La colpa al capitalismo

da | Giu 25, 2022

Sei poesie in anteprima dal nuovo libro di Francesco Targhetta, “La colpa del capitalismo”, appena uscito per La Nave di Teseo.

 

VETROCEMENTO

I suoi occhi arrossati che si perdono
tra i neon degli edifici pubblici
lo dicono
quanta poca vergogna porti
per tutto il dolore che sente
se niente di ciò che lo origina
è stato deciso da lei

eppure confessare senza filtri
non nascondere sé stessa agli altri
non mutano il suo isolamento.

È troppo spessa la sua trasparenza
perché si possa vederci dentro:
come un cuore murato
nel vetrocemento.

 

 

INIDONEO IACOPO

Quando apre un nuovo profilo sui social
si sente sciaguattare il cervello
ed è questo a fargli passare il sabato
sul lavello a sbucciarsi le viscere.

Tutti i migliori in città sono online.
Tutti i bot non si distraggono mai.

Basta l’apertura di una cassa in più
mentre aspetta in coda
e tarda a spostarsi
a farlo sentire sconfitto per ore.

A sua discolpa un giorno potrà dire
di non aver conosciuto l’amore.

 

 

UNBOXING

Sarah di lavoro fa la madre
di un bimbo che scarta regali:
asseconda con cura i suoi segnali
di gioia, emette raffiche di urletti
euforici, centellina domande
retoriche sull’ipotesi di altri pacchetti
e lo riprende col suo cellulare.

La parte più difficile
è il montaggio dei filmati:
qualche lacerto deve esserci
del pupo che gioca in estasi
un paio di lanci di una macchinetta
brevi manovre sul telecomando:
non si può ricavarne l’impressione
di giocattoli usa-e-getta.

Nei video di Sarah i godimenti
si accumulano,
non subentrano l’un l’altro
in continuo avvicendamento.
Se ne trae, guardandoli, la conferma
che la vita è soprattutto
incremento.

 

 

DAS KAPITAL

C’è chi ci crede e chi no
ma non distingui nei fatti
gli uni dagli altri, perciò
la professione di fede
dà conto di un’indole, niente
di più:
rivela chi gonfia nel gruppo
e chi si preferisce impostore.

Dalla parte giusta
della storia
ci sta solo chi muore.

 

 

All’ALTEZZA DEL MONDO

Purché soli è possibile una sera
alle cose riconoscere bellezza

l’aria che tira piano, gli occhi
chiusi un breve istante in cui
chiunque passando sarebbe
lieve
sarebbe niente.

Come fare in acqua il morto
ma in piedi
all’altezza del mondo.

 

