era né langue né parole all’origine ma una sorta di pre-lingua che tutti hanno sperimentato e che però generava anche parecchie possibilità di cammino della lingua stessa. D’altra parte la poesia è un tipo di esperienza che si impone come qualche cosa che deve venire anche se produce nel deserto dell’esperienza, nel vuoto dell’esperienza. E proprio all’interno del dato poetico viene a prodursi l’esperienza del vuoto d’esperienza. Nell’oltre si ricostituisce il campo dell’esperienza. Una volta individuato il vuoto, il vuoto è sempre il vuoto di qualcosa, non è il silenzio, anche se la minaccia del silenzio è vicinissima. È un paradosso che non si generi il silenzio ma esso è proprio come un’espressione che crea un’imbastitura cioè un’elasticità che non è mai totale. Piuttosto ciò che non scompare mai è l’etica. Nessuno potrebbe mai decidere se alzarsi o rimanere seduto se non avesse un’etica. E quindi l’atto poetico è un atto etico. C’è il vuoto d’esperienza, c’è addirittura la menzogna che cancella lo spazio possibile dell’esperienza come un tessuto canceroso. Ma tutto ciò non conta, bisogna attraversare questo vuoto perché non esiste quel tipo di silenzio che è il silenzio della non presenza. La poesia ha un’ostilità congenita nei confronti di questi tipi di silenzio, anzi tende ad accaparrarseli come strumenti da rivitalizzare. In fondo la poesia ha dei legami anche con i canali più bassi dell’esperienza, le parole sono quelle che si usano anche nel linguaggio quotidiano a differenza dei segni musicali o delle simbolizzazioni della logica formale. Non è vero che non si debba mai scrivere “la marchesa uscì alle cinque” perché proprio con le cinque del pomeriggio Garcia Lorca ha costruito un magnifico canto. La poesia dà sempre la sensazione di poter utilizzare i materiali più assurdi e più degradati ma poi neanche tanto degradati quando sono utili alla veicolarità, perché la veicolarità è la vita di ogni giorno, è il tessuto stesso su cui si fonda il resto: guai a perdere la sensazione della veicolarità del linguaggio. Per quanto abbia sentito la tendenza all’analogia, perché sono stato quasi sempre un parlante in dialetto, non ho mai perso la sensazione della bipolarità (langue comune e langue poetica). Per questi motivi Paul Valéry non poteva accettare invece che proprio con l’uso di parole quotidiane “a marchesa usciva alle cinque della sera” si potesse fare poesia, perché per lui c’era una spinta verso una concezione della poesia talmente alta e proiettata verso paradisi analogici da poter apparentarsi con la matematica. Certamente il linguaggio quotidiano può degradarsi a chiacchiera come di ce Heidegger ma andando ancora indietro all’interno di questa chiacchiera si può trovare l’eco di un borbottio infantile. In ogni caso il chiacchierante resta pur sempre un sopravvivente anche nella sua inautenticità. Heidegger, per dare alla poesia un’importanza troppo grande ha finito per sovraccaricarla di una specie di sacrosantità. Purtroppo, la poesia del dopoguerra ha avuto il suo punto massimo di negatività e positività, al tempo stesso, raggiungendo la propria tragicità espressiva nel preferire un linguaggio teso verso la verticalità ma che trascinava verso questo verticalismo anche quello che poteva essere un fatto di tragicità quotidiana. Il vero realizzatore della poesia heideggeriana è stato proprio Seler che ha affidato tutto alla poesia in verticale, come incalzamento di un limite di un essere-per-la-morte, cosa questa che di fatto Heidegger ha teorizzato ma non ha praticato. La situazione italiana è stata più variegata, c’è stato un convivere di varie esperienze: Neorealismo, Ermetismo, indagine ideologica sul tipo di Fortini, giornalismo scagliato come poesia (Pasolini, secondo momento), tutto ciò che rispondeva alla situazione sociologica italiana inquietante che, in parte, risultava travolta dal tecnologismo europeo e dai problemi del Terzo mondo. La situazione dell’arlecchino italiano poteva creare delle linee divergenti e tuttavia attive, per esempio in Germania invece esisteva una compattezza che si rifletteva anche in letteratura. Da una parte lo sperimentalismo basato tutto su segmenti grammaticali, dall’altra l’esperienza di un certo tipo di verticalismo linguistico; poi c’è tutta l’area del realismo che serviva a rimuovere una catastrofe storica. Adesso nell’area della cultura tedesca c’è una stasi; si lascia che le cose vadano così, per conto loro. Anche i teorici del post-moderno sono i teorici di un’indifferenza da caduta della vitalità. Ma sotto ci sono sempre delle spinte anche se ora bisogna fare i conti con un problema numero uno: quello di dare consistenza ad un’etica in condizioni simili. E per non rischiare di scivolare in filosofie come quella di Severino che costruisce il suo castello incantato dicendo che ogni ente ritorna in perpetuo tramonto per poi risorgere, in una specie di eterno ritorno, dissolvendo così l’etica. Questa dottrina di Severino è considerabile come una filiazione di quella heideggeriana; ma se Heidegger proponeva un’etica pessimistica minimalista, in Severino, invece, non si riesce a capire che è proprio in presenza della angoscia che l’etica può pronunciarsi finché esiste il punto nel quale si soffre. Poiché il problema non è quello di chi parla, come diceva Lacan e neanche di chi muore, come dice Eco, ma il vero punto è che bisogna accettare la sofferenza, bisogna spostarsi perché non ci si sta a lungo. La prima base dell’etica è quella che nasce in relazione ad un atto di sofferenza: non c’è nessuna operazione filosofica né poetica che possa partire dalla poltrona. Bisogna partire dall’emarginazione, anzi da un punto ancora più basso costituito dalla caduta dell’Io, dai punti dove la storia che cade disintegra l’Io del singolo.

