Kostro, Ungà, e bisbidis

da | Gen 18, 2019

Quivi babbuini,
Romei, peregrini,
Giudei, saracini,
Vedrai capitare.
(Immanu’el ben Shelomoh, Bisbidis, post 1313)

Quale, ammesso che ci debba proprio essere, il vero luogo della poesia? A parte quello mentale, delle “chiare, fresche et dolci acque” liriche (tra l’altro, probabili onde di un fiumiciattolo straniero, La Sorgue) da sempre straniato, e in realtà di “gnessulógo” reale financo nel piccolo paese del neologico scrivente (Zanzotto): ciò sia dato per scontato. Ab origine. E scontiamo pure, da subito, il nostro contemporaneo generico “non-luogo” di oggi, stazioni aeroporti empori centri commerciali e altri spazi inabitabili – salvo per chi ci sia di già in transito, in attesa, in latitanza più o meno nomade, va da sé. Addirittura banale, ormai, basti vedere tutto il folto sottobosco di pseudo-eredi del grande Ungà italofrancese: pullulanti. Da dimora a controra. Tra questi due estremi, pur sempre vigenti, comincia forse con Marino – il “miglior fabbro” barocco checché se ne dica, “le chevalier Marin” insomma, capace di farsi finanziare dal re di Francia i ben 40984 versi dell’indigeribile Adone (hai detto niente) –, comincia dunque, una volta conciato il Concini e ridimensionata – si direbbe oggi – l’influenza eccessiva della “grossa banchiera” Maria de’ Medici, comincia e tuttora continua il grande dispatrio (termine opportunamente coniato da Meneghello in Gran Bretagna qualche secolo dopo) e la soluzione definitiva del legame con la terra matria, nella poesia post: fino a quella del Carnevali, della Rosselli, di Portante con la sua “étrange langue”, dell’amico Forlani… e di quanti cercano di cavarsela, dove il dente batte, anzi la lingua langue. Zac, fine dell’appartenenza. Diremmo quasi col pericolo (secondario) della volgarmoda, quasi. E allora, oggi, bisognerebbe essere invece apollinamente quasi “indifferenti al fatto di non esser moderni” (Roland Barthes, 1977).

Cotale poesia moderna però c’è, o ci fa. E nasce forse, volendo schematizzare al massimo, dall’incrocio alquanto innaturale, all’inizio de “secol breve”, tra mal di vivere pascoliano e allegria – ma altrettanto innovativa sul piano metrico – del figlio di Apollo, o comunque teoforo apollino Kostro Apollinaire. E si sarà notato come, nelle due espressioni scelte, intendevo adombrare l’ombra portata, la “ombre aveugle” de L’émigrant de Landor Road (“je ne reviendrai jamais…”), proiettata però molto più in là, e dopo, sul caro Ungaretti e obliquamente su Montale. Non vorrei scomodare la terza ombra – ché tre piedi ci vogliono sempre, come minimo, per reggersi da soli – esattamente coetanea dell’egiziano lucchese (di sei mesi più giovane per l’esattezza), Thomas Stearns Eliot, futuro premio Nobel; come Montale il senatore (“e Ungaretti fa all’amore”) del resto. I conti tornano. Senza scomodare Apelle (figlio d’Apollo, ecc.) per il momento. Comunque vadano le stelle, buone o cattive, ci si innalza dalle stalle, assai decisamente, salvo poi a soccombere – ma quanto indebolito già l’omo dal grande primo macello mondiale – alla prima invasione del virus H1N1 e congestione polmonare. Virus post-pallottola. Già. Come molti sanno, credo, Ungaretti non fece in tempo a visitarlo vivo e rimase fortemente scosso dal rapido susseguirsi di segni oscuri (folle parigine sfilano al grido di “À mort Guillaume!” – alludendo certo al Kaiser Guglielmo II, ma “l’equivoco del grido era atrocissimo” –, mentre appena tre anni prima si era suicidato l’amico libanese “marcel”, Mohammed Sceab). Lo stesso Ungà doveva fare a Parigi la vita dell’immigrato postbellico, collaborando tra l’altro al quotidiano di Luigi Campolonghi Don Quichotte e anelando, come già il suo Kostro, naturalizzato solo nel 1916, alla “patria ideale”, vista ancora come “pays innocent” (La Guerre – Une poésie, suo primo libro “in proprio” a tutti gli effetti, francese). Beati loro! Fantasma forse della lingua lattante, lingua tra i denti di latte – qualcosa come il petèl, ma i “denti di latte” sono stati pure di Majorino – con nìole bianche, nàiva di panna e nâ rinnovata (come in Audiberti), e giù nüvie genovesi, eterne nüvie che van a-o mâ… che va al mare, donca. Già sparita. Sic transit ecc. e insomma lingua che dal latte si scompagni (Leopardi). I luoghi, se così vogliamo dire, si spostano o svaniscono o sbiadiscono, comuni. Referente cosmos indifferente neutrale. Solo il dolore rimane. E infatti, “Je demeure”, con tanto di Je declamava Apollinaire nella straordinaria Pont Mirabeau, poesia di cui si ha una versione con la sua voce leggermente in falsetto, stridula a volte, commovente in un omone qual era lui, quasi “uno dei barbari imperatori di Roma educati da Seneca” (G. Ungaretti, 1919). Sic bisbiglia bisbidis. Almeno fino al ’22, al ’33 (eh sì, magia dei numeri: controllate le date, che son quelle).

