Il bambino metafisico

da | Ago 19, 2018

Questo testo è un estratto da Quando Kubrick inventò la fantascienza, incluso in Ollivud, nuovo libro di Andrea Inglese per Prufrock Spa. Il libro si compone di due parti: una serie di 27 prose brevi, e la riedizione di Quando Kubrick inventò la fantascienza: 4 capricci su 2001, pubblicato per la prima volta nel 2011 per La Camera Verde.

Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes
L’univers est égal à son vaste appétit.
Charles Baudelaire, Le voyage

Dovevo ancora, a quell’epoca, leggere i libri che non volevo leggere, scrivere su quaderni cose che non volevo scrivere, accogliere un sapere che sempre mi aveva fatto orrore.
Thomas Bernhard, L’origine

[1967: nato io. (Sei mesi dopo incontro il nonno – non di sangue. Grande amicizia.)
1968: 2001: Odissea nello spazio, Il pianeta delle scimmie, La via lattea. Non mi rendo conto di nulla.
Tra il 1972 e il 1974: sono a Lesa, esco di sera in giardino, è già sceso il buio, ma il cielo è stellato. Tra le stelle, con un profilo a sua volta stellato e luminoso, vedo San Carlo Borromeo, ossia il San Carlone (la fisionomia dell’uomo stellato assomiglia a quella della statua visitata tempo prima ad Arona – altezza piedistallo 11,7 m., altezza statua 23, 4 m.). Quella visione è chiara e tersa, quasi tangibile. Mi rimane impressa nell’animo (?) con grande forza, ma non ne parlo con nessuno.
1973 (?): a Milano, di pomeriggio, il nonno mi porta a vedere 2001. Ho solo sei anni. (Di tutti i film contenuti in 2001, riesco a vedere solo quello intitolato Oltre l’infinito – viaggio lisergico nel cunicolo spazio-temporale). (Bambini, drogati, sciamani: tutti membri dell’insieme umano che predilige versioni intensificate e macroallegoriche del mondo.)
1976: il nonno mi regala i tre volumi intitolati I segreti dell’astronomia (svariati gli argomenti: pianeti, quasar, buchi neri, alghe intelligenti che hanno scoperto l’inesistenza di dio, tracce di presenze aliene nelle piramidi egizie e nei disegni della civiltà Inca). M’innamoro delle galassie. Mi regalano un telescopio. Guardo la luna e le stelle. Tutto quello che guardo acquista una straordinaria plasticità.]

2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick è un film per bambini, mentre Arancia meccanica, girato subito dopo, è un film per adulti. Nel 1968 Kubrick gira un film per bambini, per far divertire i bambini, agendo sull’organo infantile per eccellenza, la meraviglia, che è poi è il principale organo della metafisica classica, che è in fondo roba da bambini, ed è quindi naturale che il film sia piaciuto ai bambini come me, che lo hanno visto a sei anni, anche perché noi, i bambini di allora, lo abbiamo capito tutto, magari spaventandoci, o forse non proprio tutto, ma abbiamo capito, ad esempio, che quando il dottor Floyd dice ‹‹Vado su Clavius››, non va su un fantomatico pianeta Clavius, come hanno equivocato quasi tutti gli spettatori adulti, ma va semplicemente sulla luna, perché poi sono ben quindici le inquadrature dell’astronave di Floyd alle prese con l’allunaggio. [Clavius è il terzo cratere più grande della faccia visibile della luna.]

2001: Odissea nello spazio è una meditazione, per immagini, intorno al vocabolario dell’astronomia novecentesca. Non è propriamente un film di fantascienza. È quel tipo di meditazione che i bambini, a modo loro, in grande autarchia, fanno quotidianamente, appena hanno orecchiato che il mondo circostante non basta, è solo parte di qualcosa di più vasto e strano, che si prolunga nella galleria d’immagini dell’atlante astronomico.

2001: Odissea nello spazio è un ottimo film per l’infanzia, per la migliore infanzia post-sessantottina, per bambini come me, che lo hanno visto nel 1973, a sei anni, mentre le strade di Milano erano intasate da persone urlanti e abbracciate, che avanzavano a piedi, incontrando poco lontano altre persone con divise verdi, fucili ed elmetti. Milano era una città che necessitava un film infantile, una meditazione sull’astronomia in forma prudentemente fantascientifica. I bambini non potevano giocare sugli argini dei fiumi e nascondersi in cascine abbandonate. Una sala cinematografica era un luogo idoneo per scatenare quelle meditazioni metafisiche tanto familiari ai bambini di campagna. Kubrick era all’altezza delle esigenze visionarie di un bambino comune, cresciuto dopo il 1968 in una città senza fiumi, pioppi, prati, paludi, rane, falchi, dune, pozzi, castelli diroccati.

