Eugenio Montale, La bufera e altro…

da | Ott 20, 2019

Dalla nuova edizione commentata di La bufera e altro di Eugenio Montale, a cura di Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, con un saggio di Guido Mazzoni e scritti di Gianfranco Contini e Franco Fortini, da poco uscita per “Lo Specchio” Mondadori, pubblichiamo due poesie, La primavera hitleriana e Il sogno del prigioniero, insieme ai cappelli introduttivi.

La primavera hitleriana

Né quella ch’a veder lo sol si gira…
Dante (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

La poesia fu pubblicata per la prima volta su «Inventario», a. I, n. 3-4, autunno-inverno 1946-1947, e fu poi riprodotta nell’Antologia poetica della Resistenza italiana nel 1955 (cfr. E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi 1980 = OV, p. 965), per confluire infine ne La bufera e altro.

Il titolo allude alla visita di Hitler a Firenze, che avvenne il 9 maggio 1938; al cupo scorcio degli anni Trenta rinvia anche la singolare datazione «1939-1946», che accompagna la poesia alla sua prima uscita su rivista, e che figura già in calce al dattiloscritto inviato ad Alessandro Parronchi (OV, p. 965). La datazione “doppia” fa per altro immaginare due distinti tempi di composizione, o quanto meno un compimento a distanza. Più in generale, essa risulta consona allo stile allegorico del testo, che riporta alla guerra ma insieme annuncia la Liberazione, nell’ultima strofa, con una sorta di profezia post eventum.

Sin dalla prima edizione della raccolta, si legge la nota: «La primavera hitleriana. Hitler e Mussolini a Firenze. Serata di gala al teatro Comunale. Sull’Arno, una nevicata di farfalle bianche» (OV, p. 966). La lirica si apre proprio con un’inquadratura naturalistica, che coglie l’anomala nevicata di bianche falene, riunite in una nuvola sinistra che aleggia per le vie di una Firenze notturna, e che si deposita a terra rendendo impossibile non calpestarne la mostruosa coltre. Con le farfalle un gelo – altrettanto anomalo considerando l’«estate imminente» – si propaga fin sulle sponde sabbiose dell’Arno (cfr. «questi renai»). Si tratta quindi di una strofa descrittiva, ma anche intensamente metaforica nel rappresentare, sotto forma di un’alterazione della natura e della stagione, qualcosa di più profondo: quasi un rigurgito del male in senso ontologico.

La seconda strofa procura a questo principio sinistro la necessaria dimensione storica. Hitler è il «messo infernale» che ha sfilato sul corso e ora assiste a un’opera (il Simon Boccanegra di Verdi) allestita in suo onore al Teatro Comunale, per l’occasione addobbato di svastiche («croci a uncino»). Come si intuisce, il tema politico del testo diviene qui esplicito, e Montale sottolinea il contrasto tra le attività inoffensive dei negozianti fiorentini e il propagarsi del male, giungendo a evocare l’acquiescenza dei «miti carnefici», ossia di coloro che senza accorgersene, chiudendo le vetrine in ossequio alla “festa”, si resero colpevoli. Nella rievocazione, anche le loro merci acquistano un insospettabile valore profetico: le armi-giocattolo prefigurano la guerra, i «capretti uccisi» le vittime innocenti. La partecipazione di massa ai festeggiamenti è trasfigurata in uno spettacolo lugubre e grottesco: è il «sozzo trescone d’ali schiantate», ossia il ballo indecente delle falene dell’esordio, ed è anche il ballo delle «larve sulle golene» dell’Arno, con un’implicita denuncia della condizione larvale cui è ridotta l’umanità.

L’ultima strofa, la più lunga e complessa, segna uno scarto perché abbandona la cronaca storica e fa entrare in scena la speranza, impersonata dalla figura femminile salvifica cui è dato qui, per la prima volta, il nome poetico di “Clizia”. Questo celebre sehnal è mitico, perché è il nome della Ninfa innamorata del Sole, crudelmente mutata in girasole ma sempre fedele al suo astro, di cui racconta Ovidio nelle Metamorfosi. Dietro Clizia riconosciamo, ancora una volta, Irma Brandeis, che già in Nuove stanze, del 1939, era contrapposta (in forma ancora allusiva) all’evento funesto della visita fiorentina di Hitler. Clizia tuttavia non è più solo – come la donna di Nuove stanze (poi rievocata nell’Orto) – simbolo di chiaroveggenza, di un privilegio conoscitivo e morale opposto all’accecamento prodotto dalla barbarie nazifascista. Qui agisce su una dimensione collettiva: ormai disincarnata, svolge un compito sacrificale, perché con il suo annullamento nel divino («l’Altro», Lui) può portare al riscatto dell’umanità intera, a un’epocale rinascita. Clizia è Iride (cfr. Iride), capace di passare al di là del tempo.