 

PETRELLA: l’atto poetico sembra equiparabile ad un atto di seduzione in cui il referente che in questo caso è il linguaggio non esiste in quanto ente autonomo ma esiste come traccia di qualcosa più profondo e che si ritrae ad ogni tematizzazione e ad ogni rappresentazione. Nella sua poesia si ha spesso la sensazione di trovarsi in presenza di segni che appaiono nella forma di significanti/in-significanti; ci assorbono solo i segni vuoti, insensati, assurdi, ellittici, senza referente, tendenti a riempire tutti gli spazi vuoti della memoria perché, appunto, non hanno significato. La loro assoluta insignificanza è però tale che essi non perderanno mai la loro funzione di specularità del nostro vissuto.

ZANZOTTO: la linea dell’espressione poetica che di solito si muove perché spinta da una seduzione che può essere quella di alto livello come il paesaggio e che dovrebbe portare alla liquidazione di quello che è l’ics seduttivo stringendolo entro una rete che però si sposta in continuazione. Se questo X seduttivo noi lo immaginiamo come una casella vuota, vediamo che la casella vuota ma che, spostandosi, rifonda tutto il gioco anche con azione retroattiva, per cui il coagularsi delle significazioni in questo atto di trainamento in realtà finisce poi con l’attribuire anche alle parole non significanti, ai singoli fonemi delle qualità che in origine venivano attribuite solo alle parole della poesie pure. Inoltre si possono registrare delle spaccature che si rifanno a questo ics allontanante ma che nello stesso tempo ne richiamano la presenza all’interno di questi singoli frammenti di parole o di residuati verbali lasciati per via; sono questi che si fanno portatori di quell’assenza e che poi vengono anche, chissà come, nobilitati all’altezza delle parole con la “p” maiuscola pur restando detrito, pulviscolo, assenza. Si è sempre nel rischio di un doppio fraintendimento: quello di voler caricare di una semanticità immediata le parole della poesia pura quando non ce l’hanno perché sono dentro il loro circuito perfetto, si semantizzano circolarmente tra loro e nello stesso tempo introdurre in questo circolo anche i detriti che porterebbero ad un’altra semantizzazione di segno opposto e cioè quella del bla-bla che è l’opposto proprio del verbo. La poesia pretende di essere essa stessa un’ermeneutica dal momento che non rinuncia a questa veste sacerdotale.

