Il desiderio della lirica. Poesia, creazione, conoscenza

da | Feb 7, 2017

Esce in questi giorni per Carocci il saggio Il desiderio della lirica. Poesia, creazione, conoscenza, in cui si indaga la creazione poetica come strumento di inesausta e incompiuta conoscenza del mondo dal punto di vista della soggettività singolare. Qui un’anticipazione tratta dall’introduzione, intitolata “L’arrivo della poesia o l’iniziazione del poeta”, in cui si sollevano le questioni affrontate nel libro e si tracciano le coordinate che guidano il percorso che dall’antica Grecia arriva fino al Montale di “Satura” in una visione unitaria della lirica nella tradizione europea. Pur nelle innegabili trasformazioni storiche del genere, una certa forma del desiderio sembra mostrare una sua costanza.

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Rispondendo all’ingenua domanda del rapsodo Ione, Socrate afferma che la poesia è un intero e si può comprendere, pervenendo a un’idea di essa, soltanto se esaminata nella molteplicità che costituisce la sua interezza. Per questo Platone, attraverso la voce di Socrate, nega al povero Ione, il quale padroneggia unicamente l’opera di Omero, il possesso di una conoscenza razionale – relativa quindi all’epistéme – della poesia (Ione 532 c8-9, in Platone, 2001). Un principio simile è alla base di questo saggio sull’origine della voce poetica: per capire i meccanismi sottesi alla genesi della poesia bisogna allargare lo sguardo su un panorama il più vasto possibile. Oltre alla pluralità degli autori, per Platone la globalità del fenomeno poetico include anche il circolo di produzione, trasmissione e fruizione del testo e i suoi problematici effetti psicologici e sociali. Qui per totalità si intende una prospettiva che si estenda all’intera tradizione europea di un genere particolare: la poesia lirica; naturalmente per campioni accuratamente selezionati e nelle sue articolazioni principali, visti però come una continuità di ricezione e produzione in perpetua trasformazione, ma lungo una serie di linee che possono essere seguite nel tempo come modalità dell’espressione umana nelle sue metamorfosi e nelle sue permanenze, nelle sue costanti e nelle sue innovazioni. Come si vedrà, infatti, il nesso tra produzione e fruizione si inserisce nell’articolarsi del fenomeno della creazione.

Parlando dell’origine della poesia viene immediatamente alla mente l’idea di ispirazione, concetto estremamente longevo e di straordinaria vaghezza. Si può fare una preliminare distinzione in tre significati principali:

– un evento psicologico e biografico della mente e nella vita del poeta;
– una nozione della teoria estetica (che si affianca a quelle di entusiasmo e genio);
– un topos letterario che si ripete evolvendosi almeno per tre millenni.

Questo studio non si occupa direttamente dei primi due significati, sui quali esiste una bibliografia enorme, ma si concentra sul terzo per come viene impiegato nel genere o macrogenere della poesia lirica, in altre parole su come il soggetto lirico descrive l’arrivo o la genesi della poesia in se stesso. L’intenzione è quella di indagare, all’interno delle opere, i momenti metapoetici in cui il soggetto fornisce al lettore una descrizione o un breve racconto dell’evento che, spesso, contraddice l’elaborazione teoretica portata avanti in altre scritture dai poeti stessi o dai teorici contemporanei.

Il titolo di questa Introduzione, L’arrivo della poesia o l’iniziazione del poeta, non indica, quindi, alcuna indagine sulla fonte mistica o sovrannaturale della poesia da rintracciarsi al di fuori del testo, ma l’inclusione di questa genesi nel testo stesso, esplicita o implicita che sia nel singolo caso. È una struttura retorica nel discorso lirico, uno spazio del testo dedicato a veicolare alcuni significati specifici e a realizzare alcuni obiettivi particolari: a) conferire autorità alla voce; b) posizionare il soggetto nei suoi campi etici, morali, politici, culturali e letterari; c) negoziare la relazione tra il soggetto e il suo pubblico, o almeno ipotizzarne una; d) definire il tipo di poesia che si sta scrivendo e guidare quindi le aspettative del fruitore. Questa struttura, questo spazio testuale funzionalizzato, può essere riempito di differenti motivi e figure retoriche: l’invocazione alle Muse, l’affermazione del talento naturale o della tecnica acquisita del soggetto, le esperienze interiori o esterne sofferte, i riferimenti al retroterra culturale. Le due possibilità date nel titolo segnano i due estremi di una linea continua lungo cui si collocano le occorrenze concrete, i singoli testi: dalla poesia vista come proveniente da una sorgente esterna (divina o comunque trascendente) che si impone su un soggetto passivo a una poesia che nasce dall’interiorità del soggetto, magari frutto delle esperienze personali vissute.

