“La scolta” di Gian Maria Annovi

da | Mag 2, 2014

La scolta è un libro emozionante per due motivi, essenzialmente: perché abbiamo dimenticato cosa vogliono dire le parole e perché trascuriamo quanto di umorale spinga queste parole ad uscire dalla pagina, per vivere ogni giorno accanto a noi, come volevano i classici. C’è un carattere di estremità, in fondo, nella scelta del titolo, che lo rende araldico e asettico insieme, mentre tutto il contenuto s’impone come atto di traduzione e – sia lecito dirlo – di fede, perché i materiali della lingua non sono, e non possono essere, sufficienti a restituire per intero il dramma che qui va in scena. Non abbiamo nemmeno bisogno di vederle rappresentate quelle due donne che si alternano per ruoli di voce. Non c’è bisogno di nessuna didascalia per illustrare quello che sta succedendo. Per chiarire quanto riposa al fondo delle sue scelte, Annovi nella nota d’autore che chiude il libro spiega che la «scolta» è figura desunta dall’Orestea di Eschilo: un personaggio del tutto marginale, data anche la sua collocazione in limine, al quale viene demandato il compito di ritrarsi e di scomparire per sempre dal centro della rappresentazione non appena giunga il segnale degli eventi, l’imposizione oscura del fato, la luce più dura del destino. Allora, come giustamente indicato in epigrafe, ancora attraverso le parole di Eschilo, la scolta viene impietrata nella sua funzione di possente osservatore e remissivo, pur senza celare del tutto la commozione che abita le distanze fra l’emozione e la materia. Qui, sta la difficoltà del tradurre, del condurre senza sbalzi attraverso, che Annovi dimostra di sapere e potere addirittura doppiare, con una sintesi invidiabile e serena, all’apparenza imperturbabile e impietosa, ma sostanzialmente – l’aggettivo non è lenitivo – commovente. Tutto è detto in questo libro, la dizione è sintomatica rispetto all’azione e fissa le modalità secondo cui il lettore deve inquadrare la vista sul mondo, sull’universo delle badanti, sulle presenze che via via si sono fatte sempre più insistenti nei nostri vicinati: presenze riunite in circolo, a gruppi, a grappoli, appese al nostro futuro di morte e alla nostra solitudine.

L’overture è profondamente laica e immaginificamente profetica: d’altra parte proprio nel primo verso compare con la maiuscola quel «Signore» adombrato dalla disillusione che concede solo in parte una via di fuga dalla prigionia, cambiandola con una prigionia nuova, in assenza di mercato libero di volizioni, in assenza totale di libertà («in camio ti porta Signore a confine/ in piedi nel gelo di frize/ in mezzo a la carne di maiale// poi in macchina chiude/ in dietro di bagagliaio/ mano legate piedi con corda/ con nastro marrone»). Da dove, in effetti, poteva prendere avvio il racconto, se non dal resoconto di ciò che è successo prima, dall’antefatto della nuova tortura su cui l’inquadratura si apre? La deuteragonista, a sua volta, è una signora anziana, una nostra madre, una nostra nonna, forse affetta da qualche male, ma questo non importa, il suo male è quella solitudine indotta di cui sopra: per lei che insegnava le lettere classiche, per lei che è superiore e ora non ha più tempo, non esiste alcuna remissione o compromesso.

me la mettono in casa per forza
ad aspettare che muoia
una non italiana
una troia.

io che insegnavo il latino
che traducevo il greco

e ora una cosa che sbatte le ciglia
che appena mugugna

un sacco di ossa e respiro

e lenzuola

Cosa fa più male di queste primissima rima affatto obliqua e crudele? C’è la crudeltà dell’effettivo silenzio. Già questo primo testo serve a chiarire che, agli effetti, niente di ciò che qui si legge ha un suo corrispettivo nella realtà: la realtà, in fondo, è quella dello spettatore-poeta che rende testimonianza, si fa mediatore, come una persona qualunque potrebbe, ma con una dote profondissima di icasticità. La scelta del mimetismo come modo dell’oralità («mattina lava Signora con carozina./ lava tutta. con sapognetta. con spunia./ lava capelli anche») restituisce immediatamente il contrasto fra la «donna che more» e la «scolta», in mezzo alla doppia umiliazione dei lavacri e delle violenze (sessuali quanto psicologiche) perpetrate dai “Signori”. Violenze per una lingua violenta, impura, senza correzioni, che se ha un precedente, certo questo si trova nella Serata a Colono della Morante, con quel duro intercalare ciociaro, sgrammaticato, inaudito. Esistono tuttavia alcuni (pochi) intermezzi di pietà: il più folgorante si svolge davanti alla cella del freezer, la scolta e la luce di ghiaccio accesa, la signora che dai bagliori afferma tra sé:

(è la neve, io penso, che ci vede,
il bianco notturno del suo paese)

Ecco che compare un altro dei temi classici per eccellenza, la nostalgia, mentre sul rovescio si gioca una partita tutta triviale, con scene non di genere, dove tutto si bruciava per inerzia, secondando conseguenze prevedibili. L’essenza del tutto si legge, nondimento tra le parole irriflesse della Signora, che costruiscono con perizia il quadro, aumentando il senso e svelando l’intenzione stessa di Annovi:

mi si conceda il riscatto
di questi miei travagli
della sua guardia
che è lunga di un anno
in questa casa che è solo

una scena per due sparimenti

la scorgo accovacciata
un cane che ascolta

e mi guarda

mi conta i fiati

e non sa se vuole che li fermi

Il tempo è già trascorso, alimentando come unico motivo di unità quell’essere fedele, quel servizio che trapassa in tacito movimento di obbedienza, di costanza, di soppressione congiunta dell’individualità. Queste donne sono insieme «due sparimenti» che si incontrano e almeno in parte si sovrappongono, perché c’è qualcosa di comune e indicibile che accomuna molto più del dovuto le loro vicende: tocca al coro, infatti, di rivelare le disgrazie già attraversate e quelle invece che continuamente si affacciano sul nuovo. È proprio un lapsus, un errore involontario o una capacità ulteriore delle parole, ancora, a distendere l’infinità dell’io sulla prima persona plurale: «facciamo la brava bambina», come se le parole fossero un conforto più che un sedativo. Così tutto si altera e la vita diventa doppio televisivo, dove, per uno strano scherzo della sorte si trasmette un film dove protagoniste sono «donna malata/ una// altra/ donna fermiera», ormai confidenti di «cose/ inconsolabili»: subentra un’altra pietà, quella che vorrebbe sollevare la sofferenza con la morte, per rendere onore davvero al corpo.

penso di togliere
il soffio
a la donna.

con cuscino con
borsa di plastica.
forse.

ma c’è icona di vergine
in calendario di maggio.

dico rosario.

Ancora qualche parola in exitu, di come questa badante diventa motivo e unica vera ragione di vita per la signora, tramando consonanze dialoganti, deformando al pari di una distrazione lo stesso nome che pronunciato vorrebbe essere negato: «‘scolta» (inteso come apocope di verso), «guardia» o alcune degenerazioni ad effetto: «scalcia», «scalza». Tutto si disarma, si fa sempre più necessario, ed è allora che arriva, silenziosa, la fine:

poi è un sonno violento che si alza
una pace che invade le narici.

Immagine: Orestiade, regia di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani; traduzione di Pier Paolo Pasolini. Rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, 1960.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).