Canti barocchi

da | Nov 13, 2014

Appena maggiorenne, Lucio Piccolo intrattenne una lunga corrispondenza su temi filosofici, mistici e spirituali col futuro premio Nobel irlandese William Butler Yeats. Eugenio Montale, che scoprì la sua poesia attraverso una rocambolesca ricezione del libretto d’esordio, 9 liriche, a seguito di un’errata affrancatura postale, così scrisse di lui: «Sarei tentato di attribuirgli il motivo husserliano di cui egli ci parlava a San Pellegrino: la contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure irreale perché privo di concretezza; ma non definirei con questo tutta una corrente di poesia metafisica che in varî aspetti dura da sempre?»[1].

Apprezzato da Pound, Pasolini, Sciascia, Contini, Moravia, Pizzuto e Consolo, Piccolo ha tradotto diversi poeti da più di dodici lingue, compreso greco, latino, ebraico, aramaico, persiano e arabo. Ho preferito selezionare testi esemplari da ogni raccolta, tralasciando volutamente i lunghissimi poemetti compresi nei Canti barocchi e in Gioco a nascondere (da cui ho tratto invece un pezzo cardine). L’impeccabile armonia musicale, ritmica e stilistica lo avvicina alla temperie barocca europea, dalla quale non smette di parlarci con la sua voce universale in perenne “dormiveglia mediterraneo”.

Diego Conticello

(da 9 Liriche, 1954)

Mobile universo di folate

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

***

(da Canti barocchi e altre liriche, 1956)

Scirocco

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fra sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi nastri…

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

***

(da Gioco a nascondere, 1960)

Gioco a nascondere

[…] Se noi siamo figure
di specchio che un soffio conduce
senza spessore né suono
pure il mondo dintorno
non è fermo ma scorrente parete
dipinta, ingannevole gioco,
equivoco d’ombre e barbagli,
di forme che chiamano e
negano un senso – simile all’interno
schermo, al turbinio che ci prende
se gli occhi chiudiamo, perenne
vorticare in frantumi
veloci, riflessi, barlumi
di vita o di sogno
e noi trascorriamo inerti spoglie
d’attimo in attimo, di flutto in flutto
senza che ci fermi il giorno
che sale o la luce che squadra le cose. […]

*

I giorni

I giorni della luce fragile, i giorni
che restarono presi ad uno scrollo
fresco di rami, a un incontro d’acque,
e la corrente li portò lontano,
di là dagli orizzonti, oltre il ricordo,
la speranza era suono d’ogni voce,
e la cercammo
in dolci cavità di valli, in fonti –
oh non li richiamare, non li muovere,
anche il soffio più timido è violenza
che li frastorna, lascia
che posino nei limbi, è molto
se qualche falda d’oro ne traluce
o scende a un raggio su la trasparente
essenza che li tiene –
ma d’improvviso nell’oblio, sul buio
fondo ove le nostre ore discendono
leggero e immenso un subito risveglio
trascorrerà di palpiti di sole
sui muschi, su zampilli
che il vento frange, e sono
oltre le strade, oltre i ritorni ancora
i giorni della luce fragile, i giorni…

***

(da Plumelia, 1967)

Plumelia

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

***

(da La seta ed altre poesie inedite e sparse, 1984)

La seta

Fatica nostrana nei giorni involati
la seta: le veglie all’interno
tepore, le foglie del gelso brucate
dalle torpenti farfalle ai cannicci.
Sospesa alla trave la falce
d’incanto, il crescente
e l’aria grave di fiati rurali,
d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana…
ma se la prendi con mano
che un poco trema
e la spieghi e la stendi
è una fontana nel vento e nel sole.

*

Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

***

(da Il raggio verde e le altre poesie inedite, 1993)

Vasta è la vallata

………………………………………………..Vasta
è la vallata, si spande pianeggiando e in pendii
in poggi, in solchi che verdeggiano
d’una speranza d’acqua e fanno in giro
orizzonte le montagne, ma il respiro è più grande…
fatica è da noi l’acqua – solo in alto lontano
tra rupi libera è custode al canto esile il silenzio.
Ma nelle pianure, a prezzo di cigolii, di ruote
o d’eliche alte su trampoli
alla mercé dell’aure… e quando balza
e fa bevanda di spuma terrosa, nel fosso
che ci ha dato la zappa, per vigore di poco
volgere di settimane, di sole, dal cespo
fitto, dall’arruffìo – si libera un velo
di brezza – trema ora il petalo più rosso
del vento più in ardore

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[1] Eugenio Montale, Prefazione a Canti barocchi e altre liriche, Milano, Mondadori 1956 e 1960; poi in Id., Sulla poesia, Milano, Mondadori 1976, pp. 65-71, e Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, II voll., a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori 1996, pp. 1905-1912.

Immagine: Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo in uno scatto di Ferdinando Scianna ©Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).