Il nonno mi ci portò, come mi portò a vedere, alcuni mesi prima o dopo, Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner. La coincidenza è stata per me letale. Tutto quanto mi ha determinato, in modo epocale e verticistico, influendo sul sistema cognitivo, sulle tonalità emotive, sul rapporto mente-corpo, sul subconscio, sulla sfera della genitalità, sulla parabola schizomorfa della mia adolescenza, fino a contaminare gli atomi più reconditi della mia personalità, deriva non da Pippo, Paperino e Pluto, non da Sandokan e Tremal-Naik, non da Thor e i Vendicatori, non da Davide Copperfield ed Edmondo Dantès, non dai porno-soft di Telereporter, ma dalla segreta circolazione di scimmie intraprendenti, cunicoli spaziotemporali e navicelle spaziali tra 2001: Odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie. La mia infantile e fragile coscienza ha amalgamato questi due universi d’immagini, ha ricombinato a piacimento sequenze e colonne sonore, titolazione e personaggi principali, trame ed effetti speciali, creando un pericoloso continuum tra il vertice stilisticamente alto di Kubrick e quello più plebeo e approssimativo di Schaffner.

Il vecchio e il bambino.
Il vecchio è un bambino che è diventato vecchio (il tutto è durato
molto, troppo, eppure le cose sono andate velocissime,
a rilento, quasi immobili, eppure sono state scagliate,
ma tutto alle spalle, sparato via silenziosamente,
nottetempo,
infatti non c’è più nulla intorno, il vecchio
non vede che un bambino
che inizia con grande lentezza
a invecchiare,
un invecchiamento così lento
che il bambino rimane bambino per anni
ma poi. Di colpo, in modo inspiegabile,
il vecchio risulterà morto da anni, e il bambino si troverà
a muoversi male, cautamente, con addosso un invecchiamento
pazzesco, assillante
(questa storia pullula di vecchi, dove sono finiti
tutti i bambini?).

Il vecchio dà al bambino delle chiavi,
il bambino le restituisce al vecchio.
Né il vecchio né il bambino desiderano
aprire alcunché.
Si passano sornioni le chiavi.
Anzi, il vecchio le lascia cadere.
Il bambino le raccoglie.
Le ridà al vecchio
che di nuovo le lascia cadere.
Sono in combutta.
Non cercano di capire.
Non cercano di vincere.
Tutto quello che vedono lo vedono
di traverso, hanno le traveggole.

Il bambino non sopporta i rumori
che il vecchio fa con la bocca.
Ma quando non mastica né tossisce
né raccoglie catarro nella gola
né si succhia la protesi
né deglutisce a singhiozzo,
il vecchio racconta di uomini
che viaggiano dentro grandi astronavi
e nei corridoi galleggiano o dormono
dentro sarcofaghi trasparenti
e la notte spaziale è davvero così fredda
che nemmeno una grande muta imbottita
con il casco a pallone di vetro infrangibile
può salvare un astronauta vagante
dall’assideramento, senza contare
che ovunque, lassù, manca l’ossigeno.
Ed è così, per via di queste parole intrecciate
che si fanno godibilissimi i suoni
usciti dalla bocca del vecchio,
il bambino nuota sospinto da quella voce
dentro un fluttuare lento
d’immagini che continua anche dopo,
anche di notte, da solo,
nella sua intima pazzia.

Il vecchio non ha da spiegare
la vita al bambino, solo qualche
punto secondario, dettagli,
ma alla vita non ci pensa nemmeno,
del resto il vecchio non sa spiegare
nulla, è il bambino che – davvero
sgombro, confuso – mostra meglio
quanto tutto sia lontano, mai
davvero sfiorato. L’intelligenza
nascente lo dice: tutto rimane lontano,
nulla viene sfiorato,
la vita non contiene che pallide
istruzioni su faccende secondarie, come si avvia
un tagliaerba, o crescono le pannocchie
di mais, nessuno ha da dire nulla sulle galassie,
sulla morte del sole, sull’impossibilità
di amare ciò che sfugge alla memoria.

Il nonno che mi iniziò alla fantascienza
è il nonno che fu fascista
– che poi davvero neppure è stato
un nonno di sangue, ma meglio,
elettivo, spirituale – il nonno volontario
in Etiopia, nella foto col casco coloniale,
quegli stivali alti di cui andavano matti,
nella foto che saluta, contento, facendo
un nuovo disastro, perfettamente adulto,
incosciente, perfettamente fascista,
a uccidere negri, a costruire strade,
ad aiutare, uccidendo, asfaltando,
scrivendo a casa di terribili
diarree

il nonno che fu
specialmente mio, specialmente buono,
un nonno fantasticante, affabulatore,
narratore nato, quando raccontava
che la sua pancia avrebbe potuto
sopportare sei o sette pallottole,
“quante ne puoi ricevere nonno?”
“mi devono sparare tanto
prima che muoia”, e tutte le storie
di pirati o indiani o selvaggi
contenevano una tigre, un prigioniero,
una carabina

di tutto sempre raccontava il nonno
mescolando la sua fantasia di vecchio
alla nostra, la sua per uscire,
affabulante, dai disastri della vita,
la nostra per entrarci, con tante
magiche parole, nei disastri, nella vita,
e le immagini strane, quelle
dei pianeti, che si collocano oltre,
dopo il cielo stellato, dopo tutto quel buio,
quel luccicare fitto, tremolante, in uno spazio
in caduta, senza alto e basso, senza fondo,
dove tutte le cose viaggiano tra la notte
e il bagliore ripetuto di galassie
che si colorano, arrotolano, spandono come un uovo
rotto: Andromeda, le Pleiadi, le Nubi
di Magellano.

Immagine: da S. Kubrick, Odissea nello spazio 2001.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).