Giorgio Caproni, Taccuino dello svagato

da | Feb 4, 2019

Il Taccuino dello svagato di Giorgio Caproni (con un saggio introduttivo di Alessandro Ferraro, Passigli, 2018) si presenta come episodio eccentrico eppure esemplare della sua attività giornalistica. Fra il 1958 e il 1961 Caproni pubblicò in questa sua personale rubrica per la «Fiera Letteraria» racconti e soprattutto pagine private, fra cui autoritratti alla scrivania, resoconti di viaggio e alcuni ricordi intimi. Dal Taccuino pubblichiamo le prose Enea, un uomo come noi e La piccola cultura e il grande pubblico.

Enea, un uomo come noi

Fu un’estate del primo dopoguerra ch’io, trovandomi a Genova per una visita, m’incontrai la prima volta, e si capisce mentre meno me l’aspettavo, con Enea figlio d’Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti, in Piazza Bandiera, e sebbene fosse un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno, la mia emozione non fu minore di quanta ne avrei provata incontrando Enea in carne ed ossa.
Innanzi tutto Enea è un uomo il cui destino mi ha sempre commosso. Figlio e nel contempo padre, egli sofferse tutte le croci e le delizie che una tale duplice condizione comporta. Dico Enea meno eroe che uomo, e per di più uomo posto al centro d’un’azione suprema, la guerra, proprio nel momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi alla Tradizione, ossia al padre che, ormai cadente da tutte le parti, è lui ad aver bisogno d’esser sostenuto, tantomeno può appoggiarsi alla Speranza (all’Avvenire), ossia all’ancor troppo piccolo figlio, tuttavia bisognoso d’appoggio.
«Il fato d’Enea», sentii soffiare al mio orecchio. Ma era una reminiscenza scolastica, e subito la scacciai come cosa retorica e del tutto indegna di fronte a quella minuta statua cariata, così dimessa (così umana) e così vera.
E allora?
Perché proprio a Genova un monumento ad Enea? E da quando? E di chi?
Avevo purtroppo fretta, e per soddisfar subito la curiosità mi rivolsi a un vigile urbano che, aitante e omerico come tutti i vigili genovesi, dirigeva il traffico di fronte all’Annunziata, ancora spaccata in due dalle bombe.
«Vada in biblioteca», mi rispose la guardia, «e tenga la sinistra».
Restai piuttosto male, e per ripicco rimasi lì, in Piazza Bandiera, ancora ingombra di detriti e con ancora le case spellate e senza più palpebre di persiane o d’imposte, fermo a interrogare il mio Enea, quasi con la speranza ch’egli stesso potesse dirmi qualcosa.
Guardiamocelo un poco insieme, questo Enea, prima ch’io vi dica come e qualmente, a Genova, egli dovette fare persino il lavatore di ortaggi, conscio che i dopoguerra son duri per tutti, compresi coloro che, come lui, sono di stirpe regia, o addirittura semidivina.
Lo zoccolo del monumento (che è del Baratta, sembra) è una piattaforma dove posa un prisma poligonale, sulle cui facce stanno quattro musi leonini con la bocca spalancata a buttar acqua. Posa su questo prisma un cilindro scanalato con arrotolata intorno una fascia assolutamente muta, ed è in alto su tale cilindro che trovasi, piccola come un bambino, la statua vera e propria: Enea in persona con per la mano il figlioletto, che lo guarda chiedendogli aiuto, e sulle spalle, ciondoloni come l’Agnello del Buon Pastore, il padre ormai così fragile da sembrar di vetro: un gruppo che partito così da Troia in combustione, così se n’è rimasto tra le fiamme dell’ultima guerra, uscendone con un minimo di danno, come sarebbe un piede appena sbocconcellato ad Anchise, danno che del resto è l’unico subìto su una piazza angusta dove le bombe – tutti lo sanno – hanno risparmiato ben poco.
Caro, caro il mio Enea venutomi incontro proprio come mi commuove di più, e situato e rappresentato proprio in quel momento di suprema solitudine che ho detto. Cioè mentre lui – un uomo come noi, dopotutto – solo in mezzo alla guerra e alle rovine, deve agir da solo per salvar capra e cavoli (l’espressione non sembri irriverente) insieme con la propria persona, vale a dire per sostenere e salvare non soltanto chi fino a ieri lo aveva sostenuto, bensì anche chi lo avrebbe potuto sostenere domani. Perché davvero Enea (l’uomo) non fu mai tanto solo come in quel momento: nemmeno quando, da ragazzo, per esser figlio d’una Dea e non d’una semplice mortale, poté sentirsi e dirsi orfano di madre. E nemmeno quando, Troia distrutta, e perduta la moglie, poté sentirsi e dirsi vedovo e ancor una volta orfano.
Enea privo di madre, senza più moglie, quasi senza più padre e con un figlio così gracilino da non reggersi ritto, questo Enea come somiglia al Principe d’Aquitania «dalle torri abolite»: al Desdichado di De Nerval. Ma soprattutto come somiglia a tutta intera la nostra umanità d’oggi, la quale ha anch’essa da salvare una cadente tradizione e un avvenire ancora incerto, e il compito tremendo di fondar da sola la nuova Città!
Enea, forse, non si rese conto di tale sua vera grandezza «naturale». O tanto profondamente se ne rese conto, da non inorgoglirsene affatto, fino ad accettare a Genova, e con estrema semplicità (lui, un Principe: un semidio) quella sua straordinaria mansione di lavatore d’ortaggi, cui di sfuggita ho accennato.
Già, perché proprio questo, a Genova, venne a fare il mio Enea. Me lo ha garantito un Cronista meno burbero e sbrigativo del pizzardone, dal quale ho appreso, anche, che Enea capitò qui, in Piazza Bandiera, dopo aver sostato prima in Piazza Fossatello dove giunse nel 1844, e prima ancora in Piazza Lavagna e in Soziglia.
A riceverlo in Piazza Fossatello furono appunto le «bisagnine», cioè l’erbivendole della Val Bisagno, le quali, secondo le esatte parole dello stesso Cronista, «gli fecero buona accoglienza, data la comodità ch’esse ottenevano di lavare gli ortaggi».
In Piazza Fossatello Enea, paziente in mezzo alle brave donne che evidentemente facevano buon uso della fontana sottomessa alla sua statua, sostò, per riposarsi, un tempo proporzionale alla durata del suo lungo viaggio (forse per rinfrescarsi e rinfrancarsi in quella sua allegra mansione d’acquaiolo), fin quando, ripreso il cammino nel 1873, proseguì raggiungendo Piazza Bandiera, dove tutt’oggi è visibile.
Senonché, di tale nuda cronaca (non so fino a che punto inconfutabile), che importa?
Non è certo dal punto di vista estetico od erudito che la mia curiosità e la mia commozione sono state toccate; bensì dal fatto che il mio diletto Enea fosse venuto a capitare proprio qui, a Genova, e che a erigergli un monumento così, in una piazza così (un monumentino così pudico e quasi vergognoso di sé, in una cornice tanto domestica e familiare) siano stati proprio loro, i genovesi.