 

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“L’OLTRAGGIO DELLA PAROLA”. PER UNA LETTURA FENOMENOLOGICA DELLA POESIA DI ANDREA ZANZOTTO

di Sergio Petrella

Nell’itinerario poetico di Andrea Zanzotto è possibile notare una trasformazione delle tecniche di scrittura che procede dalla raccolta di poesie giovanili A che valse? fino a Fosfeni ma che si specifica nella peculiarità del suo dettato in quella che è stata definita, in modo pressoché uniforme, l’opera più importante del dopoguerra: “La beltà”. Nella continuità diacronica del messaggio poetico quest’opera ha il merito di segnare una pausa importantissima, prodiga di fermenti stilistici e semantici. E’ indubbio che intorno a “La beltà” si coagula, nel modo più convincente, la drammatica ricerca di una memoria e di un senso su cui articolare la propria esistenza. Se nella produzione anteriore la maturazione dell’Io avviene attraverso la ripresa di un linguaggio tradizionale, letterario, volutamente esacerbato nell’elevatissimo tasso di figuralità, da “La beltà” in poi la ricomposizione dell’Io si dà attraverso un radicale rifiuto della tradizione e dall’irruzione di un linguaggio sempre più frammentario e disarticolato ricco di rumori, distonie, ridondanze volute e ricercate. Anche l’occorrenza di significanti-insignificanti rientra nel progetto di voler comunicare una ricerca di quelle condizioni che stanno alla base della comunicazione e del discorso poetico. L’insignificanza di questi significanti è rafforzata da tutte quelle figure di ripetizione (anafore, epifore, anadiplosi, sineddoche) che servono a marcare il senso di ossessività e di un’affannosità nell’articolazione del discorso che di per sé è immagine di una difficoltà di comunicazione. L’occorrenza di questi segni mette a nudo ed esaspera quel continuo movimento combinatorio rispetto al quale viene a mancare la possibilità di riferimento ad un termine in absentia che qualifichi il senso del termine in praesentia (traslato). Sul piano del versante metaforico la decostruzione della langue ad opera del significante-insignificante mette in gioco un’operazione metalinguistica in forza della quale la metafora diviene metafora di se stessa elaborando, così, le condizioni di apertura del senso.

“Salti saltabecchi friggendo puro-pura / nel vuoto spinto outrè / ti fai più in là / intangibile tutto sommato / tutto sommato / tutto / sei più in là / ti vedo nel fondo della mia serachiusascura / ti identifico tra i non sic i sigh…” (“Oltranza oltraggio” da “La beltà”, Mondadori, Milano, 1968, vv.1-9)

L’ “oltraggio” nel senso di cosa “che va oltre il limite, la sopportazione” (Zanzotto, note a “La beltà”) indica il luogo di appropriazione dell’immagine. La mancanza di punteggiatura non solo dà ai segni la possibilità di muoversi con maggiore disinvoltura nello spazio linguistico ma soprattutto è resa possibile dalla significativa chiusura dei versi che si interrompono in modo molto netto, proprio allo scopo di marcare il senso della pausa attraverso un nuovo segno. Ognuno di essi ha, evidentemente una sua precisa collocazione al di fuori della quale sarebbe pregiudicato il senso di quel movimento inteso come campo teorico di una meta-rappresentazione. Un fenomeno ampiamente sottolineato da Walter Siti (“Il realismo dell’avanguardia”, Einaudi, Torino, 1975) è l’incorrere di figure d’addizione “salti-saltabecchi”, “puro-pura”, le quali producono un rafforzamento di senso sia per la ripetizione dei morfemi “salt” e “pur” sia per l’aggiunta della variante “becchi” che completa e chiude il senso del sintagma. Poi il gerundio “friggendo” qualifica la modalità di rappresentazione sia modale che temporale. La difficoltà di lettura grammaticale nonché semantica è causata dalla disarticolazione del sistema linguistico e da una singolare preminenza del polo metonimico su quello metaforico. L’importanza del movimento ossia dello spostamento per contiguità dei segni va a tutto danno non solo del senso che ci appare inafferrabile dato l’annullamento della funzione referenziale ma anche della sfera grammaticale giacché i segni si presentano, per così
dire, in modo assoluto, senza che si possa contare sulla ambiguazione della funzione referenziale.

