La direzione delle cose

da | Lug 15, 2014

[Sei poesie seguite da un intervento critico di Tommaso di Dio]

Le cose che vedo sono una mappa:

questa è la libreria che non basta
questa è la tivù per non pensare
questa è la sedia, forma del mio corpo
questo è il frigorifero, un calendario che scade
questa è la tastiera per vedere meglio
questa è Anna, questo è Pietro, che dormono
per difendersi dal male
quelle le case fuori per dirmi
la normalità dei giorni.

Se tolgo le cose che vedo
io sono quello che resta
ma senza sentirmi perché
sono le cose a dire chi sono.

*

IL SERVO MUTO

Raccolgo il giorno nei gesti che sono
levare la camicia, piegare i pantaloni,
unico proposito di ordine.
Sui vestiti c’è il mio odore, fumo e pelle.

Rivedo le parole già dette
e quelle mancate.
Ora il servomuto ha la mia forma,
la sensazione di perdere tempo
e non averne mai abbastanza.

Qualcosa resta sempre addosso
le domande per esempio ogni sera
che strisciano quando spengo la luce.

Tutta la vita a spogliarmi
mai veramente del tutto.

*

L’AVANGUARDIA E’ FINITA

Nei giorni scrivo una lista di gesti
che sono libri, tastiera, bicicletta,
pannolini, pentole, pigiama.
La notte cerco di dormire, prima
di ricominciare la spirale.
Esistono varianti della lista
ma non spostano la bolla.

Ogni giorno vado fuori e torno a casa.

Io sono questo, inutile pensare altro.

Non è tempo di distruggere o fuggire,
dobbiamo starci accanto,
capire che la strada è anche ciò che abbiamo.

*

LA PIANTA DEI LIMONI

Era un rito in primavera portarla
con mio padre fuori dal garage,
caricarla sul carrello truciolato
per un pezzo di cortile
fino al gabbiotto delle galline.
Dietro il filo di fumo lui guardava
le mie braccia ogni anno un po’ più forti.

Gli anni buoni faceva anche due tre
limoni, molto ma molto più buoni
di quelli del supermercato.

In autunno la pianta tornava in garage,
un sentiero a ritroso che chiudeva
l’anello delle stagioni.

Ma tra le primavere era tutto
fermo, uguale, come
le cornici sul centrino in salotto,
a parte la mia barba un po’ più dura,
i suoi capelli un po’ più bianchi,
in capannone fino a cena
e comprare il giornale la domenica,
indossando i vestiti che scartavo.

*

TRASPARENTE. VERO

È trasparente la parete che divide
i cuochi in cucina dal ristorante,
il guscio del computer, la cupola del Reichstag,
la telecamera negli spogliatoi.

Ci confessiamo per restare nascosti:
l’automobile in leasing, le rate per le vacanze.
Diciamo solo quello che bisogna
sapere coprendo le distanze.

Ma “trasparente” non è “vero”,
perché nessuna parola scava
sotto la pelle dei gesti:
“vero” è se ci sporgiamo
nel buio prima di addormentarci,
le tutine stese in terrazzo,
mia madre quando lavora la pasta,
Anna che copre la mia bicicletta
col telo nuovo della sua.

Per dire le parole quando siamo vicini
occorre una grammatica lenta,
come cercare l’uscita
alla luce di un casco.

Trasparente è il tuo sguardo,
che dice più delle parole
che non hai coraggio.
Vera è l’acqua di questo fiume
che scorre un pensiero negli occhi
fin dove arrivano gli occhi.

*

La prima volta quel battito
è una raffica che affiora
da profondità di cellule.

Per paradosso la vita è un battito
che rallenta, perché tra sussulti
si riavvolgono i giorni.

Anna dice quel battito
sotto lo schermo sarà interista
e già gli piace la nutella,
come se i desideri fossero sagome
da far combaciare
perché il bene è il rovescio della paura.