Tuttavia, come di consueto, Montale prende le mosse da una circostanza reale, ricordando alcuni istanti del congedo di Irma, che avrebbe lasciato una volta per tutte l’Italia (siamo sempre nel 1938, non più nei giorni di maggio della visita di Hitler ma precisamente il 24 giugno, giorno del patrono di Firenze «San Giovanni»): evoca i «pegni e i lunghi addii», arricchiti di un terribile valore rituale nel clima prebellico (cfr. «nella lugubre attesa / dell’orda»). Di qui in poi il tono si innalza e si impreziosisce con vari riferimenti visionari: la sovrannaturale stella cadente nei cieli freddi del Nordamerica (la gemma che «rigò l’aria stillando / sui ghiacci e le riviere dei tui lidi»), i biblici «angeli di Tobia», «la semina / dell’avvenire» e infine «gli eliotropi nati / dalle tue mani». In questi versi – grazie all’uso di una lunga parentetica che produce un effetto di mise en abyme – Montale illustra una sorta di realtà sdoppiata: nella scena notturna a Firenze, dove si consuma l’addio terrestre, si inserisce quella del cielo americano attraversato dalla luce, promessa di un ritorno in chiave diversa, ultraterrena (cfr. «Ma se ritorni non sei tu» di Iride, v. 40). Viene delineata così la funzione agonistica della donna, che ora va ben oltre «gli occhi d’acciaio» con i quali, in Nuove stanze, resisteva al maligno «specchio ustorio» del nemico (vv. 32 e 30). È dantesco l’invito «Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, tu / che il non mutato amor mutata serbi»: qui Montale cita il verso «e ’l non mutato amor mutata serba» tratto dal sonetto Nulla mi parve mai più crudel cosa…, indirizzato a Giovanni Quirini e di dubbia attribuzione (secondo l’edizione delle Rime di Dante curata da Contini del 1939 e rivista nel 1946), da cui già deriva l’esergo («Né quella ch’a veder lo sol si gira…»).

Clizia diviene a tutti gli effetti una nuova Beatrice. È proprio questa la chiave del finale, perché la donna, guardando «in alto», distrugge nell’alterità religiosa (in Lui) il «cieco sole» che porta dentro di sé, e analogamente il poeta eleva il proprio amore al di sopra della sfera privata, sublimandolo in un sentimento universale, in una fede nella resurrezione dell’umanità. Giungerà una nuova «alba […] domani per tutti». Ecco che il senso del sacrificio della donna si è dunque precisato storicamente: secondo quanto illustra Iride «nel sacrificio dell’individualità si può sperare che l’opera di Cristo continui», e qui nella Primavera hitleriana, «attraverso il sacrificio, si spera in un’alba di pace» (Croce 1977 [1997]).

 

Metrica – Tre strofe di lunghezza crescente, composte di sette, dodici e ventiquattro versi (quest’ultima strofa è bipartita al centro da un verso a scalino, che la suddivide in due tempi). I versi hanno una misura lunga, che nella prima parte della poesia varia dal doppio ottonario (alla Thovez), nei vv. 1, 2, 9, 17, 18, all’unione di ottonario e novenario, nei vv. 4, 7, 8, 10, 16 (naturalmente si contano dialefi in cesura nei vv. 9, 18 e sinalefe in «croci a uncino» nel v. 10). L’alternanza del modulo ottonario e novenario che caratterizza i versi lunghi di questa prima metà del testo crea un andamento di tipo esametrico. A riprova del ritmo affabulatorio, si nota che le prime due strofe coincidono con due soli periodi sintattici. Ai versi lunghi fanno da contrappunto gli endecasillabi, dapprima rari e poi sempre più fitti verso la fine della poesia, dove portano un ritmo più cadenzato e risolutivo, sino al distico finale: nella prima strofa sono endecasillabi solo i vv. 3 e 5; nella seconda i cinque versi centrali (vv. 11-15) e quello di chiusa (v. 19, con dialefe tra nessuno e è); nell’ultima i vv. 20, 22, 25-36, 38, 42-43. Nell’ultima strofa, gli endecasillabi sono poi intercalati ai martelliani perfetti, contribuendo alla catarsi conclusiva (vv. 21, 23, 24, 37, 39-41; un martelliano, isolato, era già al v. 6).