L’incomprensibilità semantica sembra però compensata dalla omogeneità strutturale che unisce nel “luogo di possibili Erlebnisse intenzionali” le realizzazioni fonologiche e grammaticali dei segni. Anche lo spazio grafico che si interpone tra le parole “nel vuoto spinto outré ” realizza un’incertezza nell’articolazione fonica la cui natura andrebbe meglio chiarita mediante elementi chiave capaci di illuminare il campo semantico. Ad esempio il verso “ti fai più in là” anzi il semplice “più in là” nella ripetizione che si attua a ritmo libero e conclusa dalle forme “ti fai”, “sei saltata”, il solo “là” costituiscono l’impalcatura semantica su cui si articolano le altre unità linguistiche. I versi finali di questa poesia racchiudono l’essenza di una scoperta che culmina in modo paradigmatico con la chiusura “l’oltraggio”, conclusione catartica di natura metaforica che chiude ma in senso puramente grammaticale il carattere metonimico dei versi precedenti. La modalità di rappresentazione dell’io non si regge più nell’omogeneità di senso garantita dal discorso metaforico; infatti se in genere la riduzione dello scarto metaforico interviene solo dopo che l’operazione di selezione del materiale linguistico ha creato all’interno del campo semantico uno slittamento di referenza e la riduzione dello scarto chiude il circolo della significazione nella comprensione, nel caso de “La beltà” la costruzione della sequenza è finalizzata ad una significazione che non rimanda più direttamente ad un codice (langue poetica) ma al messaggio attraverso una significazione contestuale. Quest’ultima richiede un finalismo che non si dà mai nella chiusura di un senso che sia realizzi mediante continui riferimenti al codice ma definisce la modalità originaria di apertura del senso. Inoltre il contesto è semplicemente il luogo nel quale si sviluppa il processo metonimico per cui il chiarimento del senso non si darebbe proprio neanche nel contesto bensì nella riappropriazione della coscienza pura, intenzionale della combinazione metonimica delle unità linguistiche.

“Come vorrei preludere ad una vera-mente / a una vera-vita” (“Possibili prefazi o riprese o conclusioni” da “La beltà”, op. cit., vv. 1-2):

in questo caso l’opposizione morfematica “vera-” gioca sul movimento biunivoco dei due sintagmi “veramente”, “vera-vita”, movimento ambiguato dalla sostantivizzazione dell’avverbio “veramente” nella costruzione endocentrica “vera-vita”. Esistono nel messaggio delle informazioni metaforiche, che obbligano, per così dire, l’arresto del movimento e cioè l’irretimento dei segni in questione nella spirale di un discorso legato all’isotopia in conformità con l’esigenza di Jakobson di salvare la bipolarità dell’asse metaforico e dell’asse metonimico. Nonostante tutto la possibilità dell’immagine è garantita dall’operazione di spostamento per sostituzione mediante la selezione delle unità linguistiche operata sulla base dell’equivalenza. D’altra parte, la combinazione di queste unità selezionate qualifica e caratterizza la modalità di realizzazione dell’immagine.

