Cercando verità nel paradosso: l’esperienza di Giampiero Neri

da | Dic 27, 2021

“Schivo e appartato”, se si riporta un’impressione caratteriale di Umberto Fiori, pronto ad aggiungervi “l’intensa cautela, l’acuta perplessità”; il più “in ombra dei nostri grandi”, ad ascoltare Andrea Cortellessa; ma anche “estraneo, autonomo, nobilmente sfasato” (secondo Maurizio Cucchi) rispetto non solo alle poetiche della sua generazione ma anche alle direzioni dominanti del secondo Novecento: forse Giampiero Neri – alias Giampietro Pontiggia – è innanzi tutto un poeta originale e in certo modo unico. E lo è per tutto il lungo arco della sua storia d’autore: non certo precoce (“Ho cominciato a scrivere tardi, verso i miei trent’anni”), se è vero che il primo libro, L’aspetto occidentale del vestito, lo pubblica ormai quasi cinquantenne da Guanda, nel ’76. Neri però è un autore ancora pienamente attivo (e poeticamente vivo), se con uno degli ultimi libri in ordine di tempo, Via provinciale, ha festeggiato nel 2017 quei novant’anni che hanno assicurato un meritatissimo e tutt’altro che nominale ruolo di decano della nostra poesia a lui, nato nel fatidico 1927: fatidico perché è l’anno che dà nome alla straordinaria generazione di poeti (e non solo) spagnoli, che – centrale al secolo, col suo Surrealismo allegorico e musicale insieme – comprendeva fra gli altri Lorca e Alberti, Guillén e Salinas, Dàmaso Alonso e Aleixandre, oltre naturalmente ad Antonio Machado.

    In realtà, l’unicità (e fino a un certo periodo quasi l’insularità) espressiva oltre che gnoseologica dell’opera di Neri non è stata affatto motivata da ragioni familiari né di provenienza geografica: suo fratello, minore di sette anni, era Giuseppe Pontiggia, uno dei protagonisti giovani dell’avanguardia più libera e sperimentale dei primi Sessanta e poi uno dei narratori, aforisti e saggisti più colti e polifonici della nostra scena letteraria fra i tardi Sessanta e il passaggio di secolo. Anche se i rapporti personali fra di loro non sono stati sempre fluidi e armoniosi, i due fratelli non hanno mai smesso di essere reciprocamente i primi giudici e interlocutori delle rispettive scritture letterarie.

    A tale naturale centralità, domestica e definibile solo a posteriori attraverso il protagonismo di Giuseppe Pontiggia nella nostra scena letteraria, si deve aggiungere subito il dato geografico, in virtù del quale Neri, nato ad Erba in provincia di Como, si è trasferito ancora ventenne a Milano, dove ha intrapreso il lavoro di bancario a causa delle improvvise ristrettezze economiche provocate dalla guerra, dopo essersi iscritto alla facoltà di Scienze naturali. Di là dall’estraneità insieme istintiva e ontologica di Neri a una formazione e a una funzione di letterato professionale, la Milano dell’immediato dopoguerra era un luogo poeticamente e artisticamente vivissimo, un “centro delle cose” nonché crogiuolo non solo delle sperimentazioni della Neoavanguardia, col Pagliarani della Ragazza Carla e il lavoro di Porta e di Balestrini; ma anche di quella “scuola milanese” che continua ad agire positivamente entro il nostro milieu poetico e all’interno della quale Neri è ancora oggi figura incisiva tanto nelle vesti dell’autore quanto in quelle del lettore e dell’interlocutore epistolare o telefonico, modello operativo di poeti e intellettuali di volta in volta più giovani, da Santagostini a Rivali.  È davvero impressionante, infatti, constatare la vitalità pienamente attuale del magistero di Neri presso le generazioni poetiche ultime o ultimissime, come risalta da un percorso anche molto veloce fra i blog letterari più autorevoli. Non per un caso, le sue prime scritture, fra gli esordi nel ’65 sulla rivista “Il Corpo” promossa da Giancarlo Majorino e il ’76 del primo libro, avevano suscitato subito l’interesse critico e un’attenzione non di maniera da parte di Luciano Anceschi, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici.

    Il primo elemento davvero ex lege della sua formazione di poeta ben poco incline alle poetiche di gruppo riguarda la sua cultura letteraria, che certo non corrisponde a quella tradizionalmente, sistematicamente umanistica impartita da un Liceo Classico o da una Facoltà di Lettere, come invece accadde al fratello Pontiggia. Il padre Ugo era un bibliofilo, la madre amava e praticava il teatro e proveniva da una famiglia di artisti e così le letture del Giampiero giovane (un po’ come quelle dell’Eugenio Montale giovane) sono piuttosto eterogenee e comunque non finalizzate a un background letterario sistematico o tantomeno professionale.

