Cristina Campo e Vittorio Sereni, amici e maestri di brevità

da | Set 2, 2014

Roma, 29 marzo 1960

Caro Sereni,

grazie per la sua lettera. L’incidente Feltrinelli è stato dunque salutare: ne scrissi a Foà che si affrettò a concludere. È incredibile come la gente abbia bisogno di spaventarsi per decidersi a fare il proprio vantaggio.

Ora i problemi sono due: i pezzi tradotti da Paterson e dalla Desert Music e la prefazione, che neanch’io ho voglia di scrivere. Mi pareva che al suo libro di traduzioni lei avesse premesso qualche parola e avevo suggerito a Foà di riunire le due raccolte così com’erano, ciascuna con la sua breve introduzione (e magari precedute da una nota dell’editore). Mi pareva la cosa più fresca e la più naturale, visto che entrambi i libri erano nati come ‘privati colloqui’.
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Con amicizia mi creda Sua Cristina Campo
(inizio di una delle lettere di Cristina Campo a Vittorio Sereni)

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Nella mia biblioteca, allineato ad altri libri di William Carlos Williams, c’è sempre stato il volume delle sue poesie, con il semplice e didascalico titolo Poesie. Tradotte e presentate da Cristina Campo e Vittorio Sereni, nella ristampa del ’67 (la prima edizione, sempre da Einaudi, tutta bianca avorio, è del ’61) e certo comprato qualche anno dopo, su una bancarella romana. In sovraccoperta un primo piano in bianco e nero del poeta, la camicia con il colletto slacciato sotto un giubbotto più scuro, gli occhiali dalla montatura nera, lo sguardo in tralice attento e scrutatore, sullo sfondo alberi scuri che gettano ombre di foglia sul bavero.

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Certo questo libro ha sempre suscitato in me un certo stupore, nella sua singolare forma di Giano bifronte, dove le Poesie sono tradotte e presentate da due autori, Cristina Campo e Vittorio Sereni, che più lontani, almeno di primo acchito, non si potrebbero immaginare. Lui dieci anni di meno, fine e riservato, nordico di «frontiera», calato per necessità nei meandri del potere editoriale, lei giovane donna, brillante e appassionata, nella fase del suo fulgore creativo minato da una salute da sempre fragile, fiorentina di formazione e romana di adozione, lontana da ogni forma di potere letterario, come spesso accade alle donne magari per scelta e non solo per impossibilità, ma ben decisa con indomito spirito a trattare da pari a pari con le migliori menti del suo tempo, a far avanzare le sue perentorie convinzioni su quello che in poesia può valere o non valere, a rivaleggiare in qualche modo con i grandi che amava leggere o incontrare, di persona o per lettera. Sereni e la Campo distanti lo sono certamente stati, eppure tutti e due alle prese con la costruzione del proprio tempio, intensi e raffinati. Determinati nel prestare alle cose la massima «attenzione», senza negarsi possibili varchi invisibili a occhio nudo, ben intenzionati ad aprirsi alle correnti del mondo traducendo poeti stranieri, in particolare americani, ancora sull’onda di una tendenza del dopoguerra.

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Certo stupisce che nell’immensa bibliografia di questi ultimi due decenni su Cristina Campo e negli studi su Vittorio Sereni, numerosi sempre e in particolare in quest’ultimo anno, a non molti sia venuta la curiosità di andare a scandagliare non dico le lettere di cui si sapeva appena l’esistenza, cosa già molto strana, ma almeno questo libro-colloquio a tre specchi, tra due grandi poeti italiani e un terzo americano.1 Un libro visto con inevitabile considerazione ma pur sempre come uno strano intruso nel mondo letterario dell’epoca. O strano, più che il libro, quella strana coppia.

Cosa ci dicono dunque le lettere intercorse tra Vittorio e Cristina? Per la prima volta le abbiamo lette, permettendoci così di andare a rovistare nel backstage di un lavoro letterario tanto importante.

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Ben 21 lettere di Sereni e 50 della Campo, a quel che mi risulta, scritte tra il 1955 e il 1967, in gran parte manoscritte su carta bianca le lettere di Cristina o dattiloscritte con firma. Ma la corrispondenza è in gran parte concentrata tra il ’60 e il ’64, negli anni del miracolo italiano.