“L’inefficace operazione, storia / librata là in quell’area vuota / in quella luce limitata limata / miseramente congesta e risparmiata / per disegni e illuminature”: (“Possibili prefazi o riprese o conclusioni” da “La beltà”, op. cit., vv. 12-16):

l’immagine paronomastica profusa dal verso “in quella luce limitata limata nasce dal contatto fonematico dei costituenti i due sintagmi “quella luce” e “limitata limata” e ingloba l’intera rappresentazione dell’oggetto metaforico. Il processo di decostruzione della langue, nel modo in cui è attuato ne La beltà si tesse dio elementi linguistici finalizzati alla produzione di un nuovo modo di intendere e di esperire l’immagine metaforica. Ebbene la grammaticalizzazione del vissuto operata da Zanzotto riflette in modo peculiare le contraddizioni del parlato e il sentimento di una difficoltà di movimento linguistico da realizzare mediante il ricorso ad una metaforicità tradizionale. Non c’è mai chiusura di un senso perché il lessico ha una funzione esclusivamente pretestuosa; l’insignificanza delle parole permette a Zanzotto di privilegiare altri aspetti del segno a cominciare da quello fonematico e morfematico per la loro capacità di produrre, attraverso il disturbo fonetico, una possibilità di significare. Tuttavia la decostruzione dell’istituto linguistico è già attuazione di un senso e l’immagine di distruzione si comunica nella difficoltà di riarticolare le forme di un discorso sia pure all’interno di una metaforicità tradizionale. Ne La beltà ci troviamo di fronte ad un cortocircuito della significazione perché la ricerca esasperata dei significati come progressive zone di collaudo e di verifica del proprio Io pregiudica la stessa ambiguazione della funzione referenziale. Non c’è ambiguazione perché mancano i referenti e mancano i referenti perché la realtà intesa come contenitore di referenti è solo un vano pretesto che esiste solo nelle proiezioni nevrotiche dell’Io. Non è dunque un sistema di oggetti con cui si ha a che fare ma è il movimento che si attua nello spazio degli oggetti; una sorta di movimento falsato dalla memoria da cui deriva un dire amnesico e ipomnesico fatto di lapsus e di afasie. Ripercorrere lo statuto del trauma significa esorcizzarlo fissandolo nell’alterità del linguaggio. Per questo nella poesia come nella pratica psicanalitica, il discorso ha un’importanza decisiva, non tanto per l’articolazione grammaticale e semantica delle parole quanto per il significato da dare alla forma dei suoi silenzi: “tu ansito costretto e interrotto / ora, ora e sempre, insaziato e smorto raggiungermi”: l’inattualità dell’io realizzata nella differenza temporale tra “l’ora, ora e sempre”, si rafforza nel rapporto tra la discontinuità del “costretto e interrotto” e la tensione racchiusa nella continuità dello “insaziato e smorto raggiungermi”.

L’irruzione dell’io nella rappresentazione del mondo disarticola la discorsività del nostro progetto esistenziale, la linearità spazio-temporale del nostro operare manifestandosi nella forma di lapsus, di amnesie, di afasie di tipo metaforico e metonimico. Identificarsi nella scrittura vuol dire inoltre far scorrere il proprio Io nelle onde variegate e discontinue in cui si nasconde in cui si nasconde la polarità metaforica e metonimica. Attraverso questi due poli l’io pone in continua verifica se stesso ascoltandosi, accertando attraverso gli stimoli fonetici e semantici la propria presenza come metonimia in quanto fattore di spostamento per contiguità e come metafora in quanto fattore di spostamento per sostituzione, delineando così i termini di un progettarsi nel mondo in una storia di desiderio grazie a cui ogni momento della nostra storia resta segnato in modo indelebile da quell’interiore movimento che si realizza nella scrittura poetica.

