Dario Borso, Celan a Milano

da | Apr 20, 2020

Pubblichiamo l’anticipazione di “Ci sarà forse da lottare”, l’antologia italiana di Paul Celan, lavoro che uscirà per la fine del 2020.

 

Il 20 pomeriggio dell’aprile 1964 Paul Celan giunse a Milano, accolto dal direttore del Goethe-Institut, a suo dire preoccupato dalla fama di Celan uomo scontroso e imprevedibile: “Perciò fui molto sollevato quando lo incontrai in un caffè e mi resi conto che avevo davanti un interlocutore disponibile e concentrato. Desiderava avere informazioni precise sul programma del Goethe-Institut in Italia, ma anche sulle mie attività universitarie, sui miei progetti di ricerca e sulle mie prospettive professionali. Si disse preoccupato per il nazionalismo, camuffato con parole d’ordine di sinistra, di alcuni intellettuali tedeschi […]. L’interessante conversazione mi parve essere di buon auspicio per la lettura che Celan avrebbe tenuto poche ore dopo. Ma mi sbagliavo. Nell’aula delle conferenze del Goethe-Institut Celan diventò un altro. E le sue difficili poesie misero a dura prova il pubblico, che finì per intimidirsi. Terminata la lettura dei testi, l’assenza di un commento o di una spiegazione rese impossibile stabilire un contatto col poeta. Lui se ne stava seduto su una sedia, muto, assente, scostante”[1].

Il mattino dopo, Celan incontrò Vittorio Sereni, direttore letterario della Mondadori. Dovevano cercare di risolvere una questione ormai annosa: la pubblicazione di un’antologia nella collana dello Specchio.

La Mondadori aveva contattato Celan a metà del 1961, sulla spinta del recente conferimento a Celan del prestigioso premio Büchner, ma da subito la trattativa si era arenata sulla scelta del traduttore.

Scartati Marianello Marianelli subito e Giuseppe Bevilacqua, l’anno dopo, nel 1963 la scelta di Sereni era caduta, grazie alla raccomandazione di Cristina Campo, su Ferruccio Masini, il quale a primavera presenta tre prove di traduzione.

Celan a fine giugno approfitta di un viaggio in Germania per esaminarle con Gerda Niedieck, consulente editoriale  per la letteratura italiana della casa editrice Fischer[2]. Il risultato è esposto da quest’ultima in una lettera a Masini del 25 luglio: “Essendo Celan studioso di romanistica, possiamo sfruttare tale felice circostanza per chiedere all’autore stesso il parere e dei  suggerimenti cosicché l’edizione italiana sarà la più corrispondente possibile al concetto del poeta. […] Nell’italiano si tende di più al linguaggio elevato speciale, anche antico, e c’è spesso perfino qualcosa di classicheggiante. Lei vedrà subito che nella maggior parte delle modificazioni suggeriteLe da parte del signor Celan, egli ha preferito la parola più semplice, concreta, anche se il ritmo resta strano all’orecchio italiano, c’è qualcosa di più puritano[3]. Inoltre sarà annotato che Celan viene malinterpretato dalla critica ufficiale, anche quella italiana, come un poeta metaforico che non lo è e che non vuol essere. Le accludo dunque una copia riveduta della Sua traduzione”, andata purtroppo persa.

Il rapporto a tre continua con la richiesta al traduttore di un elenco delle poesie da antologizzare, ma neanche qui in modo soddisfacente,  se Celan il 23 febbraio 1964 scrive a Niedieck: “La scelta del signor Masini, la trovo davvero deludente: evita i pezzi rappresentativi che, se mancano, spostano tutti gli accenti più importanti”[4]. Ciò malgrado le fa proporre alla Mondadori un incontro milanese a tre, lui Sereni e Masini, in concomitanza con la programmata conferenza al Goethe-Institut.