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Nel 1958 erano uscite da Scheiwiller, in mille copie, le traduzioni della Campo di Williams, con un bellissimo titolo, Il fiore è il nostro segno (da un verso di To All Gentleness), per questo «sgorgo di fiori», come lei lo chiama, per questo «libriccino» d’argomento floreale, un fiore per ogni poesia. Un verso di WCW, come lei chiama Williams, trasformato maliziosamente in comune pensiero all’insegna della bellezza e, implicitamente, della caducità. Una mini-plaquette color avorio di sedici poesie, che sta nel palmo di una mano, sulla copertina un disegno cinese verde e rosso, Bulbo di narciso, camelia e fiori di prugno, certamente voluto da lei, sempre attenta alla fattura artigianale di quello che scriveva. Ma più che una mini-plaquette pare uno scrigno di commovente bellezza che contiene gioielli-poesie offerti in dono. Le era stato segnalato da Margherita Dalmati, grande amica di famiglia e musicista greca, quel poeta americano e l’11 settembre del ’57 scrive a Mita di «un poeta che è stato con me sul lago e in queste notti». Le piace subito, le piace quel verso emblematico di WCW, «Sassifraga è il mio fiore, che spacca / le rocce», che conclude A Sort of a Song, quasi con una specie di grido, un riprendere fiato dopo il flusso delle parole, che sancisce la nascita della poesia stessa. L’anno precedente, in totale e felice casualità, erano uscite alcune poesie di Williams tradotte da Vittorio Sereni, nelle piccole Edizioni del Triangolo, precedute da altre su rivista.

Tuttavia è di Cristina l’idea di unire i due lavori in un nuovo progetto editoriale a cui Sereni aderisce prontamente. Ed è di Cristina il contatto per corrispondenza con il poeta americano, come bene illustra la ristampa del volume de Il fiore è il nostro segno nel 2001. Williams, entusiasta delle versioni di Cristina, così commenta in una lettera del 18 febbraio 1959: «Non pensavo che nessuno in questo mondo mi avrebbe mai potuto scoprire nei miei libri come ha fatto lei, né che qualcuno si sarebbe mai curato di fare tanto per me. Lei mi ha rovesciato come un guanto, mi ha interamente messo a nudo, e io non mi sento nemmeno a disagio». E in modo mirabile conclude la lettera: «Quando un uomo si tuffa tra la gente che gli sta attorno come un medico cerca i suoi pazienti, è perché si abbia cura di lui, per affondare nell’umanità, per trovare sollievo. È un rito segreto, ma lei mi ha scoperto».

La Campo ha visto in Williams «occhi da incisore» e sensibilità di «cinese antico» ma anche un’anima ibrida fiabesca, multietnica per le sue origini miste, tanto da farle intravedere, dietro ai suoi fiori colorati e minuziosamente descritti, il rinascere dalle rovine del bellissimo fiore azteco. E vuole ricavarne, come lei stessa scrive nell’introduzione al libro e come sua consuetudine, il «sapore massimo della parola», non parola semplicemente d’uso ma concentrazione al massimo di forza, senso e bellezza.

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Cosa ci vede Sereni nel più anziano poeta americano? Per primo, come scrive nell’introduzione alle Poesie, l’attitudine «a sviluppare interiormente verso la pienezza del significato il dato grezzo e bruciante di una sensazione o di un sentimento iniziale». Quasi ogni poesia di Williams «è, nella menzione della cosa osservata e nella fedeltà al corpo e ai contorni di essa, un esito della dilatazione della cosa osservata». E nell’essere «voyant e sperimentale al tempo stesso» quando accoglie elementi che provengono dall’esperienza diretta del mondo, dalle «cose viste e udite». La passione di Sereni negli anni per WCW nasce da un’affinità naturale: «La poesia di Williams non è poesia di idee, ma è poesia che fa nascere le idee dalle cose». Come non pensare dunque alla traduzione a cui tanto teneva e che si è voluto assicurare, nella lettera a Cristina del 24 marzo del ’60, della poesia The Desert Music? Una poesia che si rivelerà un giacimento creativo per Un posto di vacanza. L’occasione del rinnovamento di sguardo sulle cose, ma anche per un cambiamento grafico e metrico della propria poesia (per esempio nella metrica scalare), prendendo spunto dalle consuete escursioni visive-spaziali di Williams sulla pagina bianca per riportarle magari al proprio ordine. Tanto più che nella sua densa e rivelatrice introduzione alle Poesie di WCW più volte cita questa lunga poesia, incubatrice di fermenti ed emblema non solo di un suo attraversamento del deserto (al tempo della prigionia in Africa), ma di un ampliamento sonoro a partire dalle cose stesse del deserto. Da qui nasce la sua musica nel deserto, messa in opera di quel procedimento della «dilatazione» di cui Sereni parla a proposito, questa volta, della propria poesia. E come non sottoscrivere con Sereni quanto Williams scrive di quella poesia nella stessa lettera a Cristina: «…il quadro della regione desertica attorno a El Paso era vivo in me. Avevo attraversato il deserto e visto il deserto. È sempre importante per me la familiarità con le cose di cui scrivo».