“Riudrai le voci del profondo autunno, / del magistero, del pozzo profondo; / se sapesti udirle nel primo / giorno; se sapesti che primo / è ogni giorno. Non essere stanco di durare tra le albe, esse faranno / verità della nostra menzogna” (“Ecloga IX, Scolastica” da “IX Ecloghe”, Mondadori, Milano, 1962, vv. 73-79):

questo anomalo sapore della voce ci permette di esperire come nuovo e prodigo di senso l’attimo in cui qualcosa illumina il proprio Io che è anche la nostra storia, l’attimo in cui confluiscono, sintetizzandosi, gli elementi più disparati ed eterogenei di un vivere, il cui senso si manifesta nella profondità del contatto con le cose: “il segno sul foglio e il taglio nel legno; / vale ogni segno, ogni taglio estinzione / del troppo e del vano, ombra aggredita” (“Ecloga IX, Scolastica” da “IX Ecloghe”, Mondadori, Milano, 1962, vv. 82-84). Ciò che “vale” resta anche come “ombra aggredita” dalle provocazioni tecnologiche e da tutto ciò che accelera la decomposizione del nostro mondo, della nostra identità fatta di complicità con il segno che sul foglio trova il luogo della sua realizzazione, del taglio che nel legno mostra il risultato di un’operazione tecnica che sottende all’apertura di una realtà in cui l’operaio, costantemente, s’identifica.

Dalla “Beltà” in poi, se si eccettua la stagione poetica di “Pasque”, e in una certa misura de “Gli sguardi i fatti e senhal”, la produzione artistica di Zanzotto è caratterizzata da un’evoluzione linguistica e poetica che esemplifica un nuovo modo di porsi di fronte alla scrittura. La consapevolezza della difficoltà connessa all’enorme sforzo di creare immagini metaforiche costituiva il vero e proprio cavallo di battaglia per esibire uno stato d’animo provato dal continuo confronto con sé stesso e incapace di uscire dal tunnel ossessivo della nevrosi. Invece con “Il galateo in bosco” si intravede il tentativo di riconciliarsi con l’immagine pura, quella resa possibile dal proliferare dal proliferare di metafore vive che schiudono sempre un mondo estetico autonomo in cui si manifesta l’essenza delle cose. Certamente la predilezione di un linguaggio ossessionato e ossessivo, pieno di continui spostamenti di referenza, si configura, soprattutto in “Pasque”, ancora con un peso tutt’altro che trascurabile tant’è che con la terza opera conclusiva della trilogia “Fosfeni” si assisterà alla costruzione di un maggiore equilibrio nel bipolarismo metaforico/metonimico con il risultato di una poesia che esprimerà, in modo compiuto, l’essenza di un dolore, per così dire, funzionalizzato e divenuto parte integrante di uno spirito teso ad un compromesso proficuo ed equilibrato con se stesso.

Ciò che cambia fondamentalmente è il rapporto di fronte a sé stesso rispetto all’immutabilità degli stimoli esterni che fungono sempre e comunque da pretesti speculari in vista di una ricerca d’identità che, per definizione ormai, si dà come riconoscimento dell’irripetibile individualità del proprio passato e della propria storia. Nella comunicazione di un cortocircuito della comunicazione resa mediante l’esasperazione dei giochi linguistici (fonetici e morfologici), l’esperienza dell’inautenticità dell’esistenza esprime il sentimento del non senso e dell’irruzione dell’assurdo. Tuttavia solo la presupposizione di un senso consente di accostarsi alla poesia di Zanzotto; l’autonomia dei significanti non riguarda solamente l’organizzazione fonica e grammaticale delle parole ma anche la stessa configurazione strutturale e prosodica tant’è che ogni segno non ha mai solo un solo significato perché varia col variare del contesto. Per esempio in pasque il processo di astrazione linguistica è portato agli estremi mediante una tecnica che consiste nella rottura dei tratti pertinenti alla situazione contestuale; in questo modo viene pregiudicata una corretta interpretazione degli elementi deittici dell’enunciato che fanno riferimento alla situazione in cui occorrono.