Masini declina l’invito per motivi di lavoro (insegnava a Potenza) e così a Sereni non resta che riassumergli il 24 aprile il risultato dell’incontro avvenuto quattro giorni prima: “[Celan] mi ha fatto una notevolissima impressione e, almeno a parlargli, sembra molto meno scorbutico di quanto la leggenda non dica e di quanto non dicano anche i difficili rapporti epistolari con lui. Siamo rimasti d’accordo che, tenendo presente il lavoro già fatto, mi farà arrivare nel giro di una decina di giorni un piano completo per una sua scelta”.

Il 27 aprile, Celan si esprime in termini positivi su Sereni definendolo “oltremodo amichevole”[5]; tre giorni dopo Niedieck conferma l’impressione di Celan ascrivendo al poeta milanese una “lealtà che purtroppo nei circoli letterari si trova solo troppo di rado”[6].

Così l’8 giugno Celan comunica a Sereni: “Ecco la scelta che Le avevo promesso per il signor Masini: comporta quarantotto poesie, un po’ troppo forse. Evidentemente, non vorrebbe che orientare, ossia dare al traduttore un’idea di ciò che per un autore, dopo una certa esperienza in compagnia delle sue poesie, sembra essere una scelta più o meno rappresentativa”[7]. E conclude: “Conservo un ricordo vivissimo del nostro incontro e spero proprio di poter continuare, un giorno, la discussione che ha reso possibile”[8].

L’elenco viene subito girato a Masini, che  il 26  risponde: “Salvo che per il primo gruppo, da Mohn und Gedächtnis, mi sembra che questa scelta diverga radicalmente da quella da me fatta”.  In effetti, solo quindici poesie tra quelle da lui scelte rientrano nell’elenco di Celan, vale a dire meno di un terzo.

Con molta lentezza e forse poca voglia, Masini si dà a stilare un secondo elenco, che invia alla Mondadori solo il 6 marzo 1965: ventisei sono ora le poesie coincidenti, poco più della metà. La pratica Masini si chiude mestamente a fine giugno, con 80.000 lire di liquidazione per il lavoro svolto.

Intanto giungono altre candidature: Roberto Fertonani, Ida Porena, Maria Luisa Spaziani, ancora Bevilacqua; ma la scelta di Celan, come noto, cadrà pochi mesi prima del suo suicidio sul giovane Moshe Kahn, la cui antologia vedrà la luce solo nel 1976, quando dell’elenco si era ormai persa ogni traccia.

Qui sotto traduco quattro poesie tra quelle indicate nell’elenco di Celan, una per ciascuna raccolta:

DIE KRÜGE

Für Klaus Demus

 

An den langen Tischen der Zeit
zechen die Krüge Gottes.
Sie trinken die Augen der Sehenden leer und die Augen der Blinden,
die Herzen der waltenden Schatten,
die hohle Wange des Abends.
Sie sind die gewaltigsten Zecher:
sie führen das Leere zum Mund wie das Volle
und schäumen nicht über wie du oder ich.

 

*

I BOCCALI

Per Klaus Demus

 

Ai lunghi tavoli del tempo
trincano i boccali di Dio.
Prosciugano gli occhi dei vedenti e gli occhi dei ciechi,
i cuori delle ombre che imperano,
la guancia concava della sera.
Sono i bevitori più accaniti:
portano alla bocca il vuoto quanto il pieno
e non schiumano come te o me.

Da Mohn und Gedächtnis [Papavero e memoria] (1952). Composta a Parigi nella prima metà di giugno 1949 col titolo originario Nachtfensterlein [Finestrella notturna]. Lettera a Erica Lillegg del 15 giugno 1949: “Und hier ist eines, verlegen und scheu, ein verirrtes und ungewisses [Ed ecco qui, imbarazzata e timida, una smarrita e incerta]”. Klaus Demus, giovane critico e poeta, e la moglie Nani erano divenuti amici di Celan a Vienna nel 1948. Cfr. la corrispondenza P. Celan, K. Demus, N. Demus, Briefwechsel, a cura di J. Seng, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2009.