È scattato un conto alla rovescia
per nascere e diventare creatura
e un altro lungo un orizzonte
per diventare padre.

***

Un aperto percorso su alcuni aspetti de La direzione delle cose di Roberto Cescon (Ladolfi Editore, 2014)

Per comprendere appieno il senso di maturazione che rappresenta La direzione delle cose nel percorso poetico di Roberto Cescon, è opportuno partire da un passo prima: il libro d’esordio La gravità della soglia (Samuele Editore, 2010). Già in questo lavoro, sono disposte le coordinate fondanti del peculiare modo in cui Cescon intende l’atto poetico. Innanzitutto reportage di percezioni, che però subito si fa riflessione e acuta meditazione sul farsi stesso della poesia. L’autore avverte con chiarezza il discrimine che le parole operano sul mondo, quel loro fare distanza e, attraverso la distanza, il loro fare mondo. Il titolo stesso allude a questa operazione, la cui avvertita gravità, etica ed estetica, è il segno più profondo della sua opzione che vorrei qui chiamare “realistica”. Leggiamo la seconda poesia del volumetto: “Nel ventre della casa le parole\ erano odori fossi fango e solchi\ lungo l’asintoto del dubbio\ per coprire la distanza dalle cose,\ riempiendo la carne che ogni cosa vive” (p. 16). Qui l’autore cerca di mostrare la soglia problematica attraverso cui il mondo si fa parola e viceversa; le parole sono strumento – certo dubbioso – attraverso cui si tenta di coprire “la distanza dalle cose”, cioè la materia che, evocata, subito richiama percezioni (“odori fossi fango e solchi”). L’intelligenza poetica di Cescon sta in questo non invertire i piani, proponendo illogicamente la presenza percettiva prima del segno: è il segno (le parole) il problematico primum, capace di evocare il mondo e di riconsegnarlo così alla carne di scrive (e di chi legge) con la coscienza di ciò che è, che è poi ciò che fa.

Eppure in questo primo libro – che è così bello, così compiacente -, Cescon ancora si mostra ancorato a stereotipi immaginativi e verbali che denunciano in lui la formazione poetica, l’artigianato del poeta. Espressioni come “lungo l’asintoto del dubbio” tradiscono la tipica astrattezza della poesia lirica, di lunga eredità ermetica, che qua e là riaffiora nel libro, insieme a qualche manierismo espressionistico (il termine “la carne” che affiora qui, ma anche oltre); tutto ciò a fronte di componimenti più maturi e decisamente più prossimi alle intenzioni del poeta (su tutti, il bellissimo “Si è fatto la doccia di mercoledì”, a p. 40, ritratto struggente e aspro di un suicida anziano). Il rischio è avvertito ed espresso nel libro stesso: “Ho molti padri ancora nello stomaco\ che minacciano di risalire\ sul filo di una lingua poca\ che rotola un varco tra le carni” (p. 40). Cescon, pur giovane esordiente, mostra una coscienza delle proprie operazioni linguistiche e stilistiche veramente rara. Tutto ciò prelude ad un superamento, ad una ricerca che non si appaga di sé e che si dovrà aprire ad una sperimentazione più radicale.

