La figura del padre. Intervista a Milo De Angelis

da | Feb 13, 2017

L’intervista che segue è un’anticipazione del libro Milo De Angelis, La parola data. Interviste 2008-2016, con introduzione di Luigi Tassoni, in uscita per Mimesis.

Nelle poesie in cui compare o viene allusa la figura paterna – da “Terra del viso” a “Biografia sommaria” a “Tema dell’addio” – si intravede spesso un sottofondo “militare” (“le cose di mio padre militare”). In “Terra del viso” in particolare si capisce che la sua storia ha a che fare con la Russia (e altrove, intervistato, lei ha parlato della spedizione in Russia e di una donna che salvò suo padre): posso chiederle quali sono, se può raccontarmeli più da vicino, i contorni biografici di questa vicenda (soprattutto in relazione al Colloquio con il padre e alle poesie di “Terra del viso”)? E più in generale potrebbe darmi alcuni contorni biografici del rapporto con suo padre?

La spedizione in Russia è stata una delle leggende familiari create da mio padre. Ne parlava continuamente. La cena era il suo momento preferito. Nelle nostre anime fanciulle – la mia e quella di mio fratello – risuonavano nomi fantastici: il fiume Don e il fiume Gug, Sebastopoli, Karkov, Certkovo, la divisione Pasubio e la divisione Tridentina, la battaglia di Petrikowka, la steppa di Isbuscentskij presa d’assalto all’arma bianca dal Savoia Cavalleria nell’agosto del 1942, con sciabole e spade, come in una parata militare di fronte al pubblico plaudente. E insomma nella nostra dimora di Viale Majno prendeva vita – alle otto esatte di sera per anni e anni – tutta un’epopea tragica e fiabesca, fatta di fanti siberiani, cavalleria cosacca, attacchi, ritirate, gavette di ghiaccio, spazi gelidi e sterminati, autocarri immobili senza benzina, fughe atroci e disperate verso la morte. E in questo scenario epico emerse una sera la figura di una donna russa – Oxana Brumel – di cui mio padre parlava con emozione e riconoscenza, ma senza mai scendere nei dettagli, forse per delicatezza nei confronti di mia madre o forse per un istintivo pudore che l’ha sempre accompagnato. Diceva soltanto “E’ stata la mia salvezza, Oxana, è stata provvidenziale, quella donna”. Non abbiamo saputo nient’altro di lei, se non quando mio padre concluse un suo racconto russo con “povera Oxana, non lo meritava…ma non voglio più parlare di lei”, detto con voce commossa. E da lì capimmo che c’era un finale tragico e capimmo anche che non avremmo mai potuto chiarire fino in fondo la storia di Oxana,  amplificata dalla memoria e dal profumo di morte che aleggiava intorno ai reduci di quella spedizione infernale tra i ghiacci e i silenzi. A me bambino fantasioso rimase impresso, più del nome, il cognome di quella donna: Brumel. Coltivavo in quegli anni un’accesa passione per l’atletica leggera e il nome di Valery Brumel – il grande campione siberiano di salto in alto, primatista mondiale con due metri e ventotto – risuonava vittorioso negli stadi di tutto il mondo. Cominciai a far volare l’immaginazione: “forse Antonio De Angelis, mio padre, era anche il padre segreto di Valery Brumel e forse dunque c’era una misteriosa parentela tra me e lui…i conti tornavano…Brumel era nato nel 1942…non era impossibile…e poi ho notato una certa somiglianza”. Questi voli della fantasia non avevano ovviamente nessuna prova di realtà ma testimoniavano la forza evocativa di quei racconti paterni, la loro capacità di incidersi profondamente in un’anima infantile, specialmente la mia,  pronta a credere tutto, ansiosa di credere a tutto. E d’altra parte bisogna aggiungere che mio padre era un maestro affabulatore, aveva la stoffa del narratore nato. Conosceva i ritmi giusti della trama, sapeva rallentare quando era necessario, concitare la scena e la voce, creare uno stato di sospensione e di attesa di cui era felice – me ne accorgevo ogni volta – con il suo delicato sorriso e con la gioia di chi ha raggiunto la meta e ha saputo incantare per un’ora i suoi spettatori, lasciando in loro un nucleo fantastico che poi li avrebbe accompagnati nel tempo. E inoltre era un uomo preparato sul piano storico e militare (purtroppo solo su quello, essendo lontanissimo dalla letteratura) in quanto era pur sempre il figlio di un generale d’armata –  Giulio De Angelis, studioso di strategia bellica e balistica – e dunque a sua volta impregnato di saghe guerresche tramandate nelle generazioni.  Tutto questo mondo paterno affiora, come notavi, in diversi miei libri, soprattutto nel trittico di Terra del viso intitolato “Memoria” e in quella poesia di Biografia sommaria, “L’incarico annuale”, dove appare Antonio in persona e ci  racconta ogni sera le sue avventure di soldato narratore, un narratore che conosce bene l’arte di stupire i suoi figli.

