Amelia Rosselli e la Nuova Vocalità

da | Mag 3, 2016

Il rapporto fra la pratica poetica di Amelia Rosselli e la presunta influenza che su questa avrebbe avuto la formazione musicale dell’autrice, è da sempre territorio di dibattito. Il passato della Rosselli come musicista e musicologa è un innegabile fatto biografico, ma il peso che l’educazione musicale al serialismo avrebbe avuto sulla sua poetica è tutt’altra questione.

Lo scritto teorico dove tale relazione pare sorgere in modo più cristallino è Spazi Metrici, sulla cui fama di manifesto poetico non vale la pena spendere altre parole. Anche nelle interviste ad Amelia compaiono numerosi riferimenti allo stretto rapporto fra poesia e musica: «Ci fu questa strana coincidenza che mi portava a tentare di tradurre una intuizione musicale in parole. È stata questa l’unica volta che la musica mi ha stimolato alla scrittura […]»[1]. Affermazioni di questo genere hanno spinto i critici a credere che la fonte d’ispirazione fosse proprio la musica, e nello specifico l’ambiente della musica seriale, che la poetessa aveva frequentato in prima persona durante i Ferienkurse di Darmstadt.

Ma per comprendere a fondo il substrato musicale della poesia di Amelia non è al serialismo che dobbiamo guardare, quanto piuttosto alla musica elettronica, e in particolare alla materia di cui si occupò lo Studio di Fonologia della Rai di Milano, fondato da Luciano Berio e Bruno Maderna nel 1955, che svolgeva sul materiale vocale e verbale un lavoro molto simile a quello esposto in Spazi Metrici[2]. Lo studio, e in particolare il lavoro di Berio, si focalizza su un’analisi non tanto contenutistica, ma piuttosto strutturale. La catena di suoni che compone il linguaggio verbale viene cioè scomposta nei suoi elementi costituenti, i quali divengono oggetto di studio in quanto fatti sonori a loro volta significanti, secondo «un significato dei processi musicali»[3]. Berio, affascinato dalle teorie jakobsoniane e dalla pratica poetica ad alto tasso onomatopeico di Joyce, considera il livello del signans veicolo di espressione a sé. Per questo motivo il materiale verbale viene analizzato, destrutturato e ridotto ai minimi termini, poi riassemblato in modi nuovamente significanti. Quel che viene ricreato non sono quindi nuove parole, intese da un punto di vista linguistico, ma nuovi suoni, considerati dal punto di vista dell’onda sonora (del sinus, per usare un termine mutuato dalla musica elettronica) che li genera, della serie di armonici che entrano in gioco nella creazione del suono. In questo senso, il lavoro dello Studio s’inserisce nella corrente della nuova musica d’avanguardia del periodo, e in particolare nella fitta rete di lavori (dalla musique concrète alle opere di John Cage) che tendono alla riduzione della dualità fra suono e rumore in favore di una concezione unitaria del fatto sonoro.

Esempio emblematico di questo procedimento è il componimento che apre la stagione della Nuova Vocalità, quel corpus di opere di Berio che si occupa della voce come fonte sonora[4], ovvero Thema (Omaggio a Joyce) (1958), primo brano dello Studio di Fonologia, in cui il lavoro di rielaborazione del significante viene applicato a un testo preesistente: l’incipit dell’Ulisse di Joyce. Qui, la sovrapposizione di registrazioni in tre differenti lingue genera una ritmizzazione che permette di superare «completamente ogni opposizione dualistica fra suono e rumore»[5], cioè fra vocale e consonante tradizionalmente intese, riconducendo ogni fenomeno acustico «a un certo numero di vibrazioni semplici»[6]. Questo processo dà vita a un unico sistema espressivo in cui musica e parola instaurano un rapporto di continuità. Una nuova forma, quindi, un continuum in cui il testo, a malapena percepibile, e i suoni elettroacusticamente rielaborati si confondono in una sorta di trama tridimensionale, che restituisce all’opera di Joyce non solo quella particolare grana sonora che lo scrittore stesso aveva ricercato nella creazione originale, ma pure una nuova gamma di significati, emozioni e sensazioni riconducibili a quella che Roland Barthes chiamerebbe “significanza” e che si ripropone di fatto in tutto il lavoro di Berio:

non è la presenza di un significato, oggetto di riconoscimento o di decifrazione, ma la dispersione stessa, il gioco di specchi dei significanti, senza sosta riproposti da un ascolto che ne produce continuamente di nuovi, senza mai fissare il senso. […] nell’ascoltare una composizione (si prenda il termine in senso etimologico) di Cage, si ascolta un suono dopo l’altro, non nella sua estensione sintagmatica, bensì nella sua significanza bruta e come verticale […][7].