Questo è ciò che avviene nel secondo libro, La direzione delle cose. In questa opera possiamo assistere al tentativo di abradere molti dei tic e dei lapsus che la propria formazione poetica gli donava e di fare i conti con ciò che l’esperienza del mondo gli offre. Cescon sceglie di avere come bussole, come mappe del proprio comporre tutto ciò che di più comune gli capita, in uno sforzo di umiltà e di verità di sé. Sceglie di “umiliare” la composizione poetica, tentando il limbo opaco della banalità del proprio quotidiano; così allargando le possibilità della propria lingua oltre i confini fissi della tradizione, per approdare completamente alla rischiosa e vibratile soglia del mondo della propria esperienza diretta. Auscultazione e re-visione; e, se si vuole, verifica di ciò che si fa ogni giorno di questa vita, la poesia di Cescon trova nuove e più aperte dimensioni e prende in carico il rischio etico di una poesia impoetica, ma terribilmente e sentitamente vera. Infatti, ciò che colpisce in questo libro è che le cose di cui parla non sono solo le algide propaggini del nostro vivere quotidiano, neutre e sferiche protesi di un godimento singolare e assoluto, datità di un io alienato come molta poesia da molti anni ci ha cinicamente fatto comprendere (e ancora oggi non vuole smettere di ricordarcelo, come se la poesia fosse solo cattiva sociologia). Al contrario, quello che Cescon mette in scena è un mondo di cose che ci riguardano, che ci rispecchiano, cariche di significati pur nella loro non corrispettività oggettuale: sono il nostro modo di rapportarci al mondo, il nostro codice umano. Si potrebbe dire che nelle pagine di questo poeta le cose sono spesso merce, oggetti pop che subito richiamano la loro rete economico-commerciale; Cescon non dimentica mai di lasciare ben visibile il cartellino del prezzo sulle cose che nomina e vuole che esso sia contemplato e compreso, mai obliato (per esempio: “Non dimenticare nulla e partire\ con più di quanto si è arrivati\ nel parcheggio a pagamento”, p. 36, dove l’ultimo verso rompe ed arricchisce enormemente l’idillio estivo dei versi precedenti; da qui l’uso esplicito nel libro dei nomi dei prodotti e delle loro marche). Eppure la merce qui si offre anche per quello che nella percezione più contemporanea ormai è diventata: linguaggio, comunicazione.

Prendiamo ad esempio il brano Le cose che compriamo (p. 13); è una poesia altamente significativa, buon frammento di una microstoria che per tutto il libro affiora a tratti: il percorso travagliato attraverso cui una giovane coppia prova e infine riesce a fare un tanto voluto figlio. Il supermercato è un topos della modernità, qualcosa molto simile (e dissimile al tempo stesso) alla funzione che il locus amoenus aveva nella classicità: spazio di estraneità, di agnizioni e apparizioni, laddove più che in altri luoghi tutto è conformato al nostro godimento e si è sempre in prossimità dei nostri dèi\merci. In esso siamo target del marketing aziendale, acquirenti, vili numeri nella catena invisibile della metafisica del capitalismo mondiale. E invece Cescon ci mostra quanto questa sia solo una metà della verità, una verità che non deve nascondere che la radice dell’attività economica è antichissima ed è la legge di costruzione della casa, della vita insieme, in comune. “Andare al supermercato è un modo\ di rinnovare le promesse matrimoniali”, ci dice il poeta: “Ci fa sentire una famiglia”. È attraverso le pratiche economiche che entriamo in contatto con cosa siamo e con cosa ci manca (“Per le corsie pensiamo cosa manca\ nelle antine della cucina bianca”). Sorprendentemente, “alla cassa la commessa bionda\ già ci conosce”, perché sa cosa acquistiamo e ciò che acquistiamo è ciò che facciamo, previsione dei gesti che abiteremo e che ci informeranno nella distanza. La merce infatti (esattamente come le parole) è segno della distanza, rilancio di un fare, gesto che evoca il futuro e lo sintetizza: “Le cose che compriamo ci raccontano”, scrive Cescon. E raccontano anche ciò che non si riesce a dire o a dirsi: “Il mese scorso ha visto il test\ dell’ovulazione. Oggi gli assorbenti.” Attraverso le cose, l’autore ci dice qualcosa di profondissimo e di così personale e al contempo di così brutale nella sua oggettività: il fallimento di una gravidanza, l’amore che esce fuori di sé e si pretende altro corpo del figlio, il pudore di condividere questa intimità con l’estranea vita della commessa. Tutto questo è calato nello spazio più neutrale possibile, in una lingua che evita deliberatamente ogni sovversione e artificiosa altezza: gli oggetti che acquistiamo, i più impoetici (il test dell’ovulazione, gli assorbenti), sono in grado di descrivere ed evocare una parabola antica che sembra non smettere di andare di moda nella specie umana: la generazione della vita.