“L’ho dunque ritagliato/dunque lasciato al freddo e fuori carne/disgiunto a da quel frammento/ e son io scaricato al nero azzurro così che/ nel fosso nell’eterno nell’intervallo addosso/ ritaglietto sequestro di persona/ pacifica questa sera/ il grillo s’impenna sul vetro” (“Pasqua di maggio” da “Pasque”, Mondadori, Milano, 1973, vv.26-33)

Questi versi sembrano davvero presagire una difficoltà di comunicazione; i continui slittamenti di referenza rendono difficoltosa la rappresentazione di un senso; la struttura indicativa si sottrae ad una determinazione spazio-temporale tipica di una poesia, per così dire, tradizionale. In “Pasque” il sentimento di un’impossibilità di fare, di pensare e di essere si concretizza nel desiderio di una “Pasqua di maggio” come di un: “abitare nel preciso denso / mitico freddo pasqua di maggio” (“Pasqua di maggio” da “Pasque”, Mondadori, Milano, 1973) di qualcosa che è andato definitivamente perduto o anche che non c’è mai stato. Tutta la poesia di “Pasque” si inserisce nel disperato tentativo di sondare tutti i terreni della razionalità e del dicibile per approdare in quel luogo originario dove si fonda la possibilità dell’esperienza e questa ricerca si risolve, di frequente, nella produzione di simboli capaci di veicolare l’immagine di un sentimento puro. L’immagine è dunque legata ad una simbologia nascosta di cui i segni sono portatori all’interno della catena formale intesa come il luogo di progressive attualizzazioni del significante. Allora la continuità di senso è garantita proprio da quella eccessiva frammentazione del discorso che isola le parole dal contesto privandole della capacità di veicolare significati all’interno del verso. In questo senso la rottura delle forme metriche tradizionali, si caratterizza nella rottura di una linearità del dire poetico e come di un’incapacità di articolare correttamente gli atti della fonazione. Questo fatto è reso ancora più evidente dalla presenza, sia pure sporadica di certe forme di letterarietà che amplificano la portata di senso di quella rottura. In verità l’arditezza con cui Zanzotto lavora sulla lingua ci pone di fronte ad una ricca e variegata lessicalità che rende possibile di infiniti sviluppi la concatenazione delle unità. Le performances della parola traducono quella volontà di significare attraverso puri tentativi di grammaticalizzazione che non sempre coincidono con le onomatopee o i fonosimboli.

Tutta la produzione poetica di Zanzotto è caratterizzata dalla presenza di parole quali “beltà”, “menzogna”, “alba”, “neve”, “selva”, “bosco, “ferita”, ecc. la cui alta frequenza induce a credere che la loro portata simbolica fornisca in qualche modo la chiave di lettura di intere poesie; d’altra parte, la loro contestualizzazione raramente produce immagini piene, piuttosto tali parole costituiscono il momento di chiusura di un discorso e quindi di un senso. Pensiamo ad esempio ad alcuni versi tratti da “Gli sguardi i fatti e senhal” in cui la linearità sintattica delle unità metaforiche è pregiudicata dalla ricorrenza di pause grafiche o da frammentazioni del discorso che cortocircuitano l’enunciazione proprio nel momento in cui il simbolismo raggiunge il massimo grado: “no io non mi sono ancora: no, io non mi sono nata / no, io nodoso dei no diamante dei mai…” (“Gli sguardi i fatti e senhal”, ed. Bernardi, Pieve di Soligo, 1969, vv. 101-103); l’incorrere delle assonanze rende ancora più impercettibile il senso delle pause e delle interruzioni, così pure le esitazioni: “che ti e ti e ti e ti / lo so che ti hanno presa a coltellate” (“Gli sguardi i fatti e senhal”, ed. Bernardi, Pieve di Soligo, 1969, vv.2-3) oppure “ammetti che sei / che sei che sei tu stessa una qualche una qualche / forma di e di e di // inflitta //” (“Gli sguardi i fatti e senhal”, ed. Bernardi, Pieve di Soligo, 1969, vv. 79-81) mostrano la difficoltà di articolazione fonica connessa all’impossibilità di accedere nel cuore della parola. Il nucleo di parole dal tasso più alto di frequenza costituisce la base semantica intorno a cui si polarizza il senso del discorso. La funzione di questo vocabolario di base è anche quella di circuire simbolicamente un campo di affetti in grado di circuire simbolicamente un campo di affetti in grado di garantire quella fidatezza su cui imperniare la ricerca della propria identità. Le ripetizioni ossessive, le interruzioni, i neologismi e in genere tutto ciò che serve a rompere la linearità del senso rappresentano la base di una reale e sofferta rottura con l’inautenticità del vivere quotidiano e l’immagine che scaturisce da questo nuovo impatto con la realtà si annulla nella fluidità di un non senso che manifesta il sentimento di una radicale esperienza del cortocircuito della comunicazione.