 

NÄCHTLICH GESCHÜRZT

Für Hannah und Hermann Lenz

Nächtlich geschürzt
die Lippen der Blumen,
gekreuzt und verschränkt
die Schäfte der Fichten,
ergraut das Moos, erschüttert der Stein,
erwacht zum unendlichen Fluge
die Dohlen über dem Gletscher:

dies ist die Gegend, wo
rasten, die wir ereilt:

sie werden die Stunde nicht nennen,
die Flocken nicht zählen,
den Wassern nicht folgen ans Wehr.

Sie stehen getrennt in der Welt,
ein jeglicher bei seiner Nacht,
ein jeglicher bei seinem Tode,
unwirsch, barhaupt, bereift
von Nahem und Fernem.

Sie tragen die Schuld ab, die ihren Ursprung beseelte,
sie tragen sie ab an ein Wort,
das zu Unrecht besteht, wie der Sommer.

Ein Wort – du weißt:
eine Leiche.

Laß uns sie waschen,
laß uns sie kämmen,
laß uns ihr Aug
himmelwärts wenden.

 

*

 

NOTTURNAMENTE ARRICCIATE

Per Hannah e Hermann Lenz

 

Notturnamente arricciate
le labbra dei fiori,
incrociati e conserti
i fusti degli abeti,
ingrigito il muschio, smossa la pietra,
destate all’infinito volo
le taccole sul ghiacciaio:

questa è la landa dove
sostano quelli che abbiamo raggiunto:

non nomineranno l’ora,
non conteranno i fiocchi,
non seguiranno le acque alla chiusa.

Stanno divisi nel mondo,
ciascuno con la sua notte,
ciascuno con la sua morte,
scontrosi, a testa nuda, brinati
di prossimità e distanza.

Pagano il fio che animò la loro origine,
lo pagano in una parola
che sussiste a torto, come l’estate.

Una parola – tu sai:
un cadavere.

Laviamolo,
pettiniamolo,
giriamo il suo
occhio verso il cielo.

 

Da Von Schwelle zu Schwelle [Di soglia in soglia] (1955). Composta a Parigi il 9 settembre 1952, uscì nel 1953 sul primo numero di «Spirale», rivista bernese d’arte concreta diretta da Eugen Gomringer, Dieter Roth e Marcel Wyss, e poi su «Die neue Rundschau». Celan aveva conosciuto lo scrittore svevo Hermann Lenz e la moglie Hanna nell’aprile 1954, e dedicato subito la poesia, variando il nome di lei in ebraico. Cfr. P. Celan, H. Lenz, H. Lenz, Briefwechsel, a cura di B. Wiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2001.

  1. 10 all’ora. Variante «die Stunden [alle ore]».

 

WEISS UND LEICHT

 

Sicheldünen, ungezählt.

Im Windschatten, tausendfach: du.
Du und der Arm,
mit dem ich nackt zu dir hinwuchs,
Verlorne.

Die Strahlen. Sie wehn uns zuhauf.
Wir tragen den Schein, den Schmerz und den Namen.

Weiß,

was sich uns regt,
ohne Gewicht,
was wir tauschen.
Weiß und Leicht:
Laß es wandern.

Die Fernen, mondnah, wie wir. Sie bauen.
Sie bauen die Klippe, wo
sich das Wandernde bricht,
sie bauen
weiter:
mit Lichtschaum und stäubender Welle.

Das Wandernde, klippender winkend.
Die Stirnen
winkt es heran,
die Stirnen, die man uns lieh,
um der Spiegelung willen.

Die Stirnen.
Wir rollen mit ihnen dorthin.
Stirnengestade.

Schläfst du?

Schlaf.

Meermühle geht,
eishell und ungehört,
in unsern Augen.

 

*

 

BIANCO E LIEVE

 

Dune a falce, innumeri.

Sottovento, mille volte: tu.
Tu e il braccio
con cui crebbi nudo verso te,
perduta.

I raggi. Ci spingono insieme.
Portiamo il brillio, il dolore e il nome.

Bianco
ciò che si muove a noi,
senza peso
ciò che scambiamo.
Bianco e lieve:
lascialo vagare.

