Intervista a Gabriele Frasca (seconda parte)

da | Giu 14, 2013

di Claudia Crocco

 

Sì, ho visto. In questo caso lei cita alcuni versi di … but the clouds… (in italiano … Nuvole…): è la terza opera televisiva di Beckett, risale al 1976, è stata trasmessa dalla BBC nel 1977. Il titolo deriva dagli ultimi versi di The tower, una poesia di W.B. Yeats del 1928.  Lei qui, però, cita la versione in tedesco di … but the clouds…, curata e diretta da Beckett stesso per l’emittente tedesca Süddeutscher Rundfunk, che si intitola appunto Nur noch Gewölk. Io credo che lei lo faccia perché in tedesco c’è una variante: è citata tutta l’ultima strofa della poesia di Yeats, mentre nella versione inglese il protagonista recita soltanto gli ultimi quattro versi (che legge sulle labbra mute del personaggio femminile). E lei traduce questa parte.

Sì, lei ha ragione: io mi riferisco alla versione televisiva tedesca, perché lì viene declamata l’intera strofa, non solo gli ultimi quattro versi; ma anche perché quelle parole sono apparentemente sussurrate dal personaggio (femminile) che il protagonista di …che nuvole… (come dovrebbe suonare correttamente la traduzione italiana) cerca di evocare ogni sera. È una scena straziante: questo vecchio con la papalina e la vestaglia una sera dopo l’altra si concentra, e invoca il ricordo di lei, la sua immagine; e lei qualche volta appare, e tante altre volte no. E in poche, rare circostanze, una volta affiorata, l’immagine memoriale schiude addirittura le labbra, e mormora qualcosa. Noi non la sentiamo, se non con la voce off di lui che diviene un bisbiglio… «Now shall I make my soul…» Nella poesia da cui è tratta la citazione, l’oramai vecchio Yeats riattraversa un po’ tutta la sua vita. Se avessi voluto citare da quella, e dalla emozionante ultima strofa (non tutto The Tower giunge a questi livelli d’incandescenza), non avrei aggiunto il riferimento a Beckett. Quello che m’interessava è che nel teledramma beckettiano quelle parole, per quanto sussurrate dall’evocatore-sognatore, si attagliano, come nel doppiaggio, alle labbra della donna evocata. Questo è esattamente lo stesso sistema con cui funziona Rimi; le chiedo, per divertirsi, di provare a trovare il sesso per ciascun personaggio.

Io li ho letti tutti come maschili, in realtà.

E perché?

Perché avevo letto la recensione in cui si parlava di monologo beckettiano.

Già. Provi a trovare le indicazioni sintattiche che le diano la possibilità di risalire al sesso dei personaggi. Non ci sono. La lingua italiana, lo sappiano, è fortemente sessuata: se io dico «La mia cara ragazza», ho ripetuto quattro volte l’indicazione di genere. A scanso di equivoci, parrebbe. In inglese per esempio non è così. Però, da questo punto di vista, l’inglese è una lingua che (come tante altre) si lascia fregare dai pronomi. I personaggi di Rimi non denunciano il loro genere.

Mi stanno venendo in mente alcune scene – lei le chiama “tavole”, giusto?

Sì. Come per i fumetti.

Ecco: ce n’è una in cui mi sono chiesta se c’erano due uomini o un uomo e una donna.

Non c’è differenza sessuale. È una questione che ha affannato molto i primi traduttori, in inglese e in francese, a causa dell’obbligatorietà dei pronomi in quelle lingue: la dritta che ho dato loro è quella di volgere tutto in seconda persona. Non mi sono imposto ciò per un desiderio di ambiguità, ma perché io credo di fare lirica…

E cosa vuol dire per lei fare lirica? Come mai lo collega a neutralizzare l’aspetto sessuale o di genere?

Fare lirica per me è assumere la posizione abiettiva, puntare insomma, se è per davvero all’intimo che bisogna volgere la prua, e alla sua ripetuta protesta d’esistenza, dritti al minimo comune denominatore, a quello che in ciascuno di noi è il granello, o la malattia, intorno a cui il mollusco ha secreto la sua brava perla. Quella potrà essere diversa, non dico di no, ce ne sono di dimensioni e colori vari in natura, e si lasciano pure coltivare. Ma il granello è lo stesso per tutti, e il processo per isolare la spina irritativa pure (ho in mente una bella poesia di Sereni al riguardo). C’è da crederci all’io, insomma, come ci ha creduto Freud. Io personalmente ci credo, e cerco di stanarlo in profondità, dove manco a dirlo non è più io. Come voleva Freud, appunto.

Infatti lei ha scritto, in Rimi, “il pronome di prima vale ogni altra persona” (p. 58). E avevo considerato parte di un discorso sull’io anche questi versi: “era o non era l’io il suo qualunque l’unica rarità di tanto accumulo” (p. 98).

