La grande nevicata

da | Mar 17, 2023

Quattro poesie da “La grande nevicata”, l’ultimo libro di Federico Italiano, da poco uscito per Donzelli.

 

LA GRANDE NEVICATA DEL 1985

La giacca a vento rossa con le piume d’oca –
che a volte sbucavano dal poliestere
come tarme dai loro nascondigli –
i moon-boot antracite, i sogni d’allunaggio
nel calzarli, il lampadario della sala
che già alle tre di pomeriggio
faceva concorrenza
al lampione della piazza,

ogni cosa più lenta,
pacificata, marmorea, la neve
ancora candida sui tetti, tanta,
ammonticchiata ovunque, su transenne,
piloni, balaustre, lungo ogni muro, così tanta
che in cortile costruimmo una rampa
più alta di Kareem Abdul-Jabbar,
un monte bianco da cui scivolare

fino al cancello, prima su sacchetti
di plastica e inverosimili slitte,
poi in un bob nuovo fiammante:
rosso ferrari il guscio, nere le lunghe leve
dei freni. La gravità era strumento
del piacere. I gemiti della neve,
il crepitare del ghiaccio: gli effetti
collaterali dell’appagamento.

Con guance rosse, spilli
di freddo nelle mani, la sciarpetta
di lana grezza che incendiava il collo,
ci lanciavamo dal centro della nostra Via Lattea
ai confini del cortile, dentro il bianco
inesauribile di quel gennaio, un sibilo,
quattro secondi, un secolo –
fine dell’era glaciale, inizio del fango.

 

 

YETI

Anch’io ti cercai, quando l’Himalaya
era orografia di sottoscala
e mobili, tra mansarda e solaio,

quando le spedizioni terminavano
sul lenzuolo a metà salita
per una brioche che si annunciava a valle

e Tenzing Norgay ed Edmund Hillary
bevevano in tinello il tè
al burro di yak in tazze a colori.

Tu mi guardavi di soppiatto: un’ombra
tra uno scaffale e una poltrona, due occhi
dietro i dischi di papà, dietro

la tenda spessa in lino grezzo –
che come un’alba rosa si espandeva
dal Kangchenjunga al Chomo-Lonzo

incendiando le perfezioni dei picchi
e gli altipiani della scrivania –
lasciando impronte gigantesche

come un doposci.
Gli sherpa dicono che in estate
tu segua i nomadi verso i maggesi

più alti, arrampicandoti come gli yak
fino al limitare dei ghiacci,
attraversando baratri e crepacci

per migrare di valle in valle;
dicono che quando guadi i torrenti
porti i tuoi bambini sulle spalle.

Erano forse di tuo padre le impronte
nel ghiacciaio Menlung
su neve freschissima e diamantina?

Le tue tracce resistevano giorni
nelle parti più buie della casa,
sulle piastrelle glaciali in corridoio,

nelle foreste d’abiti in stireria,
tra i massi erratici del ballatoio
nel mio segreto nascondiglio.

Non ci sei, sei scomparso
come ogni vero avvistamento,
orso o homo di Denisova

michê, mi-go o leopardo,
sei il miraggio di chi esiste altrove,
il profilo di chiunque si nasconda

e hai tutte le ragioni del tuo mondo
per sparire dal nostro
oltre la linea della neve.

 

 

ELEGIA PER UN PASSAMONTAGNA

In quella polaroid ti indosso ancora,
poco sotto la bocca, color nocciola,
avevo anni che stanno nelle dita,
gli occhi che dal tuo buio
fatto a maglia
sfidavano più scuri l’obiettivo,
in mano una pistola
un cinturone con fondina in vita.

Avevi un nome immenso in cui infilarsi
fino al collo immaginando il ghiacciaio
del Monte Rosa e una baita
segreta tra Macugnaga
e gli chalet di Alagna –
idea di caldo inanellata
dai ferri platonici di una zia,
mio elmo, mio passamontagna,

mio permesso per il fuori, mio visto
d’ingresso nella guerra
fredda dei cortili,
tra il rosso dei mattoni,
che insanguinava ogni cappotto, e il verde
indelebile del muschio, mephisto
sul pavé del sagrato,
camaglio nelle nebbie in cartavetro.

Eri in televisione e sul giornale
che leggeva papà, in testa a una sagoma
scura con una P38, a giovani
per sempre grigi e seri –
ma dicono che da allora ti odiai,
perché uccidesti il mio alter
ego di carnevale,
il mio cappello in feltro da cowboy,

i baffi disegnati col mascara,
il revolver di plastica, le rosse
capsule dei colpi a salve,
con il tuo nocciola,
la tua lana vera,
tu, mio elmo, mio passamontagna, mio salvacondotto
nel freddo dei cortili.

 

 

COMPLEMENTI DI LUOGO

Che sia dove vuoi tu,
al terzo piano o al sesto, nel tuo acquario
illuminato in cui fluttui inquieta,
in quella strada
che senza guanti liberammo dal ghiaccio dell’inverno,
o su quei ponti di piumone
che ci reggono solo
quando ci uniamo.

Che sia dove vuoi tu,
nel distretto dei boccoli o nel centro,
che abbiamo dimenticato sul ponte
come un foulard,
sotto i lampioni, lungo il canale, nell’ascensore,
nella nebbia che sale
dalle nostre lingue
quando si scaldano.

Sia dove vuoi, ma fa’
che sia ora, in questa notte di neve,
che non avrà mattino né splendore
e morirà
alla porta, la luce accesa nell’anticamera,
un cappotto, le scarpe, l’eco dei passi
sulle scale e poi il buio
che farà ancora.