Il condizionale di Tommaso Giartosio

da | Ago 8, 2020

di Maria Grazia Calandrone

Il condizionale del titolo è riassunto dell’opera di Tommaso Giartosio: come sarei felice, ci dice infatti, tanto per cominciare. Non sapremo perché fino alla fine, visto che quello di Giartosio (Come sarei felice. Storia con padre, 2019) è immediatamente un libro sulla morte (del padre, ma è quasi un dettaglio, perché la morte è sempre e solo la morte) e sulla memoria. Dei morti in persona e, soprattutto, dei vivi, perché – in un verso bellissimo –, il poeta ci consegna una verità originale su quel che resta, cioè «le tue parole tornano a tutti».

Il prestito provvisorio della parola, data insieme alla vita e che, come la vita, alla fine va restituita, è un concetto apparentemente religioso. Ma la parola non deve essere restituita al grande Padre divino, bensì agli altri, a tutti. Alla vita. Al contrario di quanto fanno i poeti, che cercano di ridare al mondo la sua voce, i morti restituiscono la propria voce al mondo, al grande flusso delle voci degli altri.

Ma le parole di ciascuno s’inceppano nella memoria dei cari come sassolini nel grande fiume verbale.

Più avanti, la morte viene descritta come la pulizia di un ovile dove il corpo, da vivo, ha riposato – o come il sonno, in corsivo, detto dal morto che appare in sogno al figlio, che finisce per trascrivere in pagina, quasi continuamente, il tradimento del proprio risveglio, cioè del proprio amore per la vita, nei confronti di chi non può neanche più sognarla.

Il libro di Giartosio è anche un diario onirico, un’agenda a tratti surreale di sogni sognati, che hanno come argomento il morto, e ruotano intorno alla sua struttura come la carne ruota intorno all’osso e che spesso confondono sognatore e sognato, padre e figlio, vita con vita, perché il figlio poeta chiama sé stesso «il portavoce del tuo silenzio», riassumendo, con questa espressione, il compito di ogni poeta nei confronti degli altri e del mondo, se non vogliamo disperdere anche le parole, che sono il solo argine alla perdita dei fatti.

Qui e là Giartosio si lascia consapevolmente sfuggire inflessioni altrui, dal bellissimo incipit pasoliniano «Ah quanto mutato da prima della tua morte» a quello immediatamente successivo, che riecheggia l’esortazione zanzottiana al mondo a esistere buonamente: «È bravo, è stupefacente il mondo».

Il libro è inoltre polifonico in sé: Giartosio passa dall’apparente filastrocca in rima alla distensione della prosa, quasi volesse riassumere nelle sue pagine «quel mistero / […] / chiamato gente», cioè «pura materia e pura conoscenza» che vuole «splendere, come tutti». Come il padre, come chi scrive.

Il poemetto centrale del libro, La stellina, è apparentemente una biografia in versi del padre – aperta e chiusa, quasi incoronata e circoscritta, dalle sequenze di un porno – ovvero un resoconto della «segreta, / sportiva, calvinista trattativa / tra legge e privilegio che era stata / ed era la tua vita» – ed è per sequenze di versi come questa che ci s’innamora di questo libro, malinconico e saldo, e dell’intelligenza (analitica e psicoanalitica) che lo sostiene, nel riassumere la propria esperienza privata della vita di un altro, che lo scrivente ormai vede dalla riva del futuro: ragazzo prima trafitto da un luminoso entusiasmo, a galleggiare sopra una stella di mare, poi adulto avvinto da una adesione marziale a Dio e allo sgraziato macchinario della religione che vorrebbe rappresentarlo in terra. Il poemetto è allora lo svolgersi di un’autocoscienza della vita di un altro, ed è corredato dalle varianti grafiche (i disegnini, proprio) di tutti gli episodi stellari, a cinque braccia, della vita vissuta da quel padre così assimilato, dal simbolo anarchico, alla fustellatrice «che aggiunge nuovi fori alla cintura» quando l’addome si gonfia. Ma, alla fine, chi è morto fa il regalo di non poter più morire, assolve dalla più tragica delle attese. E questa è la sola pietà della morte, il suo arrivare una sola volta, una volta e per sempre, proprio quando pareva che la fine delle cose non avesse mai fine.

Lungo tutto il libro, Giartosio adopera termini gergali e tecnici mai usati in poesia, per esempio «ducotone» o l’espressione andare «in Larsen» (la somma di rumore che produce il fischio del microfono), creando un singolare impasto di filosofia e chiacchiera, riproducendo in piccolo – sebbene stilizzata in colonnine di versi mai sovrabbondanti – la mischia quotidiana delle nostre vite. Il risultato più significativo di questa tecnica è che il poemetto La stellina, che vuole abbracciare una vita intera e suggerire pure qualche sua diramazione segreta, più che un resoconto pur sommario, risulta essere la miniatura di una vita, la sua riproduzione in scala, un breviario, quasi un corpo da taschino che l’autore regala a sé stesso. Per non perdere la memoria del vivo, mai più.

Ma la conservazione del corpo in parola è possibile a patto di dichiarare che la vita sia «immaginaria» e che in parte lo sia pure l’amore, quel continuo mancarsi, quell’impossibile desiderio di fusione al quale Giartosio dedica le ultime pagine del libro, fino all’ultima frase, che chiude il cerchio del condizionale stampato in copertina e che coincide con la constatazione di una solitudine amorosa anch’essa impossibile, perché l’altro continua solidamente a esistere, nonostante le nostre fantasie, e nel suo petto c’è il suo vero cuore e non il nostro. Per fortuna. Dunque la vita è questo inestricabile intrico di immaginazione, nostalgia e amore, vero più di quanto sappiamo, se il cuore non sa niente, ma inventa anche un vero più vero del vero, secondo i noti versi di Fernando Pessoa, che paiono sottintesi a tutta la parte finale del libro: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente». Proprio così. Giartosio finge di fingere, gioca con le parole, fa ironia. Ma quanto di lui resta, quando chiudiamo il libro, è l’impressione di una particella viva e senziente, di due occhi, tanto adulti da essere infantili, che osservano stupiti l’eterno giro dell’amore nel quale sono immersi. Come tutti.

 

Immagine: Lisippo, Sileno tiene in braccio Dioniso, copia romana del II secolo a.C.