C’è un bisbidis infernale, tra Soffici Picasso Marinetti Salmon Modigliani Max Jacob De Chirico Cendrars Savinio Eliot Ungaretti Rilke o Billy, nella Parigi di quell’epoca. E, qualche anno dopo Joyce, Magnelli, Ezra Pound, Stravinsky, tanti altri (compreso Rommarico neapolitanus – in partibus)… e già allora, “des émigrants tendaient vers le port leurs mains lasses” (L’émigrant de Landor Road) mentre su un altro pianeta – o forse anywhere out of the world – un tale Dino Campana senza saperlo aggiunge un tassello transnazionale-provinciale al bailamme parigino: “ma ringhiano feroci gli italiani” (Buenos Aires). In attesa di desistere, davanti agli attacchi via etere (le onde radio Edison, come più tardi Amelia Rosselli davanti a quelle della CIA). Piccolo paese mondo, di nuovo. E siamo giunti così ai più stabili quattro piedi, ormai. Le tour est joué. Al tavolino per il libro (facciamolo: Apollinaire, Ungaretti, Eliot, Campana). O, come avrebbe detto ancora Ungaretti, di lì a poco: al nuovo classico, o “classico moderno”. E l’ossimoro incide più dei due rami della coppia, come non ha capito la critica ufficiale, attenta al dito (anzi qui ai due diti) e non all’oggetto additato (la luna vaga della metrica nuova). Se si vogliono prendere in considerazione i tempi lunghi della cultura, forse veniva a chiudersi allora il periodo iniziato con Une saison en enfer (1873) e la circolante “Lettre du Voyant” (a Paul Demeny). Periodo tragico se non fosse stato comico. Per chi non c’è dentro, s’intende (lontani da Verdun, allora, e oggi da Aleppo). Chissà se l’Apollinaire come nom de plume del neapolitanus non sia stato forgiato invece, a ripensarci, su Apollyon il distruttore (dall’antico greco apóllumi “distruggere”), fosca divinità vicina all’Abaddôn ebraico? Fumo e cenere. Ma già con Vers et prose del 1906, probabilmente una certa quiete prevale; voluta ma non pacificata; ma se andate oggi in cerca di informazioni “apollini” basilari sulla rete, vedrete pure (in un corpo più grande, là, mi raccomando) che: La page Wikipédia [su Apollinaire] est inaccessible aux modifications : “Cette page est l’objet de vandalismes répétés ; et/ou Cette page subit une guerre d’édition”… Ancora. Di nuovo. Sempre. La guerra non finisce di finire, a quanto pare. Meglio comunque chiudere con il “classico moderno” – ossia versi liberati, citazionismo e arcitesto, scelte mistilingui, confusione dei generi… –; sì, meglio del ritorno all’ordine (così dissero) e del conformismo di forme e di opinioni, anche “social”. Ovviamente “social”. Oltrepassato e assimilato il Bisbidis degli inizi eroici o ingenui, eccome. Per quanto mi riguarda, se licito m’è, là in qualche modo ero e sto ancora. E quindi chiudo.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).