Andare al supermercato è un modo
di rinnovare le promesse matrimoniali,
riempiendo i carrelli di offerte
e qualche sfizio, dopo esserci chiesti
più volte se vale la pena.
Ci fa sentire una famiglia.
Per le corsie pensiamo cosa manca
nelle antine della cucina bianca.

Alla cassa la commessa bionda
già ci conosce, passa sul rullo i codici
delle cose e noi le imbustiamo.
Lei ormai sa cosa ci piace.
Lo saprà anche di altri.
Le cose che compriamo ci raccontano.
Il mese scorso ha visto il test
dell’ovulazione. Oggi gli assorbenti.

Questa poesia fa da contrappeso ad un’altra, di poche pagine dopo, che – così sembra – racconta una storia esattamente opposta. Nel testo intitolato La grappa (p. 15) tutto è rovesciato: qui si parla della morte laddove prima del desiderio di una nascita; siamo dentro lo spazio domestico e non più nel non-luogo del supermercato; non siamo di fronte ad un oggetto industriale, ma di fronte al frutto di un artigianato privato e popolare, la grappa; eppure sono sempre i gesti che con le cose facciamo a trasformare il senso dello spazio umano. In questo testo la narrazione è scandita da domande, interrogativi che riguardano la vita delle cose, interrogativi all’apparenza banali; dietro la questione di come facciano gli oggetti a sopravvivere al di là di noi, egli fa questione della vita dei segni: siamo sempre sulla gravità della soglia, per quanto trasfigurata una volta in merce, una volta in prodotto dell’artigiano: e se non si comprende questa rete simbolica e metatestuale la parola di Cescon rimane schiacciata sulla carta. Le domande “perché tenere le cose?” oppure “come esistono le cose\ se ci sono solo quando noi le troviamo?” vanno coordinate nel sistema degli interrogativi sul nascere e sul morire e sul significato estremo che i segni hanno per noi: “Sotto un asse ammuffito e una nuvola\ di polvere ha trovato una damigiana:\ è l’ultima grappa fatta dal padre\ che credeva finita da anni.\ L’aveva nascosta prima del male.” Ecco come nascono i segni; atti estremi di sopravvivenza, ultime sedi di fronte al morire. Ed ecco a cosa servono: “L’ha travasata in cantina. Se la offre\ agli amici deve raccontare la storia.\ Ne beve poca ogni tanto\ per non finirla troppo presto.” L’offerta si fa ripetizione ed essa infine si fa rito da spartire e da condividere, da preservare: da curare. Non è importante quale siano le cose e quale sia il male che le abita; può essere la morte o l’anonimo e vile capitale, ma importa cosa ne facciamo, quanto noi siamo in grado di caricare di senso l’abitare il mondo e prendercene cura. A questo spingono i testi La pianta di limoni (p. 19), ma anche e più esplicitamente il testo L’avanguardia è finita. In quest’ultimo, alla lista dei gesti\cose che ogni giorno informano il nostro vivere, segue una presa di coscienza che da esistenziale subito si fa metaletteraria: “Non è tempo di distruggere o fuggire,\ dobbiamo starci accanto,\ capire che la strada è anche ciò che abbiamo.” (p. 18). Cescon usa il plurale, un “noi” che a livello diegetico sembra alludere ai componenti della propria famiglia, protagonisti diretti o obliqui di molti brani di questo libro; eppure, proprio a causa del titolo, quel “noi” subisce un’anamorfosi e tende a ad ampliare il proprio senso, attraversando dapprima la terra sconosciuta del lettore, per poi giungere a riferirsi alla comunità letteraria. Il verso “Dobbiamo starci accanto” allora diventa una richiesta di prossimità, di cura, di attenzione rivolta non solo agli scrittori, ma anche agli operatori culturali; un desiderio che “la strada” della letteratura, qualunque sia l’opzione singolare, oggi non possa prescindere da un’umanità dei rapporti, mostrata al di là e dentro i testi. I percorsi devono essere condivisi, poiché i significati non sono dati a priori, ma sono creazioni comuni, creazioni della comunità che si accorge di avere qualcosa in comune (si veda anche il testo di p. 72: “Ecco la poesia è questo: è quello\ che passa nel mezzo, nello spazio che ci divide, quando sentiamo\ diessere parte, perché era tutto lì, bastava solo accorgersi.”). E Cescon sembra dirci che oggi più che mai abbiamo bisogno di significati (cioè: di comunità), che il linguaggio della poesia torni ad essere quello strumento che si preoccupa dei significati, proprio in quanto si prende carico del problema di ciò che i segni fanno. (Sul tema della cura e della prossimità in questo lavoro di Cescon, rimando volentieri all’ottima recensione di Alberto Cellotto: http://librobreve.blogspot.it/2014/02/roberto-cescon-e-le-nuove-poesie-in-la.html).