17 aprile 1960

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 La piccola cultura e il grande pubblico

Si va spesso affermando, nel vasto reame del luogo comune, che da noi manca oggi la rivista letteraria davvero capace di esprimere e di chiarire in tono medio il meglio della nostra letteratura militante, e di rispondere perciò alla richiesta, che rimane insoddisfatta, d’un pubblico il quale vuol essere illuminato o perlomeno tenuto al corrente, e che invece resta umiliato, e perfino un poco offeso, ogniqualvolta si avvicina alle riviste esistenti, tutte troppo alte di tono perché rivolte a un’élite.
Soltanto una tale rivista, si aggiunge, potrebbe servire in modo efficace a una maggiore diffusione del libro: non solo, ma per la sua numerosa tiratura potrebbe anche costituire, per gli scrittori, quella legittima fonte di guadagno che essi invece non trovano nei ristretti borderò delle attuali riviste «specializzate», dove quasi unicamente scrivono (se vi scrivono) o per tirocinio o per amor dell’arte.
Corollario d’una tale posizione è che una simile rivista, o super rivista, dovrebbe farla un grande editore, anziché preferire il rotocalco, il quale vien per ora considerato, oltre che una buona fonte d’incasso, il miglior mezzo pubblicitario a favore d’una casa editrice.
Sarà, ma io non riesco a vederla una cosiffatta rivista di tono medio, proprio perché non riesco a vedere, nell’attuale compagine della nostra società, fra i due estremi della raffinata cultura e dell’analfabetismo anche addottorato (due estremi che ahimè non si toccano, altrimenti avremmo forse, nella fusione col folclore, una letteratura veramente popolare), quella elevata ed estesa media della cultura stessa («La Lettura» fu un esempio della sua parte efficace) che non soltanto determina il grado di civiltà di un paese, ma da sola permette, anzi impone, l’esistenza d’una rivista del tipo di quella auspicata.
Con ciò mi par d’aver già detto che non credo troppo nemmeno alla richiesta in tal senso da parte del gran pubblico (se tale richiesta esistesse concreta, chi si lascerebbe sfuggir l’occasione?), per il quale d’altronde lo schermo e il video hanno assunto così bene – o così male, ciascuno è libero delle proprie opinioni – il ruolo della cosiddetta letteratura amena, pur non limitandosi affatto, son pronto a riconoscerlo, a tale funzione.
A proposito di rotocalchi, e senza voler ingrossar troppo il discorso: sappiamo che cosa essi sono: l’industrializzazione del pettegolezzo (esteso su scala mondiale) che una volta si faceva a domicilio, le sere d’inverno, intorno ai casi della zia Carola, o di altri «personaggi» del paese. Personaggi che, se mancano, il rotocalco «inventa» (monta), con grande abbondanza di fotografie, sforzandosi in tutti i modi di far che tutto il mondo sia o divenga davvero paese.
Questo, dei rotocalchi, è il linguaggio medio (la cultura media) richiesto dalla maggioranza del pubblico (il nostro ceto medio, quasi interamente composto di «dottori»), linguaggio dove la notarella di critica letteraria, o musicale, o teatrale, o d’arti figurative, noi lo vediamo tutti quale spazio occupi e quanto strida nelle ultime pagine dedicate alla Pubblicità, nonostante le acrobazie dei critici spesso illustri chiamati a redigerle per adeguarsi al pubblico, e per non troppo urtare la figura del Direttore-dittatore, a sua volta funzionario d’un editore.
Ma con ciò? Dovremmo per questo dichiarare in peccato i rotocalchi, e auspicarne il rogo?