Con “Il galateo in bosco” e con “Fosfeni” si ha l’impressione di un’autentica anche se parziale riconciliazione del linguaggio con le cose; probabilmente nelle due raccolte della trilogia lo sforzo fenomenologico finisce con lo sfondare i limiti del linguaggio apofantico-rappresentativo e si assiste ad una decostruzione degli oggetti che appaiono espressione di un continuo esistenziale, che si mostra nella sua purezza cristallina. Del resto, la capacità di estrapolare e rielaborare immagini da un vissuto psichico è indice di una saggezza poetica raggiunta dopo anni di sofferenza e di dolore rispetto a cui “La beltà” è sicuramente il massimo esempio. La direzione linguistica intrapresa con “Il galateo in bosco” e con “Fosfeni” induce a credere in un effettivo superamento dei nodi emotivi grazie ad una capacità di vivere la vita all’insegna di una serenità ritrovata nel rapporto autentico con le piccole cose: “sete notturna di marzo, / arse campagne rasoiate a freddo: / come è rasa la barba / rasa ogni volontà di levitazione / e tutto è levitato o compreso nel gelo / comprimario nel gelo” (“Come ultime cene”, da “Fosfeni”, Mondadori, Milano, 1973, vv. 1-6): brandelli di realtà sono presi come pretesto per fissare nel nitore dell’immagine la sensazione di una crescita, di una “levitazione” dell’io che si dispiega nel gelo metafisico degli aspetti più nascosti della realtà. Questa stessa realtà che prima appariva l’oggetto di una perenne seduzione appare ora legata al linguaggio da un rapporto di entropatia al punto che non è più possibile stabilire dove finisca il pensiero e dove cominci la realtà. Da questa intima fusione si dischiude un mondo di cose e di oggetti intenzionali che esprimono il dispiegamento di una seduzione fissata nell’alterità della scrittura.

La ricostituzione del segno resa possibile dalla riconciliazione del significato con il significante sta alla base di un proliferare di immagini forse discontinue ma rese particolarmente efficaci proprio dal difficile sostrato da cui prendono l’avvio:

“amori impossibili come / sono effettivamente impossibili le colline / … /colline ricche di mille pericoli di morte / per quietamente / per avventato soccorrere / tra celitudini / per insufficienza di attenzione a sé / di sorte in sorte intralcerà si defilerà” (“Amori impossibili come” da “Fosfeni”, Mondadori, Milano, 1983, vv. 1-2 e 12-18).

C’è una evoluzione dal “Galateo” a “Fosfeni” che si esplica nella diversa angolazione da cui i fatti e le cose sono contemplate: dalla constatazione di un mondo di rovine (il bosco su cui l’uomo opera attraverso la tecnica e che qualifica la struttura sociale, il senso della civiltà , il galateo appunto, si procede a fissare tutto ciò che resta di questo mondo in rovina mediante la comunicazione di una conoscenza vera che garantisca un rapporto di equilibrio tra l’uomo e la natura. Ma proprio l’inautenticità del mondo quotidiano dovuta alla sua impersonalità, rappresenta l’idea che ossessiona e che rende necessaria la poesia, sia pure come insieme di fosfeni. La ricerca e la scoperta dell’inedito così centrale nell’esplorazione del proprio vissuto esprime l’orizzonte nel quale le cose si derealizzano per manifestare, in un caleidoscopico strutturarsi di sensi nuovi ed inediti, l’invisibilità e l’indicibilità della vita.