All’inizio del XX secolo era accaduto qualcosa di epocale…

da | Nov 6, 2017

Il numero 80 di «Nuovi Argomenti» è dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre. Riportiamo in anteprima una testimonianza del poeta russo Sergej Stratanovskij che apre il dossier Poesia e Rivoluzione, nella traduzione e a cura di Alessandro Niero. Insieme a Stratanovskij, Maksim Amelin e Denis Beznosov. Segue l’introduzione di Niero al dossier.

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All’inizio del XX secolo era accaduto qualcosa di epocale, che aveva cambiato il mondo: questo, nel paese in cui erano nati, gli abitanti dell’Urss apprendevano già all’asilo o al primo anno di scuola. Ricordo che la maestra, durante una delle lezioni iniziali, ci raccontava come un tempo (non molto lontano) regnasse lo zar. Di come questo zar, come del resto tutti gli zar e i re, opprimesse il popolo, che quindi lo aveva fatto cadere. Di come, in seguito, i proprietati terrieri e i capitalisti si fossero radunati al Palazzo d’inverno per continuare l’opera di oppressione, ma il popolo avesse fatto cadere anche loro e preso d’assalto il Palazzo medesimo.
Questo era il mito della Rivoluzione così come esposto agli alunni di prima classe; mito che poi si infoltiva di dettagli ma, nella sostanza, rimaneva tale: nel 1917 si era verificato uno strappo del tessuto storico, un salto nel futuro. Ciò che era accaduto prima di quella data era soltanto propedeutico all’evento denominato Grande rivoluzione socialista d’ottobre. Contestualmente ci veniva inculcato che nel ’17 le rivoluzioni erano state due: la prima, quella di febbraio, era detta “borghese”; la seconda era chiamata d’ottobre, e dalla prima si differenziava in quanto “vera“, in quanto socialista. In realtà, come ho potuto rendermi conto dopo, si trattava di un unico processo, iniziato con il Febbraio e chiusosi con l’Ottobre (o non chiusosi, se vi accodiamo il periodo della Guerra civile). È questo processo che prende il nome di Rivoluzione russa. Opporre il Febbraio all’Ottobre ha, tuttavia, senso in quanto opposizione di due progetti: quello liberal-democratico, che fallì, e quello socialista. Quest’ultimo, definibile anche nichilistico-utopico, fu alla base di un regime durato più di 70 anni: solo una nuova rivoluzione, quella del 1991-93, ha fatto riprendere al paese, convenzionalmente parlando, il cammino del Febbraio.
Non sono uno storico e non mi compete ragionare sui fattori che hanno condotto alla Rivoluzione russa. Ma di uno di essi – la Prima guerra mondiale – non posso non dire. Proprio questo conflitto assestò un colpo tremendo ai valori cristiani e umanitari. La guerra fu anche un terribile umiliazione per l’uomo: persone aventi tutt’altre aspirazioni nella loro vita furono gettate nelle trincee e private del diritto a costruirsi una propria vita. Anche il valore della vita umana crollò e una simile situazione sollevò una naturale protesta sia da noi, in Russia, sia in Europa. La Rivoluzione oppose un solenne «No!» a questa umiliazione, rappresentò il desiderio dell’uomo ordinario di cambiare il proprio destino. Questa fu – se possiamo dir così – la radice esistenziale della Rivoluzione.