Il carteggio ha sfaccettature varie che ci danno il polso di vite parallele. La «testarda etrusca», come lei stessa si considera, si entusiasma, suggerisce e trascina implacabile in una impresa di straordinaria fattura. Il più schivo Sereni, forse ammirato o disorientato dalla fragilità e dall’energia di Cristina e dalla sua singolare maestria, accoglie suggerimenti e consigli, e obietta solo quando necessario, attento al pubblico da uomo di editoria qual è. Come quando, indirettamente tramite Foà, chiede forse con più naturale modestia che le traduzioni vengano mischiate e non restino due parti a sé stanti, come avrebbe preferito Cristina, con l’inevitabile risultato di un confronto tra i due traduttori «non utile» al libro.

Dunque le versioni di Williams preesistono, autonome e indipendenti, senza alcuna interferenza, ciascuna con le sue evidenze lessicali e sintattiche, con le inevitabili peculiarità d’autore. Come scribi egiziani che si fronteggiano divisi tra una scrittura ieratica e una scrittura demotica, la Campo e Sereni impastano versi e sillabe di un Williams memorabile.

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Affini certo lo furono anche per il gusto indomito dell’understatement coltivato da Sereni e per il piacere analogo della sprezzatura, tipicamente italiana, che la Campo ama rinverdire. Certamente amano seguire nella scrittura la regola della sobrietà e della discrezione, che non antepone l’io a tutto il resto. Pronti in modo diverso a defilarsi dalla fiumana, non per aristocrazia ma per pudore e la precisa scelta di stare su un confine invece che al centro, per conservare la forza germinativa della poesia stando ai margini. Regola quest’ultima inattuale nel tempo odierno di internet che offre la piazza a chiunque voglia confessarsi o a chiunque voglia giudicare, e tuttavia preziosa per togliere lo sgabello a chiunque voglia salirci. «Esile mito», ha detto Fortini a proposito di Sereni e tanto più si potrebbe dire della Campo. Esili miti, da una parte la straniera nel mondo e dall’altra l’uomo di “frontiera”, ma quanto potenti!

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Un tratto di strada Sereni l’ha fatto dunque anche con Cristina Campo. Insieme «per dire… / per collocarmi… / per imitare…», traducendo da The Desert Music, attraversando il proprio deserto. Dalla traduzione zampillano significati e fermenti perché ogni poesia di Williams, con il suo destino, è, come scrive Sereni nella sua Lettura, «un autonomo organismo vivente». E può anche capitare che la traduzione aiuti a trovare quello che già è dentro di sé, pronto a erompere alla luce, o perfino, in quella misteriosa relazione tra specchiato e specchiante, che i ruoli si invertano, perché il traduttore può avere già prefigurato in sé quello che troverà nel tradotto, come accade tra amante e amato. Come il tema della città e delle sue luci, caro a Williams, che già era di Sereni nella poesia Città di notte da Diario d’Algeria, o della discesa agli inferi di Proserpina-Kora strappata alla terra e alla madre, come in Versi a Proserpina di Frontiera e in Kora in Hell. Che poi Williams abbia tradotto i Feuillets d’Hypnos di René Char per Random House nel ’56 (e di Char sia stato amico) è un’altra storia da raccontare altrove.

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Ho scritto anni fa una prosa su Orazio, Amo il mio tempo, ispirandomi per il titolo alla Campo. Lo amo per fedeltà e perseveranza, perché è il mio tempo che voglio rispettare, anche se è la fiaba perduta, ma non pensavo a Sereni. Ci penso ora che leggo un suo verso e anche il mio amore per il mio tempo si è un pochino incrinato: «Non lo amo il mio tempo, non lo amo».

Roma, 20 dicembre 2013-27 gennaio 2014

(da Cristina Campo e Vittorio Sereni, amici e maestri di brevità, in Il destino della bellezza. Omaggio a Cristina Campo (1923-1977), a cura di Antonio Motta, “Il  Giannone”, n. 23-24, 2014, pagg. 180-201.)

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).