Franco Fortini, Tutte le poesie

da | Nov 17, 2014

Luca Lenzini, che ha curato l’edizione Tutte le poesie di Franco Fortini (Oscar Mondadori), ci propone una scelta di testi, che ripercorrono l’opera poetica di Fortini, e una parte dell’introduzione al volume.

 

(da Foglio di via, 1946)

FOGLIO DI VIA

Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

***

(da Poesia e errore, 1959)

PARABOLA

Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.

1953

***

(da Una volta per sempre, 1963)

IL MULINO DELLA FORESTA NERA

Verso dove? Tutto trema
e del bosco la gola verde
sulla casipola acquattata
e l’acqua che lega i macigni.

L’asse del traino si spezzò là.
L’industria lasciò questi luoghi.
Aceri, edere, sambuco…
Verso dove? A fonte e foce.

Vecchiaia caduta in infanzia,
vita che torna a miniera,
la ruota morta non sa
che è verità necessaria

qui dove i cuori fermi nell’aria
secolare domandano pietà
e senso a schegge di crani di servi,
a capi molli di fantolini;

e, rovina, nonnulla, speranza
in fondo a un bosco, come esistere
nei figli senza la tua miseria?
Mulino di niente, certezza…

La sera sale in cima agli aceri
e gli animali custodiranno
per questa notte a noi lontani
una casa nostra vuota.

***

(da Questo muro, 1973)

DOPO UNA STRAGE
(da Lu Hsun)

Le notti lunghe di primavera le passo ormai
con moglie e figlio. Fragili alle tempie i capelli.
Vedo in sogno imprecise lacrime di una madre.
Sulle mura hanno mutato le grandi bandiere imperiali.
Vite di amici diventano spettri, non resisto a vederle.
In ira contro siepi di spade cerco una piccola poesia.
Non lamentarsi. Chino il capo. Non si può scrivere più.
Come acqua la luna illumina la mia veste oscura.

***

PIAZZA MADONNA

Se atrii e transiti adirai
dei mercati dove Novembre
sodomita cuoce arroste e battono
coi ferri le grate e le braci e il guasto va per
anditi di pianti e tonfi

voltati e conoscile le facce
gli estinti che stridono via esterrefatti
in ruote di fumo dai caldani.
Vedi bene che pugni atroci
li hanno storti sulle bocche.

Però non credere, è falsa magia.

*

I furgoni dei rifiuti li chiudono a buio.
Il macellaio ritira dal marmo la carne.
Scampanano le gole dalle moli.

Lungo le vasche degli orti
il labbro delle lumache si stacca.
Si abbatte la fatica dei misteri inutili.

La quercia dal capo di gloria non sarà più.
Il ragazzo che profetava mentì.
Questo teatro è di spiriti accaniti

che ti tengono le vesti ti baciano e tu li calpesti.

***

(da Paesaggio con serpente, 1984)

PER L’ULTIMO DELL’ANNO 1975 AD ANDREA ZANZOTTO

Come nel buio si ritrae lento,
Andrea, questo anno già da sé diviso.
Ora nel vischio del suo fiele intriso
starà così per sempre dunque spento.

Ma quel che in noi di anno in anno è deriso
o incompiuto o deforme non lamento:
se uno è vinto e un altro è stato ucciso,
uno ha durato contro lo sgomento.

Qui stiamo a udire la sentenza. E non
ci sarà, lo sappiamo, una sentenza.
A uno a uno siamo in noi giù volti.

Quanto sei bella, giglio di Saron,
Gerusalemme che ci avrai raccolti.
Quanto lucente la tua inesistenza.

***

(da Composita solvantur, 1994)

LE PICCOLE PIANTE…

Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,
rami e radici fra le carte avranno scampo».

Ho detto di sì a quella loro domanda
e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda.
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,
vinte innumerabili armate che mi difendono.