In un’intervista contenuta nei “Colloqui sulla poesia” ha parlato di suo padre come di un ragazzo sperduto e delicato, e ne ha parlato esplicitamente come di un padre “alla Luigi Cucchi”. Trova ci siano dei raffronti possibili, delle analogie e, più in generale, dei motivi forse “generazionali” nella presenza potremmo dire insistente della figura paterna nell’esperienza della poesia italiana, in particolare dagli anni ’70 in poi (penso per esempio al “Disperso” di Cucchi, e a Viviani)? Sente delle affinità con queste e altre esperienze contemporanee in relazione a questo tema-figura? Qualcuna l’ha colpita in particolare? Ci sono delle letture che hanno segnato il modo in cui la sua poesia guarda a questa figura? Ci sono poesie per il padre – anche di estrazione non italiana – cui è legato? Ci sono in particolare poesie e romanzi incentrati sulla figura paterna che l’hanno interessata, o anche saggi e indagini (anche di taglio diverso fra loro) che ha a cuore (siano questi o meno direttamente legati alla sua scrittura poetica)? I poeti “incontrati” con l’esperienza di Niebo hanno pertinenze col tema?

Il romanzo novecentesco – da Kafka a Svevo a Gavino Ledda – è dominato da padri violenti, tirannici, potenzialmente assassini. Mi pare invece che la poesia sia molto più varia. Anche qui possono esserci qua e là padri-padroni (per esempio in Sylvia Plath o in Antonia Pozzi) ma si disperdono in una grande tavolozza di colori paterni, una tavolozza ricca di tipi e di caratteri, sfumature, toni e semitoni: dal padre “civile” di Risi a quello protettivo della Spaziani, al padre pittore di Zanzotto che lo spinse nell’amore per il paesaggio, al padre georgico e antico di Piersanti, camminatore di campagna e conoscitore di erbe e di fiori, al padre di Giudici assediato dai creditori in quella terribile poesia in cui il poeta bambino ha vergogna di camminare accanto a lui. E poi c’è il padre affettuoso di Sbarbaro, quello avaro di parole di Luzi e quello felice di Saba e di Gatto, il padre collerico e ansioso di riscatto di Scotellaro e il padre ferroviere, saggio e laborioso di Quasimodo o di Accrocca: sono molti i padri novecenteschi che mi hanno lasciato un segno, compresi quelli che hai citato di Viviani e di Cucchi. Con quest’ultimo poi si chiude un capitolo fondamentale della figura paterna di questo secolo, il capitolo dell’orfanità e dei padri morti precocemente – da Ruggero Pascoli, ovviamente, a Jahier, Sibilla Aleramo, l’Ungaretti di Portonaccio, Vivian Lamarque – ed è un capitolo che sento molto prossimo, poiché il nostro Antonio De Angelis scompariva per lunghi periodi e ci lasciava orfani. Sì, scompariva per settimane e a volte per un mese, specialmente d’inverno, attratto dalla Liguria e dagli amici d’infanzia, dalla passione per la roulette e dal Casinò di Sanremo e dal suo classico Hotel Royal e insomma da quell’intreccio  di nostalgia e gioco d’azzardo che lo gettava nella latitanza e gettava nell’inquietudine  tutta la famiglia. Non era angoscia – sapevamo che sarebbe tornato e d’altronde lui si faceva vivo con le sue buffe cartoline – ma era piuttosto una sospensione del tempo irrequieta e piena di domande, ipotesi, proposte di interpretazione (“Come mai così a lungo? Cosa fa tutto il giorno? Vuole nasconderci qualcosa? Perderà anche questa volta? Punterà tutto sul 29 nero oppure sul 33 nero, ancora sul 33…perché sempre il nero?”) che trasformava la sua assenza in un tempo vivace e interrogativo, rendendo Antonio più presente di quando c’era di persona. Infatti di persona – specialmente per noi ragazzi – era un’ entità fantomatica, non aveva la minima vocazione paterna o didattica, non faceva davvero parte della nostra famiglia e forse di nessuna famiglia. Non sapeva nulla di noi, dei nostri amici, della nostra vita scolastica, non sapeva nemmeno che classe o che scuola facessimo. Per noi Antonio esisteva solo nei suoi racconti di guerra, nelle sue storie di adolescenza e di sfide sportive, corse in motocicletta o in formula tre, partite di tennis o di fùtbol, come diceva lui, tutto un universo agonistico che gli sarebbe rimasto sempre caro e che lo spingeva a prendere ogni giorno la Gazzetta dello Sport e ascoltare ogni domenica “Tutto il calcio minuto per minuto”. Bisogna poi aggiungere – e non è cosa da poco – che tutte le narrazioni di Antonio arrivavano fino all’anno 1944 e non si spingevano mai oltre, nemmeno una volta. E il 1944 è stato l’anno del matrimonio con mia madre.

