Filippo Naitana, Otto poesie

da | Mar 17, 2020

Vita nuova

Sbucciare un’arancia,
mia cara Bice,
profuma i giorni di eterno.

Delle parole e dei dubbi
che tessono la trama fittissima
della nostra amicizia fa una festa
di spicchi e sereni silenzi.

Lì, nella complicità improbabile
fra il colore e la lama, infine si quieta
il tiranno abbaiare delle passioni.

 

Stimmate

Il santo ha un colorito verdognolo
che mal si distingue dal cenerino del saio.
Le orecchie grandi e ferine distraggono
dai protagonisti del dramma che è il volto:
gli occhi rivolti al cielo e la bocca dischiusa.
Ma c’è di più: si scorge un riflesso luciferino
nelle pupille del Francesco che torreggia
al centro del dipinto di Bartolomeo da Foligno

“È un morto vivente?”
La domanda non intrude il silenzio ovattato
del museo universitario, ma sottotitola
lo sguardo incuriosito di un bambino–
figlio, forse, della coppia di professori
che da dietro a montature modaiole
mesce timidamente bibliografie
e piacere.

Ma sì, ha ragione l’infante!
Questa pagina di agiografia a tempera
ha qualcosa del licantropico-postmoderno
che imperversa sul piccolo schermo.
Anche lo scorrere del rosso lungo linee
perfettamente rette, dagli arti e il torace
del Cristo-Serafino agli arti e il torace
del Poverello, inietta nel Quattrocento
una vena digitale: un futuro ulteriore
nel già-futuro che è l’arte del tempo.

E a poco valgono l’oro sontuoso
che sorge alle spalle della Verna
e dà risalto al fiammeggiare delle ali
che incastonano in cielo il Cristo in croce,
e gli alberi che adornano il monte
quasi fosse un preziosissimo triregno
anziché lo scarno teatro dell’impressione
delle stimmate:
…………………………qui c’è uno strappo,
…………………………………………..una ferita in libertà.

 

Dissolvenze scandinave

Chissà se hai ancora un silenzio,
un’ultima assenza,
da fare colore con quelli del mondo.

Mi abbandona, lo sento,
il senso dei sorrisi e delle lacrime
che abbiam strappato
allo sfiorarsi delle nostre vite,

e sa di timo e liquirizia questo
lento diminuire.

 

Le verità di Facebook

“Ciao, come stai?” mi chiede Cinzia,

che non vedo da quarant’anni, come primo gesto di amicizia

virtuale alla fiera di esibizioni

sfavillanti che, con mio sgomento, frequento quasi ogni giorno.

Insperabilmente, la riconosco

–grazie, credo, alla luce gentile e triste dello sguardo– e rimando

la palla oltre l’oceano: “Sto bene. E tu?”

Nel mentre, inizia a prendere forma il ricordo di un’estate cocente,

di more raccolte quasi bollenti

dai cespugli di rovi appena fuori paese, e di ore trascorse

a bisbigliare di imminenti

nuovi amori, con l’innocenza seriosamente assorta dei novizi.

Dall’idillio mi sottrae

la cadenza militaresca di due squilli: nel blu, le icone rosse

brillano d’impazienza,

e io abbocco e clicco, per svelarne le improbabili promesse.

Si tratta di altri due compagni di scuola,

persone che a mala pena ricordo e di cui nondimeno

mi trovo a scorrere le immagini

e le parole che hanno affisso sulle bacheche mediatiche.

Navigo rapidamente

tra i lacerti più o meno edificanti

che offrono alla sconfinata tribù di Facebook,

finché – proprio quando sto per cessare

la mia sempre più distratta

perlustrazione e tornare a Cinzia e alle more – mi imbatto

in una fotografia del dittatore

in posa marziale sull’infausto balcone. “Odiare Mussolini,”

recita il testo che accompagna la foto,

“è come odiare la patria. Onore al Duce e fedeltà alla Patria.”

“Sogno o son desto?”

domanda la mia accademica controfigura: un archeologo

fra le cui mani sporche di sabbia

giace un reperto così ben conservato da apparire falso.

“Ecco,” mi dico, “un’altra conferma

che contro la vita la letteratura perderà sempre dieci a zero!”

