Fermate

da | Giu 23, 2017

Presentiamo un estratto di Fermate (Elliot Edizioni, Roma 2017), l’ultima raccolta di poesie di Paolo Maccari.

***

Finché mi son sentito in corsa
i margini del tempo
erano falde di tappeti magici
che avanti e indietro coprivano
ogni distanza per lasciarmi
in una sterminata radura disponibile.
Emendabile il passato, edificabile il futuro,
tutto il tempo mosso, malleabile,
eccitante e pescoso.

Mi dici: gioventù. Oppure: accade
alle anime vitali. Certo
non mi sembrava alleanza col mondo
l’agilità commossa
con cui ne percorrevo gli anni.

E sta di fatto che ora,
mentre vaneggia nella nebbia,
l’anima coriacea
me la figuro come il peso che tiene giù
nelle acque gelide
i nervi quasi immobili,
soltanto leggermente scossi
ogni tanto
da una folata subacquea di corrente.

***

La pioggia è gonfia di sole perché il temporale estivo non ha annullato il tramonto sul fianco del cielo e i raggi vividi tagliano ancora l’aria, e sono gocce piene come acini che esplodono sull’asfalto in piccoli laghi in fiore. A sedici anni non avrebbe rifiutato il breve entusiasmo panico, e forse avrebbe accolto, senza vergognarsi, le gocce sul volto, sul petto nudo. Ora osserva tutto a un tavolo coperto, immagina il sedicenne che è stato ballare sotto l’acqua. Ma non lo vede, nemmeno l’immaginazione lo resuscita.
Meglio così, pensa, e pensa che non ama i rimpianti e ogni tempo è uguale a ogni tempo. Non si confessa il sollievo che prova avendo evitato di vergognarsi del ragazzo, l’istinto di alzarsi per consigliargli di coprirsi, di andare a casa prima che sia buio.

***

“Cos’altro vuol sapere, ancora?”
Se lo chiede mentre finge di riflettere sulla sua ultima domanda.
“Insomma, una confessione è uno sforzo che dovrebbe comportare, in chi la riceve, almeno gratitudine. Per la fiducia mostrata, per l’abbandono. O, quantomeno, ispirare rispetto. E invece qui si pretende addirittura uno sforzo di concentrazione. Non ho capito dice lei: ma capito cosa? Si tratterebbe, secondo la mia idea, di mostrarsi colpita. Di restituirmi, dopo tutto questo rovesciamento di viscere, un po’ di comprensione. Non sono abituato a questa cosa della confessione, però una cosa credo di saperla, riguardo, come dire, al galateo di chi ascolta: è cafone tempestare di domande il povero cristo che ti apre il cuore, come si dice. E insomma. Perché hai detto così e perché hai fatto colà. Ma lasciami stare. La storia fila se stai zitta. È offensivo, insultante (che vuol dire la stessa cosa, ma mi pare più solenne, e dunque più grave) mettersi a porre problemi di logica, addirittura tenere a mente incongruenze e chiederne ragione. Non si è accorta che il mio discorso era… poetico: contava, tra l’altro, il tono della voce, e le pause, sì, anche la gestualità. E lei non si accontenta. Ma insomma, cosa pretende? Che tiri fuori, niente meno, la verità?”.
Gira lo sguardo verso il muro e le mormora (“contava, tra l’altro, il tono della voce…”): “Basta, dimmi di te! Ormai mi conosci: non riesco a dare importanza alla mia vita”. Poi, di sottecchi, cerca di capire l’effetto che ha sortito quest’uscita. La donna tace, scuote la testa, poi si mette a fissarlo. Cosa ha letto lui in quegli occhi? Perché, senza nemmeno accorgersi di farlo ma subito congratulandosi con se stesso, le prende la mano e la stringe fortissimo, cercando invano di procurarle dolore?

In ogni modo, la sincera verità del gesto è piaciuta a tutti e due.

***

Da come ribolle e sviolina
anche nei palpiti raschiati di città
la primavera

guardatene.

Con più appetiti aspettiamo la sera
che ci deluderà
coi suoi migliori controtempi di rapina.

Andremo a frescheggiare e avremo freddo.

Mi manca com’eri. Sei qui e ti manco.
Disponiamo le frasi del nostro discorso
sul genio del rimpianto, l’ipnotico compagno.

Mi manca il dolore subìto e inflitto
in comunanza di desiderio infantile,
le dieci raffinatezze
del decalogo egoista
a cui non si resiste.