[…]

L’idea romantica di genio, osserva Drummond Bone, porta con sé il problema di un assoluto finito, in altre parole «può essere vista come uno dei tentativi del periodo di realizzare un assoluto secolare»; dietro questo «prometeico sostituto per la divinità», posto al di là delle normali categorie di giudizio, giace «il vuoto di ogni assoluto noumenico» (1989, p. 114, trad. mia). Come giustamente evidenzia Bone:

Nell’invocazione del ‘genio’ abbiamo l’ultima articolazione di qualunque tipo di distinzione, propriamente ‘genio’ non denota la presenza di un attributo o di identità, ma l’assenza di attributo e identità. Appartiene piuttosto al silenzio (o al vuoto) e alla fede (o al dubbio) che al linguaggio e alla comprensione. La conclusione logica di ciò è, naturalmente, che il vero genio naturale potrebbe bene essere silenzioso (ivi, p. 117, trad. mia).

Il genio abolisce il particolare, e quindi «le basi di un giudizio ragionato, nella ricerca dell’universale»; l’«universalità del genio trascende ogni limitazione di singolarità. Deve essere tutto» (ivi, p. 118, trad. mia). Per questo, forse, sarebbe più assimilarlo allo spirito come potere ispirativo che al poeta chiamato a riceverlo.

Riflessioni sulla non-individuazione del genio si rintracciano anche in Samuel Taylor Coleridge. Nella sua Biographia Literaria (II, I, 30) si trova una descrizione del genio come colui che abita nel mondo ideale e il suo self è inversamente proporzionale alla precisione e alla potenza delle immagini e dei pensieri associati ai suoi sentimenti. Il genio, spiega Bone, è un’astrazione sia dall’identità personale sia dal mondo fisico, è la dissoluzione dell’individuale nell’universale e «in un mondo meramente personale l’universale apparirà inevitabilmente come la reductio ad absurdum della personalità», così «il genio dell’individualità potrebbe essere una rappresentazione ironica in un mondo caduto del genio dell’universalità nel mondo puro al di là» (Bone, 1989, p. 122, trad. mia). Uno dei punti fondamentali da cui parte questo studio è che il soggetto lirico, un soggetto umano, non può e non deve coincidere né con questo modello di genio né con il poeta ispirato dal dio, perché per portare avanti la sua ricerca nell’esperienza su questa terra e attraverso il linguaggio umano non può dissolvere la sua individualità, e quindi perdere la sua umanità, né nell’universalità naturale né nella volontà divina. Lo stesso Coleridge altrove rifiuta questa concezione della creatività, ad esempio quando scrive nella lettera a Lady Margaret Beaumont del giugno 1814:

La totalità di tutta l’eccellenza intellettuale è buon senso e metodo. Quando questi si sono trasformati nella prontezza istintiva dell’abitudine, quando la ruota si muove così rapidamente che non possiamo affatto vederla muoversi, allora chiamiamo la combinazione Genio. Ma in tutti i modi, e in tutte le professioni, le due sole parti componenti anche del Genio sono BUON SENSO e METODO (Coleridge, 1969, II, p. 268, trad. mia).

Anche il genio è una costruzione di cui si possono individuare le «componenti», non una voce già assurta alla dimensione dell’impersonale. Inserire i concetti di giudizio e metodo nel discorso romantico consente di indagare (tecnicamente) questo discorso, apparentemente assoluto e irrazionale, come volontà e desiderio di una trascendenza. Se non lo si considera già posto al di fuori delle categorie dell’umano, al genio si possono attribuire decisioni soggettive e consapevoli (Bone, 1989, pp. 124-5).

Naturalmente, tutto ciò non vuol dire risolvere ancora una volta, come nella trimillenaria oscillazione della tradizione critico-teorica, la poesia nella sua tecnica. La poesia come techne o, meglio, la techne della poesia contrapposta all’ispirazione o all’ingenium è un discorso poco produttivo per due ragioni: perché il poeta reale sa che non esiste poesia, e più in generale scrittura, senza le relative tecniche e perché, per il soggetto del testo, la tecnica – così intesa – appartiene alla realizzazione scritta della poesia come prodotto letterario, non alla sua genesi interiore (cfr. Fehrman, 1980). Lo stesso Dylan Thomas, in polemica con i Surrealisti, scrive nel suo Poetic Manifesto (1951):

Non mi importa da dove vengano tratte le immagini di una poesia: estraetele, se volete, dal mare più basso dell’oscuro sé; ma prima che raggiungano la pagina devono attraversare tutti i processi razionali dell’intelletto. I Surrealisti, d’altro canto, mettono insieme le loro parole sul foglio esattamente come emergono dal caos; non danno loro ordine o forma; per loro il caos è forma e ordine. Questo mi sembra estremamente presuntuoso… Una delle arti del poeta è di rendere comprensibile e ben articolato quel che può emergere dalle sorgenti del subconscio; uno dei grandi scopi principali dell’intelletto è selezionare, dalla massa amorfa delle immagini del subconscio, quelle che favoriscono di più i suoi fini immaginativi, cioè scrivere la poesia migliore possibile (1971, pp. 159-60, trad. mia).