Le rime sono pressoché assenti (si avverte solo qualche tenue ripresa fonica interna, come folta : coltre, morta : orti, uncino : vetrine, battesimo : attesa, nati : succhiato : piagata); perciò è maggiore e anzi flagrante e decisivo l’effetto dell’unica rima sensibile, che si realizza nell’invocazione a Clizia dell’ultima strofa: l’interna morte : sorte, riecheggiata imperfettamente da porti. Intenso il consueto contrappunto degli sdruccioli, soprattutto interni: nuvola, turbina, zucchero, scavalcano, mistico, povere, giocattoli, carnefici, ignorano, séguita, rodere, incolpevole, battesimo, lugubre, angeli, semina, polline, abbàcini, salutano, confondono.

***

Il sogno del prigioniero

Albe e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolio dalle cave, girarrosti
veri o supposti – ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl’Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all’aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo e il minuto –

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

 

Oltre che per collocazione, il componimento è l’estremo del libro anche per datazione: come avverte la nota in calce alla princeps della raccolta, infatti, il «Sogno del prigioniero è uscito sul Ponte di Calamandrei (n. 10, ottobre 1954)».

Nel Sogno del prigioniero si coglie un tratto che anticipa la stagione di Satura, cioè il trattamento in falsetto di una tematica seria o tragica; vi contribuisce in particolare l’uso di parole prelevate dalla sfera culinaria (girarrosti, mestolo, pâté, buccellati, farcitore e farcito), materia comica per eccellenza. Tale scelta può essere ricondotta a un sentimento di insoddisfazione e contestazione ideologica, espresso attraverso una tipica accentuazione semi-ironica del registro realistico. La lirica tuttavia resta inscindibile dalle poesie che la precedono, come confermano i riscontri intratestuali (cioè interni all’opera montaliana) e intertestuali, convergenti verso il tema tragico e romantico della prigionia già adombrato in Piccolo testamento. Ma proprio sul confronto tra l’una e l’altra “conclusione” si è spesso fermata la critica. Per Franco Croce, per esempio, Il sogno del prigioniero esprimerebbe «un male senza scampo», senza «prospettive di speranza»; diversamente che in Piccolo testamento, infatti, nel Sogno mancherebbe «anche la speranza più modesta di “durare” “nella cenere”» (Croce 1997). Per Scrivano, al contrario, nel Sogno prevale un’idea positiva di attesa, che «si concreta nella dimensione del desiderio di esistenza, di una vitalità che non si spegne» (Scrivano 1966). Carpi, che pure riconosce nel Sogno la montaliana «necessità di sforzarsi di capire e di sapere» ribadendo «la validità della “fede che fu combattuta”», attribuisce invece una marca senz’altro reazionaria all’ideologia del poeta, incapace di «adattare il suo discorso al mondo circostante in senso riformistico» e perciò condannato «ad essere testimone atterrito del proprio stesso mondo, dell’organizzazione legata alla sua stessa classe d’appartenenza» (Carpi 1971). Luperini associa alle Conclusioni provvisorie la critica a «un modello di civiltà anonima, massificata e meccanizzata» (Luperini 1986 [20065]), che è effettivamente nelle corde ideologiche di Montale, tanto nelle poesie quanto soprattutto nelle prose e negli articoli degli anni Quaranta e Cinquanta.

Certo Montale ha dato al libro una conclusione che mettesse in luce un itinerario ideologico: dalla sintonia tragica di eventi storici e dimensione intima (in Finisterre e in alcune delle Silvae maggiori, da Iride a La primavera hitleriana) al disincanto in Sogno del prigioniero (in cui l’allusione alla prigionia da un lato rimanda simmetricamente al tema bellico al centro della prima sezione, dall’altro è interpretabile come allusione alle persecuzioni politico-ideologiche dei regimi totalitari). Questo però non implica necessariamente un esaurimento delle risorse che l’autore, e con lui il prigioniero che lo incarna, riconoscono alla poesia. In termini di struttura tematica, il “canzoniere” può proseguire oltre la Storia, quand’anche questa apparisse destituita di senso agli occhi del poeta. La «lunga attesa», il sogno interminato della deuteragonista lontana resistono infatti alla digestione universale degli «Iddii pestilenziali», oltre un tempo non più storico ma compresso e precipitato nel minuto. Diremmo anzi – avvicinandoci in questo all’interpretazione di Scrivano, pur forse troppo irenica – che la mossa con cui Montale si congeda è segno di un’imprevista vitalità: quasi di un ottimismo dell’immaginario, se non proprio della volontà, che non nasconde un pessimismo ideologico di fondo, ma che neppure in esso si annulla. L’emergenza storica è cessata – è vero – e con essa è venuta meno la necessità di una compensazione ideale attraverso l’intervento metafisico della donna-angelo. Ma anziché rassegnarsi a un risentimento appena mitigato dalle gratificazioni di una Clizia minore, Montale si congeda con l’auspicio impossibile e commovente che il visiting angel ritorni, in un tempo irreale. Per questo Il sogno del prigioniero, anche se ben implicata nel contesto politico del suo tempo (il fascicolo della rivista in cui la lirica comparve ospitava numerosi interventi di riflessione sociale e politica), declina l’impegno come “fedeltà” ai valori individuali.