Sì. Io tutto questo lo faccio per un motivo molto semplice: nel poema Rimi ho voluto allestire un congegno che funzionasse per tutti. E allora inevitabilmente, anche quel fatto lì della soppressione del genere, si deve alla circostanza che in una lingua come quella italiana (e tante altre), si finisce sempre con l’intercettare solo il 50% dei possibili eventuali lettori. L’altro 50% non può identificarsi; se ne sta a guardare, perché quella faccenda di cui si parla riguarda un personaggio con cui non si condivide un tratto basilare: la sessuazione. Creare questo sistema privo di riferimenti di genere dà la possibilità a tutti di incarnarsi nella posizione abietta dell’io, non in quella di chi sbircia. Se lei fa caso alle quaranta tavole, si rende conto che ci sono delle piccole vicende. L’immagine giusta, se proprio dovessi trovarne una, è quella del fermo immagine. Ha presente? Quando lei blocca e mette in pausa, ha comunque la sensazione che l’immagine stia sempre cercando di riprendere la sua corsa (questo nei nastri era più evidente di quanto non lo sia nei supporti digitali), perché non è una fotografia: è un fotogramma che viene arrestato. Io volevo offrire un’immagine di questo tipo. Un’immagine fra l’altro in soggettiva.

Le vicende che sono narrate, infatti, riguardano molti tipi di persone. Ci sono tanti extracomunitari, l’ha notato?

In realtà no. Come distinguerli?

Mah, semplicemente seguendo la narrazione. Se una persona volge lo sguardo e vede tanti altri corpi buttati sullo stesso barcone, difficilmente saranno dei diportisti della domenica. Se legge di un personaggio che scavalca un muro, cade e si fa male, e viene immediatamente afferrato da due che lo riportano dentro, non si sta certamente parlando di chi è uscito di casa per prendere una boccata d’aria. Ci sono diversi casi di questo tipo. Un poemetto del genere è una piccola società: chi lo scrive riflette la propria, ne fa un mondo, o un oltremondo. Io, per ridere, chiamavo Rimi con gli amici “La Rovina Commedia”. Non ci sarà processo di purificazione, questo no: ma è di sicuro una commedia. Ci sono personaggi a bocca spalancata che aspettano solo di lasciarsi dire. Faccia attenzione al primo testo, dove viene data la chiave di lettura.

“Che ci sia un piano è certo ma lo scopo della bonifica si scopre in proprio”.

Sì. L’immagine offerta, tanto per dare una prima dritta, è quella di tante camere d’albergo, di cui tu (chi? il chi che ricorda che è altra cosa dal chi che viene ricordato?) sei quello che occupa l’unica con vista. Ma quel tu si contiene a sua volta in se stesso. Ciascuno di noi si porta dietro la vita di tanta gente: persone che ha conosciuto, persone che non ci sono più, persone che è stato, persone che ha solo immaginato … L’unico modo per fare un vero soggetto è popolarlo dei soggetti che lo popolano. Io non è «un altro»: è altri.

“il gioco è quello ed è quello per tutti ma cambia e come a starsene all’ascolto. mica di sé ma di quanto ci dice con le parole d’altri ciò che siamo”(p.58). Rimaniamo su “gli altri”, e sul contatto fra le persone. Spesso in Rimi le voci di cui lei parla diventano concrete attraverso percezioni sensoriali. Mi sembra che soprattutto l’olfatto sia molto presente. “non c’era verso di sentire niente se non la persistenza dell’odore” (p. 53).

La predilezione per l’olfatto mi deriva dalla mia attività di romanziere. Lo diceva Anthony Burgess. Se lei ha presente A Clockwork Orange, saprà che Alex, che non è un tipo che va molto per il sottile, è al contrario molto schizzinoso con gli odori. Mi pare che in un’intervista Burgess dicesse che il romanzo è l’unica forma narrativa che procede col naso per aria. Aveva perfettamente ragione. Solo i romanzi sono in grado di allucinare odori (non il cinema, lo sappiamo, e meno che meno il fumetto). Pensi a Proust.

Una tavola che mi ha colpito, per la percezione e per gli odori, è l’undicesima. Alla fine si legge che “una cosa così tanto per dire che era dove il respiro prende forma” (p.54)

Questa è una poesia molto olfattiva: c’è una persona chiusa nel suo odore. Sentire la persistenza del proprio odore è sentire la persistenza della materia della mente. Il pensiero prende forma in me. Lei cosa vede di sé? Se si fa oggetto, e non ha uno specchio a disposizione: vede una parte soltanto.

Le estremità.