La mia lettura di quegli eventi – effettivamente grandi – si è formata, principalmente, alla luce della poesia. Grandissimi poeti della Rivoluzione russa furono Aleksandr Blok, Velimir Chlebnikov, Vladimir Majakovskij. Ciò che scrissero all’epoca non vale solo come testimonianza, bensì incarna lo spirito della Rivoluzione, incarna quell’insieme nichilistico-utopico a cui ho accennato sopra.
Il meno interessante dei tre è Majakovskij. Troppo engagé e apertamente schierato, non latore del conflitto interiore che invece si avverte in Blok e Chlebnikov: il conflitto tra l’immediata reazione morale alle cose orribili e ignominiose di quei giorni e il desiderio di «ascoltare la musica della rivoluzione» (l’espressione è di Blok).
Questa contraddizione – o meglio: questi contraddittorietà di sentimenti – fu alla base del poema blokiano I dodici. La trama dell’opera è piuttosto semplice, sebbene non del tutto chiara. Dopo l’Ottobre, durante i primi giorni di gennaio 1918, le strade innevate di Pietrogrado vedono sfilare una pattuglia di guardie rosse. (Le guardie rosse erano drappelli militari di operai di Pietrogrado formati ancora all’epoca del Governo provvisorio. Tra i loro compiti c’era quello di sovrintendere all’ordine in città, dopo lo sciogliemento delle forze di polizia). La pattuglia conta dodici individui (allusione ai dodici apostoli). In città c’è il coprifuoco. Per una strada, attraverso i cumuli di neve, va incontro agli uomini della pattuglia una vettura di piazza, a bordo della quale essi riconoscono il soldato Van´ka e la prostituta Kat´ka. Le guardie rosse sparano e uccidono casualmente quest’utlima. Questo crimime – l’omicidio di una donna innocente – è al centro del poema. L’ombra della Rivoluzione cade sull’uccisione di una persona innocente, ma tale omicidio, per Blok, è assordato dalla «musica della Rivoluzione» e va a perdersi nella grande bufera universale.
Lo stesso motivo – la morte di un innocente – figura nei poemi di Chlebnikov La notte prima dei Soviet e Perquisizione notturna. Ma in Chlebnikov c’è dell’altro: l’inebriarsi della forza elementale della rivolta, l’entusiasmo della violenza. Un tempo amavo declamare i versi iniziali del poema utopico di Chlebnikov Ladomir: «E i catenacci del mercato universale / dove scintillano le catene dell’indigenza, / con viso entusiasta e pieno di gioia maligna / trasformerai in cenere».
Mi piacevano questi versi, ma potrebbero benissimo piacere anche ai combattenti di Al Qaida.
Per l’attuale potere russo il centenario della Rivoluzione russa è palesemente “mal accetto”. Il 7 novembre, giorno della rivolta bolscevica secondo il calendario gregoriano, ha smesso di essere una ricorrenza dal 2004. La parola stessa evita di essere pronunciata in merito agli eventi contemporanei: le si preferisce la parola majdan, con riferimento ai recenti fatti di Kiev (fine 2013 – inizio 2014). Il potere ha paura che il popolo, a un certo punto, inizi a creare, da solo, il proprio destino. Per il potere il futuro è un presente che si prolunga all’infinito. Ma ‘rivoluzione’ vuol appunto dire far breccia nel futuro. Ricordo che dopo il 1991, in seguito al fallimento del putsch agostano, ebbi la sensazione di un orizzonte spalancatosi; per dirla con le parole di Nikolaj Gogol´ dalla novella La terribile vendetta: «s’eran visti all’orizzonte tutti quanti gli estremi della terra». A giudicare dalle memorie, un sentimento simile provavano i miei concittadini nel febbraio-marzo del 1917.
Un senso di rinnovamento della vita.

