Dancing in Odessa

da | Mag 31, 2022

Esce oggi il numero 10 di maggio-agosto 2022 della sesta serie di “Nuovi Argomenti”. Nella sezione poesia abbiamo proposto alcune traduzioni inedite di Giorgia Sensi dal libro “Dancing in Odessa” del poeta ucraino Ylya Kaminsky, uscito per Faber&Faber nel 2021. Pubblichiamo tre testi in anteprima.

 

PREGHIERA DELL’AUTORE

Se parlo per i morti, devo lasciare
questo animale del mio corpo,

devo scrivere e riscrivere la stessa poesia,
perché una pagina vuota è la bandiera bianca della loro resa.

Se parlo per loro, devo camminare sull’orlo
di me stesso, devo vivere come un cieco

che corre attraverso le stanze senza
toccare i mobili.

Sì, vivo comunque. Attraverso le strade chiedendo ‘In che anno siamo?’.
Posso danzare nel sonno e ridere

davanti allo specchio.
Perfino il sonno è una preghiera, Signore,

io loderò la tua pazzia, e
in una lingua non mia, parlerò

di musica che ci sveglia, musica
in cui ci muoviamo. Poiché qualunque cosa io dica

è una specie di petizione, e i giorni più bui
li devo lodare.

 

ZIA ROSE

In uniforme militare, con gli zoccoli, danzava
alle due estremità della giornata, mia zia Rose.
Suo marito ha salvato una donna incinta

dalla casa in fiamme – sentì delle risate,
la piccola artiglieria di ogni giornata – in quell’incendio
si bruciò i genitali. Mia zia Rose

prese i bambini di altre persone – schioccava la lingua mentre piangevano
e August tirava le tende una sera dopo l’altra.
La vedevo, gessetto in mano,

scrivere le lezioni su una lavagna vuota,
la sua mano si muoveva e la lavagna restava vuota.
Vivevamo in una città sul mare ma c’era

un’altra città sul fondo del mare
e solo i bambini del posto credevano alla sua esistenza.
Lei credeva a loro. Appese il ritratto del marito

su una parete del suo appartamento. Ogni mese
una parete diversa. La vedo ora con quel ritratto,
martello nella mano sinistra, chiodo in bocca.

Dalla sua bocca un odore di aglio selvatico –
si muove verso di me in pigiama
discutendo con me e con sé stessa.

Le sere sono la mia prova, questa sera
in cui lei immerge le mani fino ai gomiti,
la sera le dorme dentro la spalla – la sua spalla

accerchiata dal sonno.

 

 

DANZARE A ODESSA

Vivevamo a nord del futuro, i giorni aprivano
lettere con la firma di un bambino, un lampone, una pagina di cielo.

Mia nonna lanciava pomodori
dal balcone, mi tirava l’immaginazione come una coperta
sopra la testa, io dipingevo
il volto di mia madre. Lei capiva
la solitudine, nascondeva i morti nella terra come partigiani.

La notte ci svestì (ne contai
il battito) mia madre danzò, riempì il passato
di pesche, di stufati. A questo, il mio dottore rise,
sua nipote
mi toccò la palpebra – io le baciai

il retro del ginocchio. La città tremò,
una nave fantasma salpava.
E il mio compagno di classe inventò venti nomi per ebreo.
Era un angelo lui, non aveva nome,
lottammo, sì. I miei nonni combatterono

i carri armati tedeschi sui trattori, io tenevo una valigia piena
di poesie di Brodsky. La città tremò,
una nave fantasma salpava.
Di notte mi svegliai per sussurrare: sì, vivevamo.
Vivevamo, sì, non dire che era un sogno.

Alla fabbrica locale mio padre
prese una manciata di neve, me la mise in bocca.
Il sole cominciò una narrazione consueta,
sbiancando i loro corpi: madre, padre danzavano, si muovevano
mentre l’oscurità parlava dietro di loro.
Era aprile. Il sole lavava i balconi, aprile.

Io racconto di nuovo la storia che la luce incide
nella mia mano: Libriccino, vai in città senza di me.