Sì. Oppure si può sentire, ma deve parlare ad alta voce, allora. Altrimenti, l’unica percezione che ha di sé è quella olfattiva.

Quante persone incontriamo per strada che parlano fra sé e sé. Non è facile sentirsi il corpo che l’immaginario ci dipinge con la parola. Per questo si è talvolta costretti a borbottare continuamente: «ci sono, ci sono, ci sono». Cioè: «sono un sonar».

Ho capito. Tornando al corpo e ai contatti umani, mi ha colpito anche la tavola nove.

Se è la nona, è roba piccante.

Perché?

Provi ad andare su e giù per i multipli di nove.

D’accordo, lo farò.

Ci sono molti giochi numerici. Se devi tenere saldo un poema, non hai scampo: o costruisci una storia, cioè una narrazione continua, oppure devi trovare altri modi per tenerlo in piedi. Ha presente quegli splendidi portali gotici? Lo so che quando un critico vuole affibbiarmi uno stile bell’e pronto, solitamente convoca il barocco. Nessuno ha mai pensato al gotico. Peccato. Torniamo a quegli straordinari portali: spesso ci sono raffigurazioni non narrative, ma che creano comunque dei collegamenti fra le parti; e, in un tassello dell’insieme, o nella somma dell’intero prodotto, poco ma sicuro, da qualche parte troverà pure la firma dell’artigiano. Anche in Rimi c’è, la firma…

Dunque mi lascia un indizio da seguire. Va bene.

Nella tavola nove ci sono due persone che fanno sesso, è vero; e tutto il testo è strutturato sulle loro percezioni sensoriali. Mi sembra che queste portino a riconoscere un certo cinismo dei corpi: “finiva che ciascuno offriva all’altro il proprio concentrarsi nell’orgasmo. […] bastava all’uno fosse un altro l’altro e all’altro che al suo posto stesse un altro. non che a quell’altro poi fosse lo stesso per l’uno o l’altro sempre poi lo stesso. ma il principio era quello e funzionava quanto più per entrambi era scontato”(p. 49-50).

E, in un’altra tavola, sempre a proposito di un incontro sessuale: “siamo alle solite la scena è quella e ci sto proprio come una comparsa. che idea pensò restare ginocchioni tutto sto tempo e per averne cosa. un sapore che quasi mi disgusta e il corpo avverso pronto all’eclampsia. […] i trucchi giusti che nel frequentarsi s’impara quanto accorcino l’evento. e fu così andando sul congegno che come accade ritornò la voglia. l’istante che sollecitato a tanto quell’altro ne godesse per frustrarla” (p. 86).

L’incontro e il contatto con un’altra persona (che è quello sessuale) ci sono solo affermando fino in fondo se stessi; e ci si sta “solo come una comparsa”…

In uno degli scritti degli anni Settanta, fra gli ultimi di Lacan, L’étourdit, che apparve nel 1973 su «Scilicet», c’è un’affermazione che fece molto impressione all’epoca (e continua a farla), ed è poi stata spesso commentata, soprattutto in ambito francese (c’è, per esempio, un bel libro di Alain Badiou e Barbara Cassin sull’argomento, apparso se non ricordo male nel 2010 per Fayard). L’espressione, che poi è divenuta una formula, è «il n’y a pas de rapport sexuel». Lacan non voleva negare l’esistenza del sesso fra gli uomini: che si faccia del sesso, finanche troppo, è sotto gli occhi di tutti. Voleva soltanto dire che o c’è il rapporto o c’è il sessuale. Tutto qui: tertium non datur.

Nel caso del suo testo, la mia interpretazione è stata che non c’è contatto reale.

Il contatto fra due persone che fanno sesso deve essere, per forza di cose, fantasmatico. Ci deve essere sempre un terzo che fa girare il duo impegnato in un amplesso. Uno per lei, uno per me. Io ora non starei facendo l’amore con lei, nel caso lo stessi facendo (né lei con me). Certo: ci sarebbe sicuramente lei dall’altra parte; ma, allo stesso tempo, il mio desiderio, che è la mia testa (testa e desiderio sono sinonimi), dovrebbe andare in un’altra direzione, altrimenti nemmeno riuscirei a eccitarmi. Soltanto mettendo in mezzo un altro che non c’è si può riuscire a stabilire un contatto fra due che ci sono. Ciascuno di noi deve avere qualcuno, qualcuno che non c’è, se vuole sentirsi all’altezza della situazione. Non perché io sia necessariamente costretto a pensare a un altro o a un’altra, se faccio l’amore con lei. Ma se lei è esattamente la mia lei, in quel momento, beh allora io la me la racconto come ritengo che lei debba essere. Cioè un’altra. Nessun fa sesso con chi ha disposizione, nessuno degli esseri umani, senza ingabbiare il tutto in una storia. Anche in questo caso abbiamo bisogno di chiacchiere. Ciascuno di noi può fare sesso solo con  l’immagine narrabile di chi si ha al momento a disposizione.