    Nel processo formativo, di sicuro affiora in lui – grazie a un istinto versatile che sarà poi destinato a riprodursi lungo il corso della sua vita – un’attrazione per i libri e per gli autori che sanno orchestrare un rapporto diretto fra prosa e versificazione, quadro e scandaglio interiore orientato altrove rispetto all’epifania soggettiva di eredità simbolista. Perciò, nel gioco delle sue predilezioni, si stagliano scrittori quali Dante, Leopardi, Baudelaire cui però occorre aggiungere i maestri americani da Neri mai troppo esposti – eppure presenti nella sua ininterrotta endiadi di lettore/scrittore – come Ezra Pound, per il suo epos antilirico e antinovecentista, o come Eliot, per l’identificazione paradossale col suo lavoro di bancario, o come il poeta-filosofo-assicuratore Wallace Stevens.

    Un’originale, e in quel giro d’anni pressoché solitaria, inclinazione al prosimetro e al poema in prosa porta Neri ad apprezzare e a interiorizzare opere come lo Spleen de Paris di Baudelaire, le Illuminations di Rimbaud (anche se poi, per quanto concerne il mondo francese, occorre rilevare – accanto a quella degli archetipi – la presenza più sotterranea ma non meno rilevante del Francis Ponge del Partito preso delle cose, 1942) e i Canti Orfici di Campana, la cui rarissima princeps (Ravagli, 1914) gli sarebbe stata donata a sorpresa dal fratello Pontiggia. Ma accanto a questi non rivestono un’importanza per lui minore i Ricordi di un entomologo del naturalista francese Jean-Henri Fabre, compulsati nei loro dieci volumi ancora in età adolescente, e in seguito le opere e l’esperienza esistenziale di Beppe Fenoglio (per la capacità di trattare la Resistenza in modo affatto antiretorico oltre che per la singolare avventura umana) insieme con i grandi affreschi avventurosi di Melville, oppure – su tutt’altro piano – gli aforismi e le sentenze dell’antico saggio cinese Lao Tzu o del maestro buddhista tibetano Milarepa. Ma anche un libro protoesistenzialista come l’Aut-Aut (1843) di Kierkegaard è destinato a entrare presto nel frastagliato orizzonte culturale del poeta lombardo, col suo intreccio di vita estetica e vita etica.

    D’altra parte, già il brano inaugurale dell’opera di Neri, vale a dire l’incipit dell’Aspetto occidentale del vestito, è pienamente indicativo del primo tempo della sua scrittura, raccolto per aggregazioni progressive nel notevolissimo, per compattezza e originalità, Teatro naturale del ’98. L’attacco è esplicitamente metapoetico, con la domanda non retorica su cosa ne sia stato “di quei piccoli segni neri, immagine e somiglianza di un impegno continuo”, che coincidono col filo sottile della scrittura, crinale affacciato su una consapevolezza genetica di mortalità dell’essere vivente e di crudeltà propria di ogni consorzio sociale, con una sottigliezza, un’ironia, una precisione e insieme un’affabilità di dettato che fanno pensare a coevi maestri francesi del rapporto diretto – e aforisticamente indecidibile – fra la scrittura e la morte come Blanchot o Cioran, secondo il quale i grafemi “in una stretta compagnia dimorano, a forma di malinconici simboli, privi di vita”.

    Nulla, in questo Neri all’inizio, è tuttavia consequenziale o coerentemente narrativo, dal punto di vista delle armoniche di significato, e così i “piccoli segni neri” vengono sottoposti a un molteplice processo di metamorfosi, ora nella “linea immaginaria” di un orizzonte di “cattivo tempo” che si presenta “alle porte”; ora nella forma di un insetto “rovesciato sul dorso”, che “preme con impazienza davanti al tuo cortile”, con una conclusione che coinvolge le formiche descritte dall’entomologo Fabre, qui chiamato in causa col nome di battesimo “Jean Henri”, per affermare che quelle formiche “sono un capitolo chiuso”. L’io spesso manca, dai gangli originari dell’opera in fieri, e se di tanto in tanto affiora (fra pronunce impersonali o terze persone) non risponde ad alcuna identità né fisionomia unitaria di ordine psicologico. Così, gli scatti della memoria non portano alla minima agnizione o epifania, ma assumono la forma di brevi immagini che si stagliano per un attimo sulla parete opaca di un’attività onirica in atto, nella quale tutti i possibili assi temporali si riuniscono in “sincronicità” nel presente assoluto e filiforme della scrittura: la Guerra, per esempio non è solo la Seconda guerra mondiale, vissuta in prima persona dal poeta, che è irrimediabilmente colpito dall’omicidio del padre poche settimane dopo l’8 settembre 1943, ma anche la Prima, rievocata per esempio nella bellissima Val Rendena, Trentino.