Altrove lei ha parlato del suo interesse per Jacques Lacan, maestro “tragico” e solitario: in relazione al tema paterno è una presenza pertinente (penso per esempio al seminario III e VI)? Più in generale la problematica psicoanalitica, da questo particolare punto di vista, le interessa?

Per Lacan il padre è il registro della legge e del nome, binomio incatenato. Ecco, direi che Antonio De Angelis ha spezzato la catena: è stato tutto dalla parte del nome e non ha rappresentato nulla della legge. Non aveva autorità né forza imperativa né virtù pedagogica. Esisteva solo lì, nella suggestione del suo narrare, nelle sue leggende di vita giovanile o guerriera, nei cento nomi che costellavano le sue rievocazioni, sempre attente a localizzare la scena nella cartina geografica. Esisteva soltanto lì. Il Padre autentico, quello in grado di preparare l’accesso al mondo, dovevo cercarlo altrove, nelle creature che avevano la suprema virtù della correzione e dell’insegnamento. E infine, per tornare alla tua domanda, la psicanalisi che si occupa di letteratura mi è sempre sembrata scadente, a partire dal saggio freudiano sul parricidio in Dostoevskij fino agli studi di Francesco Orlando sul nostro Novecento.

Sente, come Caproni soprattutto o come in altro modo Sereni, anche una potenza latamente ontologico-metafisica della presenza del padre in poesia, o è un aspetto che non le pare riguardarla? Sente il fascino della dualità Padre-Figlio nella sua versione cristiana (penso a certe allusioni/riscritture del “Padre nostro” in alcuni luoghi della sua poesia, à la Celan)?