Un’interpretazione complessiva della poesia richiede perciò l’individuazione di tre livelli tematici: storico-politico, letterario (sul quale si dispongono le possibili fonti o i modelli più generici), biografico (Scaffai 2012). Quanto al primo livello, bisogna rilevare che la situazione e gli stessi vocaboli usati richiamano un contesto drammaticamente vicino e reale; i forni potrebbero evocare quelli dei lager nazisti, come pensano Croce 1997, e, prima di lui, Contini 1968. La parola purga (v. 11: «la purga dura da sempre, senza un perché»), pur passibile di uno slittamento nel sermo humilis, richiama d’altra parte le persecuzioni staliniane (come ricorda già Luperini 1986 [20065], la morte di Stalin, dopo la quale sarebbero venuti alla luce i misfatti del suo regime, era avvenuta appena un anno prima, nel 1953). Al riguardo, è opportuno il confronto tra la poesia e una prosa montaliana pubblicata sul «Corriere della Sera» del luglio ’48, Il poeta «nazionale», poi inclusa nel libretto La poesia non esiste (1971); il protagonista è un famoso poeta di un paese immaginario, caduto in disgrazia e costretto all’esilio e all’abiura.

La condizione descritta nella poesia può essere messa in relazione però anche con il livello biografico, come suggerisce in particolare l’epistolario montaliano. Nella lettera a Irma Brandeis del 31 luglio del 1938, il poeta scrive: «I have a terrible enemy in myself, in that sense of self destruction who strikes me, who kills me, who compels my life in an iron-box of a few inches» (Lettere a Clizia). Qualche mese dopo, nella lettera del 14 novembre 1938, Montale introduce proprio l’immagine di una reclusione «in the cellar» (cioè nella ‘cantina’, nel ‘sottosuolo’; ma il vocabolo, specialmente all’orecchio di un italiano, suona molto simile a ‘cella’, in inglese cell). Nella medesima lettera si trova anche un riferimento al doppio ruolo di lamb e di butcher, ‘agnello’ e ‘macellaio’ (ivi), che può ricordare il gioco di parole sul farcitore e il farcito nel Sogno del prigioniero. Motivi analoghi si rinnovano nelle lettere a Maria Luisa Spaziani: «Ti abbraccio a lungo, come posso, dal di dentro di questo scafandro di ghiaccio e di terra, di dolore e di tedio che mi avvolge e mi paralizza. […] L’unica scintilla che non si spegne è quella che porta il nome di m.l.» (lettera del 13 novembre 1952).