È una cosa banale, che succede a tutti noi. Non è mica una stranezza. La questione è che non abbiamo più le fasi di calore, con cui si va decisamente più per le spicce.

Sì, sono d’accordo.

Slavoj Žižek (ne L’epidemia dell’immaginario) spiega alla sua maniera questa frase di Lacan (se c’è una cosa da riconoscere al filosofo sloveno, è la sua capacità di piegare con estrema leggerezza gli esempi più triviali alle sue argomentazioni). L’inattesa allegoria che ama addurre a tale proposito è la pubblicità di una birra; in Italia si è vista pochissimo, ma nel Nord Europa, e credo anche in America, furoreggiava. C’è dunque in prima scena la tipica principessa trasognata che cammina nel bosco; vede un rospo, lo bacia, e lui diventa un principe. Lui allora la bacia a sua volta, e lei diventa una bottiglia di birra. Žižek commenta: ecco, lei cerca il fallo, e lui invece l’oggetto parziale. Ha ragione. È una pubblicità stupidissima, ma inaspettatamente lacaniana (Lacan, del resto, non si è limitato a fare altro che leggere il mondo). Lei non poteva che cercare il principe, una bardatura fallica; lui invece non si sarebbe mai messo in cerca di altro se non dell’oggetto parziale. È qui che il rapporto sessuale non funziona: non ci si rapporta col sesso; il che non vuol dire che non continuiamo comunque a fare rapporti, figli, e tutto quello che dobbiamo fare. Anzi, potrei dire: più si frustra il rapporto, più si manca il sessuale, e più si fanno figli. «Copulation and population», come dice Stephen Dedalus nello Ulysses. È con la lavorazione della sessualità che si creano le strutture sociali: sembrerebbero essere fondate sulla coppia, e lo sono in verità su una sorta di copulazione fantasmatica.

Quindi l’elemento fantasmatico introduce una differenza di genere, per lei?

Sì. La vera differenza fra i sessi negli esseri umani non sta tanto nell’anatomia ma nella pratica dell’immaginario.

Vede, se non fosse così, se non avessimo preso a lavorare in quanto specie sui flussi della sessualità, ci limiteremmo ad andare in calore come gli altri animali. I nostri cugini mammiferi non «pensano» al sesso, lo vivono. Possono provarne gli stimoli, ma ciò non porta un animale verso l’altro, se non quando il sistema ineluttabile degli odori li spinge inevitabilmente ad accoppiarsi, per riprodursi. Noi siamo usciti dalla necessità dell’estro (in qualche modo anche taluni confratelli primati in verità); ma, per fare questo, abbiamo dovuto pagare un prezzo. E il prezzo da pagare è sempre fantasmatico, cioè produttivo… e non riproduttivo. Ragionare su queste cose quando si ha a che fare con la poesia non è superfluo, se pensa che non c’è lirica che non sia una lirica d’amore. La poesia lirica in àmbito greco è così che nasce: con una protesta sessuale che nasconde il desiderio di occupazione dello spazio sociale da parte delle giovani generazioni. L’arte ha avuto sempre a che fare con la gestione comunitaria dell’elemento fantasmatico, perché fortunatamente non c’è arte che non sia degenerata. Nel negare il genere alle persone di Rimi non ho fatto altro che portare il tutto alle sue necessarie conseguenze.

Sì, ho capito il suo discorso. Non so se rendere il sesso in qualche modo “neutro” sia la cosa che mi convince di più, ma è interessante.

Volevo farle domande anche su un argomento che lei non amerà: genealogie, canone, ascendenze poetiche nel Novecento (e non solo). Se dovesse individuarne una per la sua esperienza poetica, come si collocherebbe?

Io sono pieno di influenze, come tutti. Ma non amo le genealogie, questo è vero: innanzi tutto perché sono una sorta di estensione al campo storico-letterario del melodramma edipico, come se in gioco non ci fosse altro che l’amore di mamma e papà. E poi perché sono a tenuta stagna: c’è la genealogia dei poeti, quella dei narratori, quella dei pittori, quella dei cineasti, quelli dei fumettari… Ma è proprio così? Se lei mi chiedesse chi è l’autore del Novecento italiano cui mi sento maggiormente legato, le risponderei Gadda. E mica perché scrivo romanzi…

Quando ha iniziato a scrivere, e in che modo è arrivato alla dissestina?