Sergej Stratanovskij

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Tre poeti d’oggi.
Sergej Stratanovskij (1944), tra i maggiori poeti russi degli anni Settanta del XX secolo, formatosi principalmente nel “sottosuolo” leningradese, animatore della cultura cosiddetta andegraund, detta anche “seconda cultura” (non in senso gerarchico) o cultura “non ufficiale”. Autore noto in Italia per essere l’unico poeta vivente russo annoverato nella “Bianca” di Einaudi (Buio diurno, 2009; ma Stratanovskij vanta anche un secondo libro, Graffiti, edito da Passigli nel 2014).
Maksim Amelin (1970), poeta, traduttore, critico, redattore, organizzatore culturale, prestigiosa figura di uomo di lettere che, insignito di recente dell’importantissimo premio “Poėt“, si avvia a occupare un posto di primo piano tra gli autori contemporanei.
Denis Beznosov (1988), poeta, traduttore, critico, giovane promessa della poesia russa d’oggi.
Tre poeti, tre generazioni.
Anche se tra il primo e il secondo si contano 26 anni di differenza, mentre tra il secondo e il terzo sono solo 18. Ma a contare, qui, sono le date.
Stratanovskij nasce in piena epoca sovietica: ha nove anni quando muore Stalin, ne ha 24 quando i carri armati sovietici entrano a Praga e mettono una pietra tombale sul cosiddetto “disgelo”, epoca inaugurata dal principale artefice della destalinizzazione, Nikita Chruščëv, ma forse già finita con la sua destituzione nel 1964, quando viene soppiantato da Leonid Brežnev. Stratanovskij, de facto, si trova subito catapultato nel sottosuolo. Il suo primo libro in patria è del 1993, addirittura dopo il crollo dell’Urss nel 1991.
Amelin ha 15 anni quando inizia la perestrojka (1985-1991) di Michail Gorbačëv. Entra in contatto fin da subito la straordinaria stagione editoriale che contraddistinse quella breve, ma intensissima, epoca. Ma ha un vissuto, almeno fino alla tarda adolescenza, fortemente legata al periodo sovietico. Ne conosce le logiche e le perversioni per esperienza diretta.
Beznosov, infine. Un poeta non ancora trentenne, per il quale l’epoca sovietica è, in sostanza, retaggio scolastico. Un autore, quindi, integralmente postosovietico.
I 18 anni che dividono Beznosov da Amelin sono, perciò, idealmente di più. Quelli che lo separano da Stratanovskij – 44 – sono un’èra geologica, se consideriamo gli accadimenti storici sopraggiunti.
Tre poeti, tre letture.
Decifrando il nesso (drammatico, ma affascinante) fra rivoluzione e poesia, tutti e tre sentono l’esigenza di fare nomi (pochi Stratanovskij, molti-moltissimi Amelin e Beznosov). Ogni nome, beninteso, richiederebbe un capitolo storico-letterario a parte. Il lettore è pregato di recepire questa abbondanza di nomi non tanto come elencazione erudita, bensì come sequela (quasi martirologica) di figure-testimonianze, come litania di destini simbolici, come sfilza di sofferte sottomissioni (e no) alla Storia.
Tre poeti, tre cesure.
Decrittando il legame fra storia e letteratura, tutti e tre rilevano delle discontinuità. Un dato, in particolare, si impone: all’altezza del 1953 (anno in cui muore Stalin e la Russia Sovietica, finalmente e temporaneamente, respira…), della miracolosa fioritura di poesia di fine secolo XIX e inizio XX (la cosiddetta Età d’argento), rimangono Anna Achmatova e Boris Pasternak (e, più in disparte, un futurista estremo quale Aleksej Kručënych). Che ciò rappresenti, anche solo in termini quantitativi, una cesura rispetto al passato tardozarista e primosovietico – è indubbio.
Ora, questo senso di cesura si avverte di più in Stratanovskij, più percosso (e piagato) dai contraccolpi della storia (si veda la chiusa del suo intervento), più propenso a sostare nello spazio controverso dove si incontrano belle lettere e politica.
Questa stessa cesura si sente meno in Amelin (che pure condividerà discretamente con il lettore un rapidissimo squarcio di tragico passato familiare), il quale si preoccupa delle conseguenza della tormentata storia della Russia nel XX secolo in chiave di trasmissione memoriale, ossia di rapporto dei russi d’oggi con l’eredità culturale di un passato cronologicamente sepolto ma, in realtà, potenzialmente vivissimo.
Ancor meno la cesura in questione si percepisce in Beznosov che, pur conscio della modificazione genetica di cui fu oggetto la poesia, mi sembra più incline a salutare, in modo non rasserenato ma pacato, la linea di continuità che dalla fine del XIX secolo porta ai giorni nostri. Potrebbe essere un mero segnale di ottimismo. Ma forse Beznosov “semplicemente” constata come la poesia sappia annettersi territori e sopravvivere a ogni forma di annