Esiste nell’immagine di copertina di quest’ultima collezione di Franco Buffoni una fine traccia che la lega alla precedente, l’«Oscar» del 2012: è il segno, assieme mondano e paganeggiante, del sole: allora solitario nel vespro indorato e tiepido; qui esteso nel numero perfetto, in una ragionata geometria e un’atmosfera più fresca, nella silhouette del cielo che rammenta un antico pannello di Bruges. La coincidenza marca l’affinità tra i due libri; mentre la divergenza annuncia che c’è di più e del nuovo. Infatti, se da quell’altra si riprende l’avvio, mantenendone cioè il programma d’una biografia lirica, ora – al di là delle necessarie addizioni[1] – la narrazione s’estende fino al giorno corrente con il surplus d’un capitolo lussuoso: La coda del pavone (pp. 761-812).
La poesia di Buffoni, specialmente nei risultati recenti, può venire interpretata come un dispositivo letterario liminale: capace e contento di ri-costruire una soggettività eccentrica che si sottrae al lirismo novecentesco e odierno. Tale condizione è, come per Agamben, una soglia che non andrebbe interpretata o, peggio, confusa con l’ingresso/uscita d’un luogo, ma intesa semmai come una zona ombrosa e di potenziale trasformazione in cui, tra l’altro, si sfida l’utilitarismo contemporaneo. Il poeta non vuole e non deve fare più nulla, non gli serve niente, tranne la scrittura. Ed è proprio nel gesto poetico che, pur evitando attacchi violenti e ideologici, condivide dei pensieri che mettono in scena una drammatica ambivalenza, dove l’io rimane brillante e teatrale fino a quando, come il pavone al termine della sua squisita, ma occasionale, performance, scompare in un inquietante silenzio. In questo modo, la pratica di Buffoni da una parte sa superare la Confessional poetry: per cui poco io, limitata psicologia, scarsa intimità; e dall’altra evita l’esile e ambiguo engagement ostentato da altri.
I protagonisti della fabula sono delle bestie che non stanno lì a decorare il giardino universale, ma vengono osservate con la curiosità e l’attitudine dello studioso. In questo senso La coda del pavone può considerarsi il proseguimento e ampliamento del discorso iniziato con Betelgeuse (2021), in cui la scienza – assecondando la lezione di Lucrezio, Goethe, Primo Levi, Tobino, Oliver Sacks – non è solamente il tema prescelto ma la causa che, per convenientia stilistica, incoraggia la mimesi di un linguaggio e un registro a-lirici. Così la metrica e, soprattutto, il ritmo (elemento caro a Buffoni) pur di salvaguardare la correttezza delle descrizioni rinunciano, e pour cause, a ogni predefinita organizzazione formale. È, anche, per questo che per accettarsi quale sia il nostro, inevitabile, destino, sarà più efficace descrivere la realtà con il linguaggio meno poetico ed eroico che ci sia, quello delle discipline dure:
Quanto resisterà la Sapiens sapiens
Dopo appena due milioni di anni
In un mondo che per causa sua trasmuta?
(All’antropocentrismo, vv. 5-7, p. 791)
Oppure, variarla e adattarla questa lingua: tant’è che la scelta dell’inglese (che Buffoni ha insegnato e da cui traduce) ha, sì, un significato estetico e politico, ma giunge perfino ad averne uno sentimentale: buono a costruire quel personale catasto che Cvetkovich definisce come An Archive of Feelings.
In generale, poi, si nota come l’etologia oltre ad evocare immagini, abbia il compito e il merito di educare. Anche in ciò si differenzia la poetica di Buffoni da altri campioni, come, per dire, quello dell’assisiate, per quanto sia altrettanto didascalico. Se, difatti, le laudi di Francesco hanno come scopo la gloria metafisica, per Buffoni la bios rimane lo strumento puro e preciso per indagare l’eziologia de mali e delle colpe dell’uomo nell’attimo esatto del presente.
Un altro aspetto da segnalare è quello di un ripensamento critico di alcune categorie, in genere memorizzate come salde e risolute: umano/non umano, maschile/femminile, canone-legge-precetto vs i suoi contrarî. Si tratta d’un meticciato sia tematico sia strutturale, dato che la condizione postumana ridefinisce l’identità e il rango dello stesso homo. Buffoni, in pratica, sposta Vitruvio dal suo magnifico perno e, evitando proclami o prediche, gli concede di rilassarsi e accettare, e perfino celebrare, una posizione sghemba nel mondo:
L’uomo, lo sappiamo,
Non è al centro di nulla
Anche se cerca sempre
Di accaparrarsi tutto.