    Nella poesia di Neri, in sostanza, il teatro naturale che ne è contesto e luogo di verifica (e che equivale a un mondo la cui unica possibile sostanza è scenica) pone automaticamente sullo stesso piano Storia e Natura (“Prima di tutto la storia insegna che la storia si ripete. La natura insegna allo stesso modo”, secondo un appunto d’autore del 2003), Mito e Cronaca, Teatro e Mondo reale, biografia evenemenziale e biochimica delle passioni e dei caratteri: tanto che per questa acquisizione, oggi che tutto aspira ad essere “biologico” anche in letteratura, Neri mostra di essere avanti di qualche decennio, rispetto al pensiero dominante degli anni Settanta, critico-teorico e spesso ideologico. Soprattutto, però, i referenti topici che si stagliano in primo piano nella sua opera coinvolgono il mondo animale (“… la presenza degli animali ha una funzione di somiglianza, di analogia con le nostre azioni”) e il mondo botanico, per una radice nomenclatoria non meno maniacale che in Pascoli, ma privata di qualsivoglia aura (o senso secondo) di matrice simbolista. La realtà animale, nello specifico, non si dà “come proiezione o segno di quella umana”, né tantomeno come “suo emblema araldico o intenerito riflesso lirico”, bensì come “realtà parallela e autonoma la cui instanza senza parola turba l’ordine consueto.” E se esiste un riferimento storico a una simile modalità, occorre cercarlo in quel capolavoro nascosto, fatto di prose né narrative né esplicitamente autobiografiche, bensì metafisiche tout court, che è Bestie (1914) di Federigo Tozzi.

    Certo, in Neri, non c’è alcuna possibilità di sviluppo coerente, perché la realtà può venir percepita solo al di fuori di ogni dialettica, entro un sistema in cui l’unica dinamica appartiene a un principio inesausto di metamorfosi e di agone in campo aperto: e la sua poesia, nell’evoluzione che porta al confine secolare di Teatro naturale, costruisce uno spazio “conchiuso”, così “come circolare e necessario è il cammino e l’incontro della vita con il male, con la ripetitiva, ossessiva violenza della storia e della natura.” . Infatti, per quanto concerne la dimensione etica, Bene e Male sono sempre, ciclicamente compresenti (Lucia e don Rodrigo non si elidono reciprocamente, ma convivono, sulla pagina di Neri), finendo per fronteggiarsi e  superarsi senza sosta, in totale sincronia: e anche la natura, gli animali, nella sua poesia, “agiscono in funzione del mimetismo, quel particolare camuffamento che serve a nascondere, a depistare”, con un comportamento molto simile a quello di noi esseri umani, che “amiamo sembrare quello che non siamo, a seconda delle circostanze”. Non c’è divenire, nella realtà da lui ritratta, ma una dimensione duale corrispondente a un sostrato gnostico (e comunque radicalmente antihegeliano), che accentua ancora di più il rapporto più o meno implicito con Montale e che fa sì che Neri stesso possa – in un’intervista degli ultimi tempi – riconoscersi come un creazionista pronto tuttavia ad ammettere che le singole specie vivono un processo evolutivo di tipo darwiniano.

    In definitiva, i paesaggi di Neri fondono insieme meraviglia e crudeltà, con un’intonazione sempre ironica ma anche affabile, asseverativa e tuttavia pronta ad abbandonarsi a uno stupor primigenio, consapevole della crudeltà che appartiene alla natura però mai fintamente bonaria o rassegnata a priori: orientata semmai alla conquista di una semplicità che – per ogni poeta del secondo Novecento che si rispetti – è il più arduo dei traguardi: una semplicità intessuta di gusto per l’enigma e animata – almeno fino ad Armi e mestieri – da una reticenza che si manifesta prima di tutto come strategia retorica e poi come costante antropologica.

 

(Questo testo, pubblicato in anteprima, è la prima parte dell’introduzione di Alberto Bertoni all'”Antologia personale” di Giampiero Neri, Garzanti, 2021)