Questa operazione sul livello fonico della parola, che viene scomposta e ricomposta in favore dell’alone sonoro, non si discosta poi molto dall’analisi che della parola fa Rosselli in Spazi Metrici, secondo cui, in linea con un principio molto simile a quello individuato da Berio, la lettera – intesa come «sonora ma egualmente “rumore”»[8] – finisce per agglutinarsi in sillabe, parole e periodi, generando una sorta di sinus verbale. Il linguaggio viene cioè indagato per le sue proprietà ritmico-melodiche invece che strettamente verbali.

Ma ciò che più ci interessa, non è tanto la dissertazione teorica che la poetessa fa dei presupposti su cui la sua poetica dovrebbe basarsi, quanto l’operazione pratica che Rosselli compie nella stesura di Variazioni Belliche, in particolare in Poesie (1959), la prima sezione della raccolta, maggiormente sperimentale a livello di utilizzo del materiale verbale. Prendiamo ad esempio Cos’ha il mio cuore che batte[9]:

Cos’ha il mio cuore che batte sì soavemente
ed egli fa disperato, ei
più duri sondaggi? tu Quelle
scolanze che vi imprissi pr’ia ch’eo
si turmintussi
fieramente, tutti gli sono dispariti! O sei muiei
conigli correnti peri nervu ei per
brimosi canali dei la mia linfa (o vita!)
non stoppano, allora sì, c’io, my
iavvicyno allae mortae! In tutta schiellezze mia anima
tu ponigli rimedio, t’imbraccio, tu, –
trova queia Parola Soave, tu ritorna
alla compresa favella che fa sì che l’amore resta.

Come si nota immediatamente, il testo – che per utilizzo di maiuscole e segni d’interpunzione pare rimandare al modernismo, se non addirittura alla poesia di Cummings – è costellato da termini di incerto significato e di altrettanto incerta natura[10], forme che potremmo definire “corrotte”. Queste parole, che Rosselli chiama «“composti” o “associazioni verbali”»[11] richiamano alla mente differenti significati senza esplicitarne alcuno: «brimosi» (v. 8), per esempio, rievoca «coperto di brina», «bramosi», «grumosi». Esse servono, in questo senso, lo stesso obiettivo che, nel lavoro di Berio, era stato ricercato attraverso la disgregazione della parola e sua ricomposizione a livello sonoro, ovvero la significanza, favorendo a conti fatti la moltiplicazione di senso (e di sensi): presenziando contemporaneamente in potenza, esse divengono intercambiabili e allo stesso tempo irrinunciabili.

Procedendo nel testo, troviamo termini che a un primo sguardo paiono forestierismi o arcaismi[12], ma che sono in realtà ulteriori deformazioni, le quali, ricomposte secondo una logica prettamente musicale, provvedono alla globalità fonica della lirica. Come illustrato dalla Rosselli nel Glossarietto per «Poesie 33»[13], ad esempio, il «sì» al primo verso è in realtà una semplice «i», il «tu» del v. 3, è una forma tronca per «tutte», in accordo con «Quelle / scolanze» (vv. 3 – 4), «ei» al v. 7 è un plurale per «e», così come «dei» (v. 8) lo è di «de»; o ancora come nei vv. 9-10, dove «sì, c’io, my / iavvicyno» – struttura che Rosselli, sempre nel Glossarietto, dichiara provenzalismo e anglismo – serve la tessitura fonica del testo, creando un costrutto che, nei fatti, nulla o quasi mostra delle lingue che lo compongono. Attraverso la realizzazione del dittongo e della ripetizione, la «y» di «my» (/mɑɪ/), crea un accordo con la stessa lettera in «iavvicyno», alterando non solo la grafia del termine, che pure rimane riconoscibile come “avvicino”, quanto la sua potenziale pronuncia, la quale darebbe vita a un chiasmo fonico[14]: mai – ia – vvi – ci – ai ( – no). Questo tipo di modificazione fonica è inoltre assimilabile a un meccanismo linguistico-musicale cui Berio stesso aveva spesso fatto ricorso: la falsa ripresa. Detta anche variazione, essa è il procedimento secondo cui «il variare continuamente le caratteristiche acustiche di uno stesso materiale sonoro vuole anche dire (in rapporto a un disegno formale) produrre nuovo materiale sonoro»[15].