***

Con le loro cadenze decennali, le raccolte fortiniane sono sempre attente a testimoniare i crinali in cui la storia personale incontra quella collettiva – ovvero gli eventi in cui si riassume l’epoca – entro coordinate amplissime: dalla Russia all’Ungheria alla Cina, da Praga al Vietnam e da Stammheim all’Iraq ogni luogo è una data, ogni paese un’allegoria. È così per Poesia e errore come per Questo muro o Paesaggio con serpente: riportare i testi ai contesti significa rifare la storia degli ultimi cinquant’anni – ed è forse questo che l’autore vorrebbe: purché quella storia sia rivista dal basso, ex novo, disseppellendo e non rimuovendo il possibile che non è stato. L’urto della storia non si misura esclusivamente, tuttavia, dall’impatto soggettivo degli eventi, ma anche dal modo in cui rallentamenti, vuoti e latenze si riflettono sul piano delle forme, plurime e quasi lussureggianti. Nel “grande stile” plasmato dagli ultimi tre libri si danno aperture sperimentali e imitazioni, articolate sequenze e fulminanti apologhi; ora è adombrata la pastorale e ora risuona il falsetto, oppure un’eco di «dolente trenodia» (Ossola); il tempo può cangiare da un «larghetto piano e appena un po’ ansante» (Frabotta) a un finto andante, mentre sull’io stingono controfigure stilizzate o di scoperta matrice letteraria, silhouettes di stampa orientale. Come se, con la sparizione del “noi”, una cortina cerimoniale avvolgesse l’io lasciato solo a combattere le sue battaglie, e queste dovessero moltiplicarsi e comporsi in quadri che allegorizzano il rapporto con la storia, in una specie di ardua e colta didassi.

Lo «spettrale manierismo» (definizione dell’autore) e il recupero dell’elemento figurativo, istintivo in chi si era laureato su Rosso Fiorentino, si fondono con la scrittura «di seconda intenzione» (Paesaggio con serpente); mentre una luce obliqua cade sull’io e sul suo discorso, ogni volta ricominciato nell’assenza di interlocutori (Allora comincerò…, in Paesaggio; «Allora comincerò con un altro disegno», Il custode, in Composita), in un gesto (si potesse dire) generosamente compulsivo, per cui tutto si svela materiale e insieme irreale, concreto e mentale («un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlare con più precisione, irrevocabilmente», recita l’epigrafe manzoniana nella sovracoperta della silloge del ’78, Una volta per sempre).

Nelle stanze austere e deserte dove ai testi sonori dello “scriba” è dato distendersi nelle forme del «recitativo», la retorica che un tempo veniva rimproverata al poeta come alcunché di greve e premoderno sorregge ostinatamente le vaste architetture dei sermoni e degli appelli con cui l’«antenato che sono o divengo» (Sono nella stanza…) si rivolge al futuro, non più dei prossimi ma dei posteri (Allora comincerò…):

E chi aprirà i vecchi miei lessici e legga
le carte soffiando la polvere, almeno
abbia un giusto scuotere del capo, il capo alzi, guardi
se la mattina è acuta, esca.

Chi parla in tali ariose sequenze assomiglia più a un qualche patriarca biblico di Rembrandt che non al «falso vecchio» che si aggira nei dintorni di casa, tra via Legnano e l’Arena, in Questo muro: c’è chi, non senza sollievo, ha perciò visto in questa fase (e specialmente in Composita, che segue l’epocale ’89) l’espressione di una rinuncia se non di un ravvedimento, insomma un processo di de-ideologizzazione e una nuova reverenza verso i temi eterni della nuda esistenza assediata dalla finitezza. Interpretazioni banalizzanti come questa ci parlano dello stato della critica, ma sono pressoché innate in una cittadella letteraria avvezza a normalizzare il diverso; si dovrà notare, invece, che anche nell’ultima produzione del poeta l’accento è sempre quello di chi parla in partibus infidelium, e che dalle sferzanti e raggelate, tesissime poesie di Circostanze (in Paesaggio) o dalle ironiche Sette canzonette del Golfo (e non si dimentichi Italia 1977-1993, sempre in Composita) si possono facilmente stabilire nessi a ritroso che arrivano fino a Foglio di via. E si potrebbero, magari, ricordare i saggi che da Insistenze (1985) a Extrema ratio (1990) dispensano diagnosi non equivoche, anzi spietate sulla miserabile fin de siècle italiana e europea – e quanta e quale attenzione e passione riversava Fortini, proprio negli anni di Paesaggio (quando si chiude la «piccola porta» di Brecht, ancora socchiusa in Una volta per sempre), sulla memoria di Panzieri e del suo momento: è il «vero che è passato» di Per Vittorio Rieser. Ma non basta: è da intendere come il motivo della trasformazione (lo dice anche l’ultimo titolo: Composita solvantur) abiti i libri della fine non meno che quelli dell’inizio; e che, per giunta, nel periodo estremo si avverte un’accelerazione da cupio dissolvi che tutto è meno che conciliante.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).