Dunque, io quando ero giovane ho scritto tantissimo. M’imponevo addirittura di farlo. La scrittura per me era una pratica quasi quotidiana. In versi e in prosa. Poi naturalmente ho buttato tutto. Erano prove tecniche. Io consiglio sempre ai giovani che cominciano di produrre molto, all’inizio. È importante farlo, per acquisire una voce. Ma poi bisogna avere il coraggio di buttare via quello che non ha ancora la voce giusta.

E in base a cosa ha capito di avere acquisito quella giusta? Perché ha scelto quella?

Guardi, io avevo guadagnato a poco a poco una voce del tutto diversa. Nel periodo in cui scrivevo i testi che sarebbero confluiti poi in Rame, stavo ultimando anche un’opera (poi rifiutata, sebbene l’abbia resa in questo caso consultabile: è all’università di Cassino), che s’intitolava Ex putri. La stavo scrivendo dal ’76, grosso modo. Era in prosa, ma anche in versi scritti in prosa. C’era una parte in napoletano dei seicento, una in lombardo dei duecento, una addirittura in provenzale… Sì, mi divertivo molto nel sentire la forza dei dialetti italiani e delle lingue romanze, ma erano solo conoscenze libresche. Non a caso mi sono laureato in storia della lingua italiana. Quelle cose lì, fra Gadda e Joyce, ma senza nemmeno l’ombra della genialità dell’uno e dell’altro, le firmavo a mio nome. Invece avevo cominciato in parallelo una produzione più “classicheggiante” in versi, in versi tradizionali (sonetti, ballate cavalcantiane, persino canzoni… sestine), per la quale usavo uno pseudonimo. Un’identità segreta. Poi l’ho portata a morte, a un certo punto…

C’è una poesia in cui si parla della morte di questo pseudonimo, mi sembra dedicata a Marcello Frixione…

La poesia (a Marcello Frixione, dal sepolcro di Guido Nerli), è in verità una tarda risposta a un compianto scherzoso dell’amico Marcello (a guido nerli, sul sepolcro suo), che sta nella sua raccolta Diottrie. Sì, lo pseudonimo era Guido Nerli. Penso ci sia ancora qualcosa in giro firmato così. Poi in alcune occasioni l’ho risuscitato per qualche pagliacciata, e non solo. Avevo scelto Nerli perché è il cognome di una delle famiglie di cui parla Cacciaguida (mi serviva un nome che, come dire, non risultasse del tutto nuovo, almeno ai frequentatori di Dante). Guido è il nome per eccellenza della poesia italiana, per Guinizelli, ovvio, e soprattutto Cavalcanti.

Ma se rivado ai primi stimoli che mi hanno indotto a scrivere, non so se siano propriamente letterari: leggevo moltissimi fumetti nella prima adolescenza, avevo un’autentica passione per The Spirit di Will Eisner, per esempio, adoravo Li’ l Abner di Al Capp, e ascoltavo musica, tanta musica rock all’inizio, poi il barocco, poi di nuovo il punk, poi l’elettronica, colta o meno… Ho cominciato ad ascoltare musica “alternativa”, come si diceva all’epoca, nel 1971 (uno dei primi dischi acquistati fu Islands dei King Crimson), poi sono passato a leggere libri al di là delle costrizioni scolastiche. Ho preso ad andare al cinema, al teatro. Ecco una genealogia non a tenuta stagna, e non dubito che così sarà per tutti: nessuno soffre di quell’«avarizia di sentimenti», come la chiamava Tommaso d’Aquino, per la quale l’amore può circolare solo in famiglia (col rischio di praticare incesti). Un poeta non legge solo poeti, e per fortuna; e non legge e basta. Comunque, a un certo punto della mia formazione, mi ha fulminato Beckett. Ecco, direi che il mio fenomeno di “conversione” potrei datarlo dalla lettura dell’opera di Samuel Beckett, che non a caso comprende poesia, prosa, teatro, cinema, radio, televisione… In Italia un caso del genere potrebbe essere quello di Pasolini, altro intellettuale fortunatamente “indefinibile”. Per me Beckett ha fatto da subito asse con Dante, sebbene all’inizio non riuscissi a capire perché.