In questo senso possiamo considerare Cos’ha il mio cuore che batte un perfetto esempio del campo di sperimentazione, che si muove alla ricerca di una certa ruvidità della materia sonora, il cui sperimentalismo linguistico sorpassa una concezione estetica musicale e poetica, in certo modo “armonica”, rifacendosi piuttosto al principio fisico (sfruttato anche dalla musica elettronica) secondo cui ogni suono è rumore, dal momento che il materiale che costituisce entrambi è lo stesso[16]. Questo principio, che accomuna a livello microanalitico la poesia della Rosselli alla sperimentazione della Nuova Vocalità, aderisce così «a una nuova poetica che nella dissonanza riconosce la sua melodia»[17].

Con questa breve analisi comparatistica, che certo non si esaurisce qui, fra il lavoro di Berio e la pratica poetica di Amelia, non s’intende dimostrare una diretta influenza dell’uno sull’altra, o negare la formazione al serialismo ricevuta dalla poetessa. Piuttosto, l’esempio mostra come figure che lavorarono in un ambiente culturale affine, abbiano dato vita a prodotti artistici che afferiscono sì a categorie differenti, ma che, a un’analisi fattuale, oltre che formale, presentano caratteristiche comuni.

Immagine: Foto di Dino Ignani.


[1] È molto difficile essere semplici, in A. ROSSELLI, È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di M. Venturini e S. De March, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 49.

[2] È da tenere presente che durante le lezioni a Darmstadt, Rosselli venne in contatto proprio con Berio e probabilmente, come dimostra la bibliografia dell’unico saggio musicale rosselliano La serie degli armonici, s’interessò al lavoro del compositore.

[3] Intervista a Luciano Berio rilasciata a Philippe Albèra, 1983, cit. in E. Restagno (a cura di), Berio, Torino, EDT, 1995, p. 17.

[4] Si badi bene: voce come fonte di produzione di suono, non esclusivamente di canto.

[5] Ivi, p. 262.

[6] L. BERIO, Prospettive nella musica. Ricerche e attività dello Studio di Fonologia Musicale di Radio Milano, in ID., Scritti sulla musica…, cit., p. 185.

[7] R. BARTHES, Ascolto, in ID., L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 1985, pp. 250-251.

[8] A. ROSSELLI, Allegato. Spazi Metrici, in EAD., Variazioni Belliche, in EAD., L’opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, con la collaborazione per gli apparati critici di F. Carbognin, C. Carpita, S. De March, G. Palli Baroni, E. Tandello, introduzione di E. Tandello, Milano, Mondadori, 2012, p. 184.

[9] A. ROSSELLI, Variazioni Belliche, in EAD., L’opera poetica, cit., p. 18.

[10] In grassetto nel testo qui riportato.

[11] E. Tandello, Amelia Rosselli. Cortocircuiti del senso, in B. Frambotta (a cura di), Poeti della malinconia, Roma, Donzelli, 2001, p. 181.

[12] Sottolineati nel testo qui riportato.

[13] È questo il titolo originario di Poesie (1959). Cfr. Glossarietto per “Poesie 33”, in Lettere a Pasolini. 1962-1969, a cura di S. Giovannuzzi, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2008.

[14] Usiamo qui una scrittura estesa della pronuncia senza avvalerci dell’IPA, da un lato per una maggiore chiarezza, e dall’altro perché bisogna ricordare che l’accento di Rosselli era del tutto peculiare, ed è quindi probabile che le sue indagini foniche, in tal senso, si siano fondate sulla sua «esperienza sonora logica e associativa» (in A. Rosselli, Allegato. Spazi Metrici, cit., p. 185).

[15] Cit. Berio in E. RESTAGNO (a cura di), Berio, cit., p. 27.

[16] Cfr. A. Rosselli, La serie degli armonici pubblicato nel 1987 (reperibile in A. Rosselli, Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici, a cura di F. Caputo, Novara, Interlinea Edizioni, 2004), in cui si fa riferimento al sinus e agli analizzatori di spettro: tanto il suono quanto il rumore sono formati da frequenze. La differenza sta nel fatto che nel primo, esse si sviluppano secondo una forma d’onda, potremmo dire ordinata, mentre nel secondo, si presentano come un agglomerato informe.

[17] D. LA  PENNA, “La promessa d’un semplice linguaggio”. Lingua e stile nella poesia di Amelia Rosselli, Roma, Carocci Editore, 2013, p. 57.