Fosse sua la Terra…
Ma e della Natura.
(Di bene in meglio, vv. 1-6, p. 764)
L’esistenza è ormai avvolta in una costellazione di voci, sensi e sensibilità:
[…] Curioso al riguardo come, in alcuni dialetti alpini ormai scomparsi, termini simili designassero al contempo creature appartenenti al regno animale e creature fantastiche o fenomeni atmosferici.
(Una bestia d’uomo, vv. 6-9, p. 769)
E d’altronde che cosa manca agli animali?
Non l’amore per la prole,
Guarda l’agnello sul ventre della madre
Sdraiata a terra, le zampe legate,
Che ancora cerca di leccarlo…
Non il gusto di giocare assieme
O la paura in caso di pericolo,
Non la solidarietà di specie:
Come si legge nel Corano,
Non vi sono bestie sulla Terra
Né uccelli in Cielo
Che non formino delle comunità.
Ma tigri a caccia di antilopi
Cervi in lotta tra voi
È il “Cristo deriso” che vi manca,
Il dileggio del carnefice.
(Che cosa manca agli animali?, p. 780)
È per questo che il pavone (nella sua simbologia ordinaria e quella sacra) è l’inevitabile elemento che turba la quiete borghese grazie al piumaggio ammirevole ma inutile, oramai inutile. La bellezza non salverà un bel niente visto che è del tutto superflua. Il poeta invece vi scorge quella differenza che infrange le gerarchie antropocentriche, in cui la bestia è immagine ridicola, «[…] un dandy vanitoso, / caricatura di Robert de Montesquiou […]» (Sullo sfondo i pavoni bianchi, vv. 8-9, p. 780); o si scopre, quasi quasi, di aver saltato qualche stadio dell’evoluzione che quella coda avrebbe dovuto tagliarla una volta per tutte:
La coda del pavone e la sua ruota
Sono solo di intralcio all’animale
Nelle fughe dai predatori
E costringendolo a un dispendio di energie
Per produrre quel profluvio di colori
Ne triplicano il fabbisogno proteico.
Per lanciarsi in quella esibizione rockettara
A zampe ungulate e riprodursi al meglio,
Diventato femmina il raggio di luna
Trasmuta greve in Måneskin.
(La coda del pavone, p. 784)
Ecco perché, d’accordo con Muñoz, Buffoni mette in atto quella disidentificazione che non si oppone alla norma, ma piuttosto la smonta nei meccanismi, agendo tanto sull’estetica quanto sul piano performativo. In, per esempio, E se Schubert l’eros maschile si associa e, in apparenza, si conforma alla pratica, consueta e accettata, della visita ai bordelli, ma la sovverte, preferendo i «giovani pavoni» (v. 1, p. 785), abitando, per l’appunto, sulla soglia, in un inevitabile silenzio (nessuno deve saperlo) e, allo stesso tempo, in una grazia invincibile ma straniante, o queer.
Bibliografia:
Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, 1982.
—, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, 1996.
—, La comunità che viene, Einaudi, 1990.
Ann Cvetkovich, An Archive of Feelings: Trauma, Sexuality, and Lesbian Public Cultures, Duke University Press, 2003.
José Esteban Muñoz, Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity, New York University Press, 2009.
Eve Kosofsky Sedgwick, Epistemology of the Closet, University of California Press, 1990.
[1] I volumi usciti dopo l’“Oscar” e qui inclusi sono Jucci (Mondadori, 2014), Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli, 2015), O Germania (Interlinea, 2015), Personae (Manni, 2017), La linea del cielo (Garzanti, 2018), Betelgeuse e altre poesie scientifiche (Mondadori, 2021).
Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht, dove inoltre conduce il progetto di ricerca «Observatory on Dante Studies». Tra i suoi libri segnaliamo "Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori" (Marsilio 2019, traduzione inglese: Brill 2022); "Le ore del meriggio. Saggi critici" (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese); "Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti" (Marsilio 2021, Premio Nino Martoglio).