È tutta questa roba qui, insomma, che a un certo punto si è messa a ripetermi: «Tentaci pure tu!». Poi, progressivamente, leggendo altro si sono stratificate le mie passioni. Devo dire di aver preso un’immediata sbandata per il modernismo: Joyce è ancora uno degli autori più importanti, per me. Poi ho scoperto, per fare qualche esempio più “tradizionale”, che Cavalcanti mi piaceva molto; e che anche la poesia provenzale e quella barocca potevano costituire un valore. Mi ha affascinato il barocco quando ho capito che era la prima forma di comunicazione di massa. E allora mi sono reso conto che, se volevo capire la mia epoca, dovevo innanzi tutto studiare il barocco, che non è un fenomeno per un’unica classe, come il romanticismo; se mai «a classe unica». Verticistica com’era, e come la disegna uno storico come Maravall, la cultura barocca non era per nulla elitaria: se (come la nostra) si proponeva di controllare le menti, doveva per forza di cose rivolgersi a tutte le classi. Da cui la forza del suo teatro. Se vogliamo capire l’epoca che ci spetta, dobbiamo partire dal barocco. Per questo fra le mie letture preferite ci sono i predicatori gesuiti del Seicento. I combattenti della Compagnia di Gesù, per sconvolgere l’uditorio, lavoravano con le macchine sceniche, coi giochi di luce. Le prime grandi psicotecniche, che sarebbero poi divenute patrimonio del cinema, sono state inventare e rodate nel Seicento, che è come se non bastasse l’epoca della scienza. Poi ricordo di essermi appassionato di cinematografia sovietica… Per questo le dicevo che non so che genealogie ho avuto…

Credo lei abbia avuto quelle che mi ha appena descritto.

Sì, forse. Anche a Pontignano, per esempio, nel 2001, in un’occasione in cui si discuteva giusto di genealogie, mi ricordo che a un certo punto citai Kubrick, perché quando nel ’68 mio padre mi portò a vedere il 2001 odissea nello spazio, per quanto piccolo fossi, beh mi sembrò un evento. Lo era. Sanguineti, intervenendo nel dibattito, ci tenne però subito a puntualizzare: «Kubrick è un regista mediocre, a differenza di Godard»… Ma io mica volevo fare una classifica fra i registi, volevo solo far capire che non esistono genealogie a tenuta stagna, e ognuno di noi ha l’epoca che gli spetta, della quale può più o meno vivere gli eventi.

Che rapporto aveva con Sanguineti?

Difficile, complicato. Mi ha sempre divertito il fatto che solitamente mi si ascriva agli esiti, o ai cascami (dipende dai punti di vista), della Neoavanguardia. Lo fa anche Afribo nell’antologia che lei cita, mi pare.

Sì, è vero. Ma lei non ha aderito al manifesto del Gruppo 93: come mai?

Già: non ho aderito, fu all’epoca persino un piccolo scandalo, ma proprio nessuno sembrerebbe ricordarlo quando mi ficcano nelle camere di sicurezza delle genealogie. Guardi, io avevo letto con passione i Novissimi, e avevo molto rispetto per la loro poesia. Detto questo, c’erano delle cose che non mi convincevano. Non mi piaceva quella specie di struttura paramilitare che avevano messo su per imporre la loro estetica, per esempio. E poi li sentivo un po’ afoni (ma su questo forse ero ingeneroso).

Perché volevano demolire la lingua letteraria.

Sì, ma se la vuoi demolire sul serio devi fuoriuscire dalla «letteratura», cioè dal sistema letterario (e dunque dal copyright), e riportare la poesia alla sua realtà comunitaria e preletteraria. Organizzare insomma una gita in Provenza, non a Segrate. Fortunatamente la pratica della poesia fra i Novissimi era di certo più variegata. Sanguineti un ritmo ce l’aveva, evidentissimo a ogni sua lettura, che raggiungeva l’apice nelle strutture filastroccate, di grande impatto emotivo. Porta sicuramente ha fatto per un po’ la corsa su Shönberg; Balestrini su Stockhausen. Poi c’era Pagliarani, che forse aveva le idee più chiare di tutti. Sereni e Pagliarani hanno degli strani punti di contatto (Elio, con cui ho avuto un po’ di dimestichezza, forse si sarebbe incazzato se gli avessi detto una cosa del genere): a partire da quel loro rivolgersi a un padre tutelare comune come Pound (che in qualche modo lo fu anche di Raboni, e dello stesso Sanguineti). Mi piacciono molto i romanzi in versi di Pagliarani, come le dicevo.

La ragazza Carla e La ballata di Rudi

Bellissimi. Poi lui li leggeva con quell’organo a canne (o a pipe) che era la sua voce… Ecco, se c’era una cosa che mi piaceva di lui, era che, quando leggeva, si sentiva che stava convocando dentro di sé una serie di altri. Così fa un poeta. Al contrario, mi è sempre parso, ma magari mi sbaglio, che Sanguineti finisse preso all’amo del suo io. C’è sempre stata una reciproca diffidenza fra me e Sanguineti, e paradossalmente una buona simpatia conviviale; fatto si è che ogni volta che discutevamo in pubblico, poco ma sicuro finivamo con l’accapigliarci.

All’inizio, sa, malgrado Rame, era il 1984, fosse apparso per la piccola casa editrice di Michelangelo Coviello (Corpo 10), qualche recensione pure la ebbi: c’era chi mi dava dell’avanguardista e chi del passatista. Uno spasso (a ripensarci). Barilli, a proposito delle poesie da tavola (una sorta di sestina multipla), ne parlò come l’elaborato di «un computer impazzito». Dall’altra parte, invece, nella recensione di Raboni…

Sì, quella l’ho letta.