“Ciao, come stai?” D’un tratto,

scemato lo sconcerto, ho una gran voglia di rispondere a Cinzia

in modo meno fasullo,

meglio se in direzione grado zero della ragione: “rimandare, dopo-fare,

la vita parafrasare in vagiti di futuro;

sulle palpebre affilare il silenzio e fra le labbra la luce, sapendo

che il domani è ora e poco altro.”

Poi premo “spedisci” e spengo il portatile.

 

Fenomenologia dell’addio
Repetita non iuvant

Mi coglie sognante
l’indugiare dello zucchero
sulla seta caramellata del caffè,
prima di svanire (come un presagio)
nella pozza di liquido ebano.

Adopero il cucchiaino
con cura amorevole, quasi fosse
un segreto o la penna di un miniatore,
attento a non disturbare la crema,
e solo al primo sorso—
valige fatte e cuore in tasca—
levo lo sguardo sul Perseo
e dico addio a Firenze.

 

Lato B

Vado in cucina per augurargli la buonanotte.

Un indugio implorante si attarda negli occhi grigio-azzurri.
Poi, finalmente, sussurra buona notte
un bimbo alle prese con una domanda difficile.

Pensieri rapaci banchettano sulle mie spalle
mentre chiudo la porta e mi dirigo in camera da letto —
Ganimede o un giovane agnello al prato.
Ma la so più lunga di dar loro in pasto risposte
così addentro a un gioco di composti e permutazioni.

Immagina l’universo come un trentatré giri.
Nelle tracce meno conosciute
le cose sono, sono state e saranno
diverse.

Madam President è da Charlie Rose.
Cesare è morto in Egitto di vecchiaia,
la poesia ucciderà internet in un duello
di feroci primi piani alla Sergio Leone.

Sull’altro lato,
la storia pare ancora familiare
e tu sei ancora
tu.

La tua casa è al suo solito indirizzo.
Hai una moglie, due figli e un debole per i dolci.
Non sei mai stato in Giappone.

Poi, da qualche parte vicino a Verona,
la tua mente s’innamora di un algoritmo
e il rimestio diventa la loro lingua segreta.

La nuova parola chiave è talvolta.

Talvolta tutto è a portata di mano
mentre percorri con Agostino il palazzo della memoria:
La Resurrezione di Piero e la strada per Sansepolcro,
tua moglie che attraversa la strada il giorno in cui vi siete incontrati,
le guerre puniche e il secondo mandato di Nixon.

Talvolta le parole ti abbandonano e i pensieri
si acquattano, finché ciò che resta delle frasi
è l’immobilità allarmante di una città bombardata.
“C’è qualcuno?”

E talvolta un buonanotte è abbastanza
per riportarti a noi dal Giappone.

(Traduzione dall’inglese dell’autore)

 

Leonardo innamorato

Neri o biondi, lisci o ricci,
e ciò che c’è nel mezzo:
i capelli non appartengono al corpo,
ma a un’ignota legge del movimento.

(Traduzione dall’inglese dell’autore)

 

C’era una volta in America

Ogni tanto compare — in un cassetto, una tasca,
o un angolo della mia scrivania ingombra —
un gettone di Delaney’s e ci salutiamo come vecchi amici.

“Valido per una bevanda”, intona in caratteri d’oro
la sirena dalle lunghe gambe a sguazzo nel bicchiere di Martini.
E veramente era ben accetta la liquida moneta,

sole o pioggia che fosse, il locale affollato di clienti
di tutti i gusti, stregati da Pilsner tedesche color paglierino,
possenti IPA, e Stout corvine con cappelli di crema.

Dalla fila di scaffali dietro al bancone
un coro di scotch, bourbon e distillati meno ambiti
tuonava “Benvenuti!”, sotto la bacchetta di un filosofo locale.

E davvero tutti erano i benvenuti in quell’umile tempio
di libertà, padroni di cercar rifugio dai loro problemi
e dare un tetto all’allegria, seppur per poco.

“Ecco l’America,” ho scritto con un pastello rosa
la sera prima dell’incendio, “che si versa
un po’ di verità, mentre nessuno la guarda.”

(Traduzione dall’inglese dell’autore)