La riflessione sul processo semiotico ci sembra affiorare in più punti del libro; e fare sistema non solo fra la prima parte del libro e l’ultima (dove la tematica metapoetica è esplicita, la sezione Il poeta è un sarto), ma anche agendo da chiave interpretativa nella parte centrale del volume. Sotto il titolo Principio di indeterminazione Cescon raccoglie una serie di componimenti che ruotano sul tema della religione. Non mi sembra un caso che essa si apra con un testo che, se dapprima racconta la disillusione rispetto ad un ipotetico spazio dopo la morte (“Non riesco a credere\ che dopo ci sia qualcosa”, p. 49), termina proprio con una riflessione sul senso e sulla funzione del linguaggio: “ Vorrei che la frutta fosse sempre matura,\ ma so che basta un attimo.\ Rimarranno\ le parole, i gesti che siamo stati\ da raccontare nel dopo degli altri.” Le poesie che seguono allora si offrono non solo come un’antropologia degli ipocriti rapporti che gli italiani istituiscono con la religione cattolica, ma anche una presa di coscienza che la liturgia è ormai costruita da segni che sono completamente svuotati di senso, in quanto non sono più condivisi; paradossalmente, c’è più liturgia fra le corsie del supermercato che qui, dove invece domina l’ambiguità e, metaforicamente, il prezzo di ciò che si compra è nascosto, velato, spacciato per un altrove a cui nessuno è veramente interessato. Prendiamo per esempio il testo a p. 53; qui si parla del matrimonio, esattamente come nel testo Le cose che compriamo di p. 13. Il testo è scarno, tre distici che con tono generale descrivono sarcasticamente alcuni aspetti del classico matrimonio all’italiana; a cui seguono quattro versi che si incidono nella memoria, fra l’ironico e il visionario: “”Ci si aspetta un’auto d’epoca\ avvolta nella carta igienica\ per un matrimonio da favola\ in un rustico fotovoltaico.” Sembra una fotografia di Martin Parr; la lingua è mimetica di un grossolano spot televisivo, ma, complice la sapiente ecolalia in clausola, l’immagine del “rustico fotovoltaico” ci appare un visione kitsch di immediata prepotenza, in cui passato e futuro si sovrappongono e si snuda l’assurdo non-sense degli spazi linguistici che abitiamo.

La sfida di Cescon in questo libro era di riuscire a stare in quel moto opposto e sincrono che è allontanamento da ciò che di più trito ora hanno i padri nobili della tradizione poetica e, al contempo, vertiginosa vicinanza con la contemporaneità, fino a raggiungere la possibilità delle più quotidiane cose del nostro tempo. La cura che la poesia di Cescon propone è un’attenzione costante, una verifica di ciò che fa la lingua, del senso e della funzione della scrittura, la cui vitalità ingenua appare imperdonabile distrazione che svuota di significato la poesia stessa. Se si tiene a mente la riflessione che abbiamo svolto su certi manierismi espressionistici presenti nella La gravità della soglia, la lettura di uno dei componimenti finali del libro (p. 71) mostra chiaramente il percorso stilistico compiuto dall’autore:

Ciò che scrivo è una laguna:
le cose scorrono nelle parole,
però c’è meno sale.