Per quanto riguarda il terzo livello, quello letterario e intertestuale, si segnala una fonte già rilevata in particolare in Finisterre (cfr. Riccardi 2014), ma influente anche per questi ultimi testi: il poema Les Tragiques, composto tra il 1577 e il 1616 dal poeta ugonotto Agrippa D’Aubigné, da cui Montale aveva tratto anche l’epigrafe della poesia La bufera (cfr Scaffai 2012). Montale potrebbe esser stato suggestionato già dalla prefazione del poema (L’auteur à son livre), in cui si fa cenno al motivo della prigionia: «Ton père, en exil, en prison» (v. 12). Ma è tutto il tono grottesco che caratterizza il Sogno montaliano a sollecitare il confronto con l’opera del poeta ugonotto. Ancora nella prefazione (vv. 375-378) si legge infatti: «Argument de rire et de craindre / Se trouve en mes vers, en mes pleurs, / Pour redoubler et pour étreindre / Et vos plaisirs et leurs fureurs». Nel libro I (Misères) si colgono poi i tratti comuni più marcati, riguardanti in particolare il tema dell’antropofagia che i mostruosi tiranni praticano sulla pelle (e con le carni) degli innocenti e dei perseguitati. Altri paralleli molto plausibili, sollecitati dai temi del sogno e della prigionia, riguardano La vita è sogno di Calderón de la Barca e l’Amleto di Shakespeare (cfr. Carrai 2012) e il leopardiano Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (Cfr. Ferrucci 1998; Dolfi 2009). Il “sogno del prigioniero” è del resto un soggetto ricorrente nella letteratura e nell’arte figurativa, dal Romanticismo all’Espressionismo (Traum des Gefangenen è il titolo di un disegno di Alfred Kubin, datato 1899, che rappresenta una situazione simile a quella immaginata da Montale). Probabile, d’altra parte, è una “fonte” non letteraria ma cinematografica: il film Sogno di prigioniero (1935) di Henry Hathaway (titolo originale, Peter Ibbetson, tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1891 dallo scrittore franco-britannico George Du Maurier) interpretato da Gary Cooper e Ann Harding (cfr. Scaffai 2012). Oltre al titolo, altri elementi accreditano il confronto. Per esempio, nella parte finale, sia del libro sia del film, il protagonista è chiuso in una cella ma vive una seconda vita fuori dal tempo e dallo spazio, in un sogno condiviso con l’amata duchessa di Towers. Molti fotogrammi nella sequenza della prigionia, inoltre, mettono in evidenza la paglia su cui è adagiato il prigioniero, le lampade che illuminano a stento la cella, i giochi della luce che penetra attraverso le sbarre. Il protagonista del film, delirante e malato come il personaggio montaliano, vive in uno stato di attesa indefinita, in una dimensione in cui davvero «il secolo è il minuto», cioè dove il tempo non ha la stessa durata che ha nella realtà. Nel complesso, questi precedenti letterari e cinematografici contribuiscono a situare la condizione del protagonista in uno scenario di maniera, costruito non tanto per mascherare i referenti quanto per proiettare la vicenda su uno sfondo senza tempo, lontano dalla contingenza e dal presente di una Storia che ha esaurito le sue possibilità.

Metrica – Al verso iniziale staccato seguono quattro strofe, rispettivamente di nove, sette, tredici e quattro versi, di misura compresa tra le otto (vv. 4, 18, 21, 25) e le tredici sillabe (vv. 1, 11, 28). La presenza di un verso isolato, quasi in funzione di epigrafe, individua la situazione che fa da contesto alla poesia  e accomuna Il sogno ad altri componimenti montaliani, in particolare a Ballata scritta in una clinica.

Se la «combinazione dei versi è irriducibile a qualsiasi categoria strofica tradizionale» (Bozzola 2006), meno sfuggente è la dominante versale. Non sembra necessario rinunciare a «una lettura metrica secondo tradizione», considerando «parimenti “versi liberi” tanto i versi regolari come quelli non tradizionali» (Bozzola 2006, che fa riferimento a Maruccelli 1979); la dialettica tra misure canoniche e variazioni può anzi corrispondere, sul piano metrico, al cozzo di tragico e comico che ad altri livelli (quello lessicale, soprattutto) caratterizza la poesia. Alla maggioranza assoluta di endecasillabi regolari si accompagna una presenza consistente di altre misure ampie: un decasillabo (v. 10) e vari versi di dodici sillabe, più spesso considerabili endecasillabi ipermetri (vv. 2, 19, 20, 27). Spesso, inoltre, l’endecasillabo si giova del contributo più o meno dissimulato portatogli in dote da quei versi lunghi che al loro interno contengono porzioni a maiore.

Contraddicendo una tendenza che caratterizzerebbe il sistema metrico del terzo libro, nel quale le rime appaiono «in minor numero e meno esibite» (Soldani 1989), il Sogno del prigioniero ostenta una gran quantità di richiami. Una prima serie di rime, quelle che scandiscono inizio e fine delle strofe, ha funzione soprattutto strutturante: piedi : battifredi, pestilenziali : ali, perché : pâté, ricaduto : minuto, farcito : finito.  Una seconda serie ha piuttosto una funzione espressiva; è il caso delle rime interne, molte delle quali ravvicinate: storni : giorni, girarrosti : supposti, purga : obiurga, dura : abiura, mente : pungente, forni : attorno (imperfetta all’atona, a cui si accoda al v. 27 orizzonti). Alle rime si aggiunge una serie di fenomeni collaterali che contribuiscono alla sonorità battente e ‘ingenua’ della poesia: la rima imperfetta zigzag : crac; l’assonanza schiacciate : cave; l’allitterazione BATTifredi : BATTaglia.