Un’idea condivisa anche da William Butler Yeats: per risultare efficace la poesia deve essere cosciente di sé e il lavoro del poeta non deve consistere semplicemente nel portare sulla pagina le immagini fluttuanti nel subconscio, bensì nel sottoporle a un adeguato processo razionale di selezione per farne uso con uno scopo. Certamente si può dare una fase iniziale in cui si estraggono le cose scoperte in qualche profondità interiore, ma la fine – e il fine – è nello style di Yeats e nel craft di Thomas. In fondo anche le cadavre exquis dei surrealisti è una tecnica, le parole possono provenire dal subconscio ma il criterio associativo sulla carta o il principio stesso di accettare questa associazione come di per sé significativa sono stabiliti dai poeti che vi prendono parte. Le cadavre exquis si può concepire non soltanto come una tecnica per far emergere contenuti imprevedibili dal profondo, ma soprattutto per disporli sulla pagina in un ordine “casuale” facendo affidamento sul fatto che il lettore, posto di fronte a una serie di parole, tende comunque a costruire senso. Anche senza pervenire ad alcun senso stabile, ordinato e comunicabile, l’operazione interpretativa si attiva.

Quello che si vuole indagare non è il rapporto tra ars e ingenium, quanto la spinta iniziale, l’energia originaria che porta il soggetto a comporre versi così come tale urgenza viene descritta nei versi stessi. Con l’idea che al fondo della pratica creativa si agiti un desiderio conoscitivo, come indicato da Allen Tate in Narcissus as Narcissus (1938):

Mi sembra che i miei versi e quelli di chiunque altro siano semplicemente un modo di conoscere qualcosa: se la poesia è davvero una creazione, è una specie di conoscenza che non possedevamo prima. Non è conoscenza “su” qualcos’altro; la poesia è la pienezza di quella conoscenza. Conosciamo la poesia particolare, non quel che dice che noi possiamo riesporre. Per così dire, la poesia è il suo stesso conoscitore, né il poeta né il lettore sanno nulla di quel che la poesia dice a parte le sue parole (Tate, 1952, p. 139, trad. mia).

E che nella scrittura poetica si compia un’esperienza estetica, nel senso di un tentativo di formalizzazione dell’informe ricevuto dalla percezione: «Quella che in precedenza era una qualità della vita semplicemente provata è stata innalzata al livello dell’esperienza – è diventata specifica, particolare, marcata, “formale” – vale a dire, in-formata» (ivi, p. 141, trad. mia).

L’ipotesi è che questa dinamica sia particolarmente chiara nella poesia lirica, anzi che diventi strutturante per il genere (o macro-genere o modo) con modalità piuttosto specifiche. Si insegue perciò, nel corso dei secoli, l’idea che «la lirica desidera la fusione con il mondo; quel che ottiene è un discorso integrato» (Zwicky, 1992, p. 529, trad. mia). Dopotutto,

L’impulso lirico è responsabile di una certa intensità dell’esistenza – una informata dall’irraggiungibile ideale di una vita satura di senso. Ma abbandonare del tutto questa possibilità significa abbandonare la speranza, soffrire una particolare forma di morte. […] Finché si è guidati dal bisogno di integrazione, ammettere la disintegrazione nella modalità fondamentale della realtà umana significa ammettere che il proprio modo di essere al mondo non può mai trovare pace nel mondo (ivi, p. 532, trad. mia).

E, infine, che «la lirica incarna il desiderio di significare perfettamente» (ivi, p. 420, trad. mia). A patto, però, di porre l’accento proprio sul desiderio incarnato dal testo come performance mai pienamente compiuta più che sull’effettività della sua completa realizzazione.

Note:

Bone D. (1989), The Emptiness of Genius: Aspects of Romanticism, in P. Murray
(ed.), Genius. The History of an Idea, Basil Blackwell, Oxford, pp. 113-27.

Brewster S. (2009), Lyric, Routledge, Abington-New York.

Casadei A. (2011), Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano.

Coleridge S. T. (1969), Biographia Literaria, edited by J. Shawcross, Oxford University Press, London (revised edition).

Culler J. (2015), Theory of the Lyric, Harvard University Press, Cambridge (MA).
Fehrman C. (1980), Poetic Creation. Inspiration or Craft, translated by K. Petherick, University of Minnesota Press, Minneapolis (ed. or. Diktaren och de skapande ögonblicken, P. A. Norstedt and Sons, Stockholm 1974).

Platone (2001), Ione, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano.

Stockwell P. (2002), Cognitive poetics. An Introduction, Routledge, London-New York.

Tate A. (1952), Narcissus as Narcissus, in B. Ghiselin (ed.), The Creative Process.
A Symposium, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, pp. 137-47.

Thain M. (2013), The Lyric Poem. Formations and Transformations, Cambridge University Press, Cambridge.

Thomas D. (1971), Early Prose Writings, edited by W. Davies, J. M. Dent and Sons, London.

Zwicky J. (1992), Lyric Philosophy, University of Toronto Press, Toronto.

Immagine: Roy Colmer.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).