Le lontananze, prossime alla luna, come noi. Costruiscono.
Costruiscono lo scoglio dove
s’infrange ciò che vaga,
continuano
a costruire:
con schiuma di luce e spruzzi d’onda.

Ciò che vaga, fa cenno dallo scoglio.
Alle fronti
fa cenno di venire,
alle fronti che ci prestarono
per specchiare.

Le fronti.
Rotoliamo con esse laggiù.
Riva di fronti.

Dormi?

Dormi!

Un mulino di mare gira,
chiaro-ghiaccio e non udito,
nei nostri occhi.

Da Sprachgitter [Grata di parole] (1959). Composta il 23 ottobre 1956 (rivista il 3 maggio 1957), uscita su “Jahresring 57/58”, e poi in Brigitte Neske (a cura di), Das Mondbuch. Der Mond in der deutschen Dichtung, Neske, Pfullingen 1958.

  1. 2-5 Variante “Da wir im Windschatten, mondnah hier unten, geschah / Weisses durch unsre Hände [Qui noi sottovento, ]”. Cfr. sottolineatura del 21 settembre 1954 di M. Heidegger, Was heisst denken? [Cosa significa pensare?,1954], p. 132: “Socrate è il pensatore più puro dell’Occidente, i successori avrebbero dovuto mettersi sottovento”.
  2. 6 Cfr. G. Scholem, Die Geheimnisse der Schöpfung [I segreti della creazione, 1935], p. 50: “Il raggiare – questa è la luce segreta in cui la Torah risplende”.
  3. 13 lascialo vagare. Variante “es will wandern [vuole vagare]”.
  4. 25-27 Variante “Stirnen, fernhin gerollt, / Stirnenpaar / im Weiss, das geschah / auf den Bahnen. [Fronti, rotolate lontano, / coppie di fronti / nel bianco, ciò accadde sulle orbite.]”.
  5. 31. Variante “milchhell [chiaro-latte]”.
  6. 33. Siegmund Günther, Physische Geographie (1895) p. 101, descrive insenature rocciose ad Argostoli nell’isola greca di Cefalonia, dove l’acqua s’incunea con forza bastante a far azionare dei mulini.

 

DIE SILBE SCHMERZ

 

Es gab sich Dir in die Hand:
ein Du, todlos,
an dem alles Ich zu sich kam. Es fuhren
wortfreie Stimmen rings, Leerformen, alles
ging in sie ein, gemischt
und entmischt
und wieder
gemischt.

Und Zahlen waren
mitverwoben in das
Unzählbare. Eins und Tausend und was
davor und dahinter
größer war als es selbst, kleiner, aus-
gereift und
rück- und fort-
verwandelt in
keimendes Niemals.

Vergessenes griff
nach Zu -Vergessendem, Erdteile, Herzteile
schwammen,
sanken und schwammen. Kolumbus,
die Zeit-
lose im Aug, die Mutter-
Blume,
mordete Masten und Segel. Alles fuhr aus,

frei,
entdeckerisch,
blühte die Windrose ab, blätterte
ab, ein Weltmeer
blühte zuhauf und zutag, im Schwarzlicht
der Wildsteuerstriche. In Särgen,
Urnen, Kanopen
erwachten die Kindlein
Jaspis, Achat, Amethyst – Völker,
Stämme und Sippen, ein blindes

E s  s e i

knüpfte sich in
die schlangenköpfigen Frei-
Taue –: ein
Knoten
(und Wider- und Gegen- und Aber- und Zwillings- und Tau-
sendknoten), an dem
die fastnachtsäugige Brut
der Mardersterne im Abgrund
buch-, buch-, buch-
stabierte, stabierte.

 

*

 

IL TRISILLABO DOLORE

 

Ti si diede nella mano:
un tu, senza morte,
con cui tutto l’io tornò a sé. Correvano
voci prive di parola, forme vuote, tutto
finiva in esse, mischiato
e scomposto
e di nuovo
mischiato.