Vero è che qualcuno pensa che una più agile «politica» in favore del libro i rotocalchi potrebbero svolgerla, con meno critica (meno di così?) e maggior informazione e «grancassa», prendendo il toro per le sue stesse corna, e cioè creando intorno al libro un alone di curiosità non troppo più misero di quello creato intorno a questo o quell’altro personaggio della Cronaca.
Ma c’è anche chi pensa che i personaggi della cronaca interessano già di per sé, e libri e quadri e concerti no, e che il rotocalco, il quale dopotutto non è una fondazione a scopi benefici ma un’impresa commerciale, ha pur il diritto, se non il dovere, di andare incontro alle richieste di un pubblico (d’un utente) che mai il rotocalco stesso – per quante montature tentasse – riuscirebbe a interessar sulla carta a ciò che non lo interessa, o così limitatamente lo interessa, nella vita quotidiana. A parte che nessun scrittore o artista vorrebbe esser presentato o condito alla stessa stregua di una diva o d’un pugile o d’un uxoricida.
Disgraziatamente – o fortunatamente, chissà – non c’è tifo in Italia per la letteratura, né davvero potremmo ripetere in casa nostra ciò che un agile critico francese ha scritto a proposito del penultimo chef d’oeuvre della Sagan: «Parigi» – provatevi a dir Roma – «è rimasta una città letteraria dove la cultura si vende bene, e l’opinione continua ad accendersi più facilmente per un letterato che per un Ministro».
Ironia a parte per quanto concerne la Francia, da noi non è certo così; siccome i rotocalchi, come espressione d’un costume in atto e senza fini didascalici o moralistici (anche se con secondi fini politici più o meno larvati), vivono invece sui vari tifi da noi pullulanti, essi hanno mille ragioni da vendere (e il vendere non è una metafora) restando quali essi sono, che come dire vicini al gusto medio (alla media della cultura) del pubblico che li compra e dai quali è comprato.
La digressione è stata lunga ma necessaria, anche se in gran parte ovvia, per scaricare sia i rotocalchi sia le riviste «specializzate» dalle loro colpe e insolvenze.
Riviste specializzate (tiratura sull’ordine delle centinaia) e rotocalchi così come sono e come si vuole che siano (tiratura – non illudiamoci nemmeno da questo lato – sull’ordine delle centinaia di migliaia, o al massimo dell’unità di milioni) sono lo specchio d’uno stato di fatto (purtroppo d’una realtà) incontestabile.
Il fatto è che la cultura è diventata una «specializzazione» che non interessa il gran pubblico. Il fatto è che il gran pubblico (grande anch’esso fino a un certo punto) vuol saper tutto e quindi nulla, e si sente perfettamente a posto ignorando la nostra attuale letteratura o pittura o musica eccetera (tanto, una laurea ce l’ha, e sa – crede di sapere – chi è Leonardo), e nemmeno per sogno si sente in minorità ignorando la poesia e le altre arti contemporanee, come per nulla si sente in minorità ignorando gli ultimi progressi (spetta agli «specializzati») della fisica termonucleare.
È che il nostro paese somiglia a un animale antidiluviano: un corpaccione numericamente massiccio, e un cervello (una testa) piuttosto non in proporzione.
La media (la cultura media: il tono medio) come trovarli in simile stato di cose?
Dopotutto le migliori riviste «specializzate» (anche se qualche volta esagerano e girano a vuoto, ma questo è un effetto del vuoto ch’è intorno a loro, e non una causa) non parlano (non discettano, anche se troppo amano discettare) di cinese arcaico o di paleontologia, in una società che evidentemente preferisce i sorbetti, «alla portata di tutti».

3 aprile 1960

Immagine: Foto di Dino Ignani.

 

 

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).