Davvero? Pensavo fosse sparita. Il mio rapporto con Raboni è stato splendido, e tutto per merito suo: perché lui era un uomo splendido. E un grande poeta. In più, ho sempre ammirato la sua capacità, unica, quando leggeva un testo, di comprenderne immediatamente il valore. Anche dei testi più lontani dalla sua stessa poetica. Un atteggiamento questo che rende imprescindibile il suo lavoro di critico, che poi è stato raccolto ne La poesia che si fa. Per me è l’opera più importante sulla poesia italiana del secondo Novecento, con un’impostazione tutta in fieri ben diversa dall’ossessione accademica per le genealogie. Lì il canone è fluido…

Credo che quella di Raboni sia stata una voce molto importante per la critica italiana. Ma tracciare genealogie, inserire i testi in un contesto, leggerli sia in una prospettiva sincronica sia in una forma di dialogo con quello che c’è prima e quello che c’è dopo, non erano discorsi a lui estranei. E poi Raboni, ad esempio, è stato uno dei più grandi sostenitori dell’esistenza di una linea lombarda…

Fino a un certo punto. Poi, persino nella sua produzione poetica, si è allontanato parecchio. Nella cosiddetta linea lombarda intravedeva quella ‘passione per la cosa’ , che è stata il mito di una generazione, come le dicevo prima. Ma non è un caso che, nell’ultima fase della sua produzione, si sia affratellato tanto a Fortini. Qualcosa aveva preso ad accomunarli, nonostante provenissero da background tanto diversi. Pensi a Composita solvantur e a Barlumi di storia. Dopo essersi guardati per tanto tempo non dico in cagnesco, ma con reciproca diffidenza, Raboni e Fortini compresero che era in realtà da tanto che procedevano insieme. Le genealogie preferiscono i rapporti patrilineari: mi sembrano più interessanti i contatti fra estranei che si riconoscono.

Molto alla fine, dunque: Composita solvantur è del 1994; Barlumi di storia è del 2004, mi pare. Fortini era già morto, Raboni sarebbe morto poco dopo.

Esatto. Ma la loro sintonia era precedente. Già all’altezza di Quare tristis…

Ma quindi lei riconduce parte della sintonia con Fortini alla “svolta metrica” di Raboni? In cos’altro la nota?

Sì. La poesia di Raboni all’inizio si nutre di quel sentimento della prosa che gli derivava sicuramente dalla frequentazione con Sereni. Quando passa successivamente alle forme chiuse, grazie anche all’intenso rapporto che aveva stabilito in quegli anni con Patrizia Valduga, Raboni come prima cosa “reborizza” i suoi versi. Giovanni amava come pochi Rèbora. Ma poi cambia: quando arriva all’endecasillabo, prima lo tiene alto, da grande tradizione, e poi subito comincia a eroderlo con degli accenti fortissimi, strampalati, prosaici… Si capisce immediatamente che la macchina endecasillabica gli serve solo per inquadrare discorsi la cui incandescenza affettiva (spesso di carattere memoriale, ma con vistose irritazioni politiche) non accetta norme. E commuove. Cioè muove: ci costringe a metterci in sintonia con una voce che è apparentemente soggettiva ed è invece corale. Parlano i vivi e i morti, in Raboni, sempre… Come in Pagliarani. E torniamo al discorso che abbiamo fatto all’inizio: ciascuno di noi si porta dietro le proprie persone. Siamo noi a tenerle in vita. Chi sceglie la via corale, incontrerà il coro che si nasconde in ogni lettore.

Capisco.

Una volta Raboni mi invitò a un convegno a Luino su Vittorio Sereni, un convegno di poeti. Non credo fossimo ancora diventati amici. A me sembrò stranissimo: avevo pubblicato solo Rame, ero un ragazzino, rispetto a tanti poeti affermati convocati per l’occasione. Mi ricordo che, dal momento che difficilmente si sarebbe potuto evincere la mia ammirazione per Sereni da quello che si conosceva della mia produzione, mi propose la cosa più o meno così: «Vieni a dire quello che pensi, della poesia di Sereni, anche se ne pensi male». E invece per me quella poesia era un valore. Ricordo che proposi una sorta di confronto fra la poesia di Sereni e la prosa di Pizzuto. Raboni poi mi confermò che i due si erano stimati molto. Ho un grande rispetto per la produzione letteraria italiana di quegli anni, ha dato vita a opere straordinarie.

Qual è un altro poeta (oltre a Sereni) considerato di solito distante da lei, che invece sente vicino?