E numeri erano
tessuti con l’innumere. Uno e mille e ciò
che davanti e dietro
era maggiore di se stesso, minore,
maturato e
ri- e tras-
formato in
germinante mai.

Il dimenticato agguantò
il dimenticando, continenti, cuori a pezzi
galleggiavano,
affondavano e galleggiavano. Colombo,
il colchico
nell’occhio, il
ranuncolo,
sterminò alberi e vele. Tutti salparono,

liberi,
avidi di scoperte,
smise di fiorire la rosa dei venti, perse
le foglie, un oceano
fiorì a iosa e a giorno, nella luce nera
dei selvaggi colpi di timone. In bare,
urne, canopi
si destarono i piccoli
Diaspro, Agata, Ametista – popoli,
tribù e casati, un cieco

E  s i a

si annodò nelle gomene sciolte a testa di
serpente –: un
nodo (e contro-, retro-, anti- e bi- e mille-
nodi) presso cui,
occhi da carnevale, la nidiata
delle stelle-martora nell’abisso
sil-, sil-, sil-
labava, labava.

Da Die Niemandsrose [La rosa di nessuno] (1963. Composta a Parigi tra il 16 e 19 settembre 1962, uscita su “Die neue Rundschau”. Titolo originario Das Wort Schmerz [La parola dolore]. Una lettera del 14 settembre 1962 dell’amico Erich Einhorn gli annuncia una vacanza in Colchide.

  1. 21 Colombo. Chestov, Auf Jobs Waage, p. 230, parla di Alessandro, di Colombo, degli Argonauti, degli Ebrei, cose che i filosofi non possono concepire.
  2. 22 Il colchico. In una lettera del 30 settembre 1962 Celan spiega a Gisèle il nesso tra colchico, Colchide e Einhorn.
  3. 30 luce nera. Luce invisibile da raggi ultravioletti.
  4. 31 colpi di timone. Variante “Schöpfungssekunde [secondi della creazione]”.
  5. 32 canopi. Note di lettura a Friedrich Behn, Kultur der Urzeit (1950), III, p. 26, sui canopi etruschi di Chiusi, terracotte cinerarie a forma d’uomo con la testa per coperchio. Variante “Amphoren [anfore]”.
  6. 33-35 Cfr. Esodo, 28, 19-21.
  7. 43 con occhi carnevaleschi. Variante “totgeborene [nata morta]”.
  8. 44 stelle-martora. Variante “Marder [martore]”.
  9. 45 Prima sillaba di Buch-ovina.

 

 

 

[1] J. Hösle, Al bivio. Gli anni milanesi, Herrenhaus, Seregno 2009, pp. 172-73.

[2] Casa editrice con cui pubblicava. Tre anni Niedieck avrebbe tradotto in tedesco il racconto di Sereni  L’opzione (Scheiwiller 1964).

[3] Calco evidentente dal tedesco puritanisch, nel senso di rigido, severo.

[4] “Die Auswahl von Herrn Masini finde ich recht enttauschende: sie umgeht die repräsentativen Stücke, die, wenn sie fehlen, alle wichtigeren Akzente verschieben”. L’elenco di Masini comprendeva qarantatre poesie tratte dalle quattro raccolte finora uscite (a esclusione della giovanile La sabbia delle urne, subito ritrata dall’autore per la quantità di refusi presenti).

[5] “überaus freundlichen”.

[6] “Loyalität, wie man sie sonst in literarischen Kreisen leider nur allzu selten antrifft”.

[7] “Voici le choix que je vous avais promis pour M. Masini: il comporte 48 poèmes, un peux trop peut-etre. Evidemment, il ne voudrait qu’orienter, c’est-à-dire donner au traducteur une idée de ce qui, pour l’auteur, après une certaine experience en compagnie de ses poèmes, semble etre un choix plus au moins représentatif”.

[8] “Je garde un très vif souvenir de notre rencontre et espère bien pouvoir continuer, un jour, la discussion qu’elle a rendu possible”.