Sparlavamo di un arcipelago
di terre emerse, come un mostro
smembrato di isole da razzia.

Ma correvamo, mente e gemiti,
su un continente solo, il nostro.

Ora torna attutita primavera,
prende, secondo natura, alla gola
allo stomaco, misura i battiti
dei muscoli selvaggi e incontrollati
o della pioggia che secondo natura
accieca la strada e illumina un recesso,
quel poco di tana dove è meno paura
e più facile rimandare
il nostro processo.

Cantiamo primavera, tutto rinasce,
tutto accade di nuovo, tutto accadrà
esattamente come è accaduto.
Il nostro saluto d’addio
è già il passato promesso
dal primo celeste scricchiolio.

***

Non vado da nessuna parte
e non posso dire vengo in pace,
ma veramente sono in pace
con ognuno di voi quasi ogni istante
(lascio stare i momenti imperfetti)
da quando come un mantra
ripeto a me stesso
“ciò che ti accade
proviene da te stesso,
ogni vicenda ha le sue cause
nel suo protagonista e autore
e lascia stare i ghirigori
le contorsioni investigative.
Via i muti furori, i fantasiosi
elaborati vendicamenti.
Mai più.
Sei solo, non ci sei che tu
e fanne che vuoi di alibi moventi
e tracce microscopiche di sangue”.

Respiro meglio, ora, il pensiero
si modula fluido fin nel dolore
con un suo grafico cristallino
che prescinde dal dare e l’avere,
queste due maschere del desiderio crudele.

Soltanto mi fa pensare,
come un’antica trappola
che non so più interpretare,
l’aumento irresistibile
della mia fede nel destino.

***

La notte ridice calma
gli sbagli compiuti alla luce
gli inciampi di pensiero
a cui indulgere per una veglia
sul divano a bruciare
le amare sigarette
di chi non aspetta.

Poi arriva dalla notte una notizia
nemmeno antichissima o baluginante.
un ricordo tutto intero
sbalzato, sintattico, scorrevole.

È un docile dolore
anche lui brucia bene
si spegne senza sfrigolare
attraversa il palco con eleganza
(tremavi fuoritempo:
non era appostata dietro quell’angolo
ma in quello dopo e dopo
la tua frode
)
quasi subito ne ha abbastanza
del mazzo di fiori che annusa
mostra e getta via
verso i bambini presenti.
Tu continui ad applaudire
per scaramanzia
anche mentre ti addormenti.

***

E ora vieni e scaldami
sollievo, che ho detto no,
ripetuto no alle richieste
che mi chiamavano a esistere.

No, non ci sono, non posso,
un’altra volta, in un altro frangente,
oggi no, ora no, non ora,
desolato ma si sa
se ne vanno solamente,
o non vengono, i migliori,
soavi sono gli intatti fiori
al balcone del giorno sbagliato.

Vieni, scaldami e cullami, rifiuto,
ho di nuovo obbedito
alla pagina immacolata,
formicolante di spettri,
battuta da identità
in cui mi adempio
e che mi sopravanzano.

Di vero rimane quasi niente:
il rifiuto, il sollievo, la camera
dove i pensieri rimbalzano
e quando si urtano provano
per se stessi pena e rabbia
senza bersaglio e senza smania
autentica di battaglia.

Che arrivi la vergogna e abbia
fretta travolgente di togliermi
la testa dalla sabbia, additandomi.
E dopo la vergogna la paura
e insieme alla paura la voglia
anche soltanto puerile
di un furto grosso, primaverile,
di sottrarre
all’elemosiniere
della vita qualche moneta
di emozione sconosciuta.

***

Cosa sei, e come, com’è che ti decidi
a visitarmi, a fare una pacchiana
improvvisata a me che odio le sorprese
e tutti gli altri controtempi, controbalzi
con cui gli eventi mi costringono
a rispondere d’istinto.

E tu niente niente sei qui,
in questi istanti di crepuscolo
e dita sulla tastiera,
come una canzonatura della sera
perché era di sera che bambino
più forte il sogno mi stornava
dai rumori della famiglia rumorosa
e mi insaccava in situazioni geniali
meravigliosamente fuori
da ogni cosa che si provava
a distendersi in vita.

Insomma, vattene. Sono ancora
troppo debole per non amarti,
strana parente povera della pace,
piccola speranza della sera indolenzita:
leggenda serena che i morti
si spengono mitemente e ricordano.

Immagine: Peter Joseph.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).