Pusterla. Intendiamo la poesia in modo molto diverso, ma lo sento veramente molto vicino. Forse perché riconosco in lui un fondamento etico di grande spessore. Lo leggo sempre con piacere, mi emoziona, m’insegna sempre qualcosa. E lo stesso vale per Buffoni, o Lello Voce…

Voce, come lei, dà molta importanza alla performance del testo.

Vero, ma poi diamo vita a opere molto diverse, e anche a un modo di performare non omologabile. Rispetto molto il suo lavoro. E mi piace sempre ascoltarlo dal vivo. Come rispetto altri autori che sono fortunatamente anche degli amici, come Ottonieri e Held. E mi sto limitando ai coetanei. Il problema delle genealogie di tipo accademico è che non conoscono gl’ibridi. Secondo tali alberi, io e Pusterla dovremmo essere fronde fra loro assai remote, se non piante del tutto diverse. E invece. Nessuno fortunatamente è figlio legittimo: siamo tutti bastardi.

Possono esserci configurazioni aperte.

Sì. Ad esempio, non so se dalla mia poesia si capisce, ma io amo molto Ungaretti.

E io non riesco a “sentirlo” in alcun modo. Mentre Zanzotto, che aveva scritto l’Ipersonetto qualche anno prima che uscisse Rame (è nel Galateo in bosco, 1978)?

Con Zanzotto è un fatto complesso. Devo dire che non ho mai conosciuto un poeta così geniale. E tanto desideroso di confrontarsi con tutte le discipline. Lo ammiro tantissimo. Aveva una capacità di immagazzinare dati che gli altri poeti, convinti magari di avere il “fuoco” da qualche parte, non si sono mai curati di avere. L’ultima volta che ci siamo incontrati abbiamo parlato di neuroscienze. Così, due parole? No, era documentatissimo. È stato un pomeriggio fantastico. Vede, la maggior parte dei poeti è convinta che basti avere un “tocco”. Ma non è così. Devi immagazzinare dati, soprattutto, e devi conoscere bene il mondo e la cultura che ti circonda. Io attribuisco ancora un grande valore al fatto che la letteratura despecializzi i linguaggi: per me è la sua missione, e l’unico motivo per cui valga la pena di frequentarla. Viviamo in un’epoca di linguaggi specialistici, e la compartimentazione del sapere è esattamente il modo con cui si allontanano fette consistenti della popolazione dai processi di conoscenza. E dunque dal godimento dei beni e dallo sfruttamento delle risorse (intellettuali). I miei autori preferiti del Novecento sono quelli che si sono sporcati le mani con tante saperi diversi, magari col fine politico di portare i lettori all’altezza di tutti i discorsi: per questo amo Joyce e Gadda, e anche Pynchon. Anche Zanzotto era di questa genia. Devo dire, però, che a volte il suo verso è come se non riuscisse a reggere questa straordinaria messe di informazioni. Ma forse sono io che non riesco ancora a intenderlo come dovrebbe.

Nelle prime recensioni, anche per coincidenza cronologica degli esordi, spesso lei era accostato anche a Patrizia Valduga. Io credo ci siano differenze, però.

Sì, anche io credo che accomunarci sia una scorciatoia. I critici spesso le praticano, e talvolta, a furia di cercare strade a scorrimento veloce, perdono pure l’orientamento. Siamo però molto amici, io e Patrizia, questo sì. Ho la sensazione che all’inizio, invece, ci fosse un’inconfessata reciproca antipatia… persino un po’ di competizione. E invece ho avuto la fortuna di conoscerla. Patrizia è una persona splendida, generosa, intelligente, ironica… e autoironica. Quando mi capita di trascorrere qualche ora con lei, beh ringrazio sempre il cielo. Nella poesia di Patrizia c’è molto lirismo, e una capacità figurale portata alle estreme conseguenze, in grado cioè di passare in modo fulminante dall’incredibilmente alto all’incredibilmente basso. C’è nei suoi versi un’umorale (malinconica e comica) confabulazione che ci fa fare letteralmente le montagne russe. Come poi avviene nella vita. Como poi avviene negli affetti.

Sono molte le poetesse che mi piacciono.

Ad esempio?

Jolanda Insana, un altro grande esempio di poesia corale, diffratta e nel suo caso esplicitamente contrastiva. Andando più in là, Amelia Rosselli.

C’è una nota lacerante che mi sconvolge sempre nella poesia delle donne, quando è per davvero poesia e non una seduta di autocoscienza. Sarà per il conclamato fallogocentrismo della lingua, ma ogni verso, per Insana come per Valduga (per non parlare di Rosselli), parrebbe invero aprire una ferita. Inferta e autoinferta. Per questo la poesia delle donne sembra sempre drammaticamente necessaria. E lo è.