Prima, rispondendo alla questione del padre in letteratura, ho volutamente tralasciato un’area tematica per me importantissima, sapendo che l’avrei ritrovata in questa tua domanda: l’area metafisica e ultraterrena in cui il padre defunto rivive nelle occasioni dell’esistenza più impensabili – in una mensola di via Scarlatti o in una pietra appuntita del cortile di casa – oppure fa da ponte d’ingresso per un regno misterioso che riguarda entrambi – padre e figlio – e che li accomuna in un infinito trasalimento. Penso alla figura paterna del Raboni cimiteriale, a certe poesie di Caproni come Il vetrone (quando si nomina Caproni, consideriamo sempre e solo la madre, e invece…) oppure a Sereni (Il muro, Autostrada della Cisa) e anche al Montale di quel difficile testo che è Voce giunta con le folaghe, dove l’incontro con l’ombra del padre culmina in una riflessione altissima sul senso del vivere e del rimanere. Questa potenza ontologica, come tu la definisci giustamente, mi ha sempre guardato e riguardato da vicino, proprio perché è quella meno vincolata alle cronache sociali della morte e dunque capace di immettere in un luogo spirituale e invisibile. Non è un luogo cristiano nel mio caso (talvolta ho usato formule di preghiera, ma come memoria infantile sottratta a ogni fede) ma piuttosto un grido che reclama l’assoluto, e lo reclama  senza l’appoggio di una verità confessionale, nella più nuda e sperduta solitudine: “come è preda del certo amore / tenersi perduti nel pianerottolo senza ringhiera!”.

Il tema della banda di ragazzi, dell’adolescenza e della sua autosufficienza, è in qualche modo in relazione con la figura paterna? Tale aspetto è semmai in contrapposizione con la figura paterna (la desiderata “autosufficienza” dell’adolescenza contrasta con l’imposizione della Legge)? C’è, in ogni caso, un legame stretto fra i due temi? Potremmo dire che il paterno legato all’adolescente si oppone al materno legato all’infantile?

Sono d’accordo su quest’ultima ipotesi. Il mondo infantile, legato alla madre e alla casa, confluisce nel tempo adolescente. E questa confluenza avviene attraverso una figura paterna, che può essere il padre reale ma anche un maestro di vita, un insegnante, un allenatore, una creatura che ha esperienza, ampiezza di sguardo, prospettiva temporale. Dopo di che c’è un passaggio ulteriore: l’adolescenza diventa un cosmo autonomo, letteralmente, capace di fondare il suo nomos, intrecciando alcuni elementi magistrali del mondo adulto al proprio tempo eroico e smisurato. Ed è un tempo che rifiuta la misura, si nutre di sfide, coraggio, nobiltà d’animo e di intenti, furore agonistico, pathos della banda e pathos della solitudine. Il suo luogo canonico è il cortile, terreno intermedio tra la casa e il mondo dove si eleggono i propri compagni di avventura, alleati di un patto che rimane incomprensibile al buon senso dello sguardo adulto.

Cos’ha comportato il “rovesciamento” del tema paterno e l’assunzione in prima persona, per lei, del ruolo di padre, per la sua scrittura poetica? Ci sono altre poesie – oltre a quelle di “Biografia sommaria” – non esplicitamente legate al suo essere padre ma segnate comunque da (o riferibili a) tale esperienza?

Non si diventa padri solo quando nasce un figlio o quando lo si accompagna nella sua crescita. Si diventa padri quando si comprende la necessità e il destino di questa nascita, il suo significato nel proprio ordine personale e nell’ordine del mondo. Questo può accadere in qualunque momento. Può accadere in sala parto o all’ingresso del primo giorno di scuola o anche più tardi, quando l’avventura della paternità all’improvviso chiarisce il suo segreto e lo traduce in parole oppure, nel mio caso, in versi. Io sono diventato padre da poco tempo, dall’autunno del 2014, quando ho scritto questa poesia dedicata a Daniele: apre la seconda sezione del libro ed è in assoluto una delle poesie che sento più cariche di destino.

Questa sera ruota la vena
dell’universo e io esco, come vedi,
dalla mia pietra per parlarti ancora
della vita, di me e di te, della tua vita
che osservo dai grandi notturni e ti scruto e sento
un vuoto mai estinto nella fronte, un vuoto
torrenziale che ti agitava nel rosso dei giochi
e adesso ritorna e ancora ritorna
e arresta la danza delle sillabe
dove accadevi ritmicamente e tu
sei offeso da una voce monocorde e tu
perdi il gomitolo dei giorni e spezzi
la tua sola clessidra e ristagni e vorrei
aiutarti come sempre ma non posso
fare altro che una fuga partigiana da questo cerchio
e guardare il buio che ti oscilla tra le tempie e ti castiga,
figlio mio.

Immagine: foto di Viviana Nicodemo.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).