Le parole sono già metafore
di ciò che resta fuori.

Certe volte sembra di mangiarle
ma la carne, quella vera,
è altra cosa, ha un odore,
pesa nella mano.

Quando dico carne, la carne
sta tra il foglio e gli occhi,
in mezzo solo un filo
che non basta alle parole.

L’uso della parola “carne” qui è di tutt’altra natura rispetto a quanto abbiamo incontrato nei testi d’esordio. Qui carne è proprio la parola “carne”, il segno linguistico che ci permette un’operazione immaginativa, percettiva e infine artistica; la carne al di là delle parole è l’inesauribile vita a cui le parole corrispondono sempre in perdita (“un filo\ che non basta…”). In questa coscienza profonda delle possibilità negativa che il linguaggio concede, il libro di Cescon sfida il reale stando sempre attento che la lingua non prenda il dominio, che essa non si faccia ingenua e spericolata rincorsa del significante o – forse peggior rischio – strumento per innalzare illusoriamente la vita di chi scrive in una mitologia creata soltanto dalle parole. In questa sfida, Cescon non solo si ritrova vicino alla dizione di alcuni autori a lui più prossimi, come Giovanni Turra, Igor De Marchi e Piero Simon Ostan, ma anche – mi sembra – alle intenzioni di alcuni che stanno tentando altrimenti e con altri mezzi le stesse ancora inesplorate terre linguistiche: le prose di Alessandro Broggi, Jacopo Ramonda e Simone Burratti, pur nelle loro differenze reciproche, cercano di dissociare il soggetto dalla lingua in uso, di mostrare il farsi di una lingua che non vuole più riconoscere il poetico come un dato acquisito, ma come una ricerca aperta e imprevedibile. In questo, e per paradosso, riscoprono la lezione più ricca di Eugenio Montale; che non è quella pur altissima dello stile, ma quella della poetica: in tutti loro s’allarga quell’“odore\ che non sa staccarsi da terra”, quell’ansia di aderire ad un’esperienza di umiltà e concretezza, che osa franare il rassicurante linguaggio delle parole, per farvi entrare la lingua terribile della banalità della vita, al fine esclusivo di aderire ad un’esperienza avvertito come metodo e come verità.

L’ultima poesia de La direzione delle cose chiude il cerchio e apre un altro orizzonte, un futuro prossimo libro. In essa, è raccolta l’esperienza della prima visione uditiva del battito di una vita che sarà. Di fronte al mistero grande della nascita, Cescon ancora una volta celebra l’impoetico con il poetico e viceversa; ci mostra l’impasto di sublime e di estrema banalità di cui siamo tutti composti. La scoperta altissima di quella “raffica che affiora\ da una profondità di cellule” convive con l’ingenuo istinto che vuole il figlio simile ai genitori, perfino nella banalità dei gusti: “Anna dice quel battito\ sotto lo schermo sarà interista\ e già gli piace la nutella” (p. 79). Cescon non teme più di osare i livelli e i registri, perché sa che è questo che continuamente viviamo; l’autore di questo libro sa che ogni bene che ci è dato vivere è guadagnato attraverso sacrificio pratico, lavoro; che si annida una brutalità dolcissima nelle cose vive di tutti i giorni. Non bisogna temere allora di aprire, di unire i livelli, di aderire: “perché il bene è il rovescio della paura”.

Tommaso Di Dio

(Febbraio\Marzo 2014, Milano)

Immagine: Martin Parr, Small World Il Partenone, Atene 1988-95.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).