L’ora viva della sera in androni
dove la luce si appoggia ai gradini
coi palpiti che porta la città,
quando fuori sono sciame i viali
sfocati dalle insegne appena accese,
e scorre sugli autobus l’autunno
tra i visi della gente dopo il traffico,
è l’ora che Zero si gode dal terrazzo
che guarda il gazometro e oltre
la Pam, dove si abbracciano
i condomini dell’ente come
pugili stanchi di lottare. Anche stasera
cena di vino, e pane e salame
da supermercato, a bere l’ultimo
sole sulle piastrelle del cucinino
da quando la corrente l’hanno tolta,
perché adesso le minacce le rispettano
i fornitori, e tocca accendere candele
che mettono paura, come una volta,
con i loro bruciati sussulti sopra le foto
appese dei morti, o in bagno,
contro gli specchi semiaperti
del mobiletto e le persiane alzate sempre,
simili a cancelli rotti nei campi.
È lì, in fondo, che è nato Zero, primo
di otto figli previsti con lungimiranza,
tanto che il nome Primo, i suoi, lo diedero
poi al secondogenito, e lui un po’ lo sa
che quel numero vuoto dice il terrore
di sbagliare ogni cosa, e disegna
il suo profilo rotondo come in casa
la poltrona sfondata, e infatti mai
si stupisce la gente quando Nando
racconta, dopo i soliti rossi, la storia
di Zero, che era facchino al mercato
in città, e al punchball delle fiere
nel sapore di rame che ha ottobre
lasciava vincere sempre i nipoti.
Ricordava lui stesso i suoi anni
una volta, la sua naia tra i monti
in Abruzzo e i nonni patrioti sul Carso,
ma il fatto è che da un po’ Zero al bar
non ci va più: da Lalo le stringhe all’ingresso
oscillano a un libeccio stanco, e resta
vuoto il posto al bancone, dove levigano
l’ombra e il legno il sapore degli amari
alle erbe. Ma a Zero le cose, si dicono
tutti, non andranno mai male davvero:
anche lui, come Nando, la tragedia
lo ignora, e dice il passaparola che sia
solo a corto di soldi per i farmaci
nuovi che prende, ma niente di che,
la pressione che scherza, tanto che tutti
lo aspettano un giorno quando il mattino
fa d’argento i canali e suona ogni strada
che ormai è San Martino nella valanga
di foglie sui lunotti anteriori, lo aspettano
in cappello da pesca venire a guardare
le briscole. “Non finisce mai niente,
Zero,” dice Nando a chi glielo chiede:
“figurarsi se queste cose
finiscono lui.”
Rimane tra gli incompiuti di Zero
un’impresa che ancora senti girare
sotto i portici bui dei paesi. Fu prima
del TSO, forse il ’91, che decise di imitare
le gesta dei banditi nei telegiornali,
lui che non poteva far male a nessuno,
ma nei bar gli saliva la rabbia e i soldi
svanivano in fretta, e sembrava che fosse
facile fare come nell’Aspromonte.
Era un marzo ancora di bassa nebbia
che scendeva tra le scuole dell’hinterland
col suo sonno pesante di guazza, quando
Zero chiamò Righetto, l’imprenditore
delle caldaie, che abitava una villa nuova
dove si apre il fiume in anse verso i primi
campi a granturco, e glielo disse
cambiando la voce che sua figlia
era in pericolo se non portavano
il mercoledì tra la chiesa
e gli impianti sportivi una borsa con dentro
dieci milioni. Quella sera strinse
il Fernet, Zero al bar, con una nuova
forza nel polso, ma al ritorno tra gli aloni
dei fari sentì al petto una stretta cattiva,
che scambiò sua madre per la smania
che s’infrangesse, finalmente, il loro
sordido inverno, ma era in realtà l’oscuro
senso di aver saltato d’un colpo un fosso
costeggiato per troppo tempo.
Vennero in borghese il mercoledì
gli agenti allertati da Righetto,
che nemmeno poi sporse denuncia
(“è come querelare un bambino”),
e Zero, dopo un po’ di ospedale, sospirava
ogni tanto da Lalo che purtroppo a lui
era andata male, come credendo
che un diverso esito fosse mai stato
possibile. “Ma a Zero, in fondo, non va mai
male davvero,” ribadiva negli occhi
la gente se lo vedeva su panchine
a dormire, e a notare il tremolio fioco
delle candele nel suo soggiorno
pensava che fosse il modo del figlio
di ricordare nel lutto la madre – e intanto
fuori c’erano gemme ai ciliegi
e venivano venti caldi la sera
uscendo dalla circonvallazione
e nelle soglie dei discount in chiusura,
ma Zero restava nascosto,
e le notti lassù non avevano forbici.
Finché un mezzogiorno di maggio
con un cielo piatto e celeste
sembrò che tutto si schiantasse. Fu Lalo
a chiamare i soccorsi vedendo Zero
nel terrazzo dal suo miniappartamento:
la tanica che reggeva con la destra
concentrava la luce ferma del giorno
e da una sedia i suoi urli di fuoco
rimbalzavano per i tetti di antenne,
come un graffio, urtante,
che offende, e cava i gatti
dal sonno, il suo “me bruso, me bruso”,
il rimpiattino delle tende
che si scostano tra finestre in alluminio
anodizzato, le signore dietro i gerani
dai balconi con la veranda chiusa,
e i ragazzi che tornano da scuola,
ma Nando e il questore calmano tutti
mentre l’altro si sbraccia, sudato,
lì in piedi: è Zero, tranquilli,
“acqua, ci sarà, nella tanica,”
dicono, mica gasolio –
ed è di nuovo commedia,
la gente che scrolla le spalle
ridendo, mentre solo i cani digrignano
i denti, quasi rotta la museruola.
Però poi scendono queste sere brune
come strade che sboccano oltre le valli
dove i tramonti allacciano di ruggine
i camini confusi, e tutto ti trema
addosso, spuntano le stelle anche
sopra i lampioni o lungo le tangenziali
che girano attorno come falene ai rioni,
e a Nando, mentre gli volano accanto
i caseggiati in beige popolari,
sembra che tenga ancora qualcosa,
il mondo, di vero, malgrado su Zero
si sia sbagliato di grosso.
Neppure dopo l’ultima grappa
ve lo dirà, Nando, neppure usciti
alle spianate delle notti d’estate
sui grilli, come andò quella volta a Zero,
dopo una sbronza avvelenata
negli spiazzi dietro il gazometro
su cui guardava, come una statua,
la casa con i sigilli: gli bastò
una notte in cella, ed era settembre,
per farla finalmente finita.
La guardia che lo trovò appeso
con i lacci delle scarpe vecchie
non disse niente, come tutti,
stupiti dalla prima vera impresa
portata a termine da Zero.
Qualcosa solo sentirai dire a Nando
se i titoli, gli ricordi, dei giornali l’indomani,
e sarà una bestemmia viscosa
di uva, sarà dura la parola come
nocche sul bancone, legname farà
di tutta la gente, terra bagnata
che si calpesta a novembre, prima
o poi, di tacco o punta, con la stessa
ebbrezza trionfante. La tragedia
di Zero, il taglio medio
diceva, e spiega Nando a chi gli offre
un amaro, che è durata
una vita, e non è servita
a niente.