La sottrazione

da | Gen 2, 2019

Cinque poesie da La sottrazione di Matthias Ferrino (Varese, Stampa 2009, 2018).

Erano radici ridenti e feroci, scavavano
con le dita nella sacra oscurità del terreno.
Dissotterravano l’osso bianco e inaudito.

Ora invece è fumo e bitume nella gola
dei pozzi, vene legate strette come stringhe
e piccoli occhi abbottonati alla testa.

*

Tra poco, qui dalla pozzanghera, dal fondo
di cucchiaio di questa valle ricolma di sputo
sbollirò tutta la polvere delle ossa
e salirò… salirò il tunnel di un ago
fino all’altro lato, fino a scalare
le tacche dei cieli nella corrente
ascensionale. Raccolto fuori dalle cose,
nel fluido di una sola preghiera,
compresso oltre la tirannia dell’ossigeno
in un essere sottovuoto, avrò l’attimo
di sospensione, un silenzio sottomarino,
d’abisso, prima che un dio mi pizzichi
l’anima, prima che mi rimetta in circolo
un fiore che non smette di bruciare.

*

Un giorno tornerò a capo, prima
della ruggine, e risaliremo la montagna
fino alla croce di Punta Chaligne, passando
attraverso il torbido dell’aria
che dirada su per le regionali
silenziose al rumore della catena
che gira per chilometri in salita.
Le avremo vuote le borracce:
squillano le fontane dei villaggi
sotto i campanili bianchi
fissati nell’azzurro. Le bocche aperte
alla fatica, il mondo che ci beve
dal sudore, e una sete trasparente
che sarà la pedalata che va… dura
a tratti, molle nei rifiati, fino al culmine
che tuffa i fiati generosi nel più alto lago.
E allora non diremo più niente
o una mezza parola, piano, appena un sasso
di suono che affoga, e berremo dolce il sorso
dal più grande bicchiere, sopra gli orizzonti
netti, con la vista profonda che sa
pesare una foglia, una distanza,
e che nitida vede fino alle pupille di noi
che dal fondo della vallata, dai vetri
di un ascensore aperto sulla strada,
per un attimo alziamo lo sguardo
e di sfuggita vediamo, come una fantasia,
ancora una cima di roccia e prato.

*

Sciogliere un grumo
di nervi, un nodo di vene,
diluirsi nell’acqua
che dai ruscelli sfocia
nel mare, versare
un sangue nella terra
e immettere il fondo
dei respiri nell’aria.

Essere del mondo
una prima pelle.

Guarda
come tremano tutte
le linee… una mano pizzica le corde
o un soffio, in trasparenza

e tu che stai vedendo
e tutti i panorami
altro non siete che quest’unico
paesaggio che guarda
attraverso i suoi
occhi spezzati.

*

Mangia, che sennò la stanza sembra più grande.
Fatti un buco per la fame,
dentro.

Fai sparire la frutta.
La carne cuocila al sangue;
devi sentirlo tra i denti,
sulle gengive.

La parola cerotto
non chiude nessun taglio,
se vuoi dilla lo stesso.

E poi?

Quanto bianco sulle pagine… e poi
l’inchiostro, che s’inerpica
da nessuna parte
come interrotte strade di montagna.
Tu però vedi se puoi
le impronte, i segni della lepre
che da margine a margine
nella neve fresca
saltella da una tana
verso un’altra tana. Il silenzio
vergine.

Immagine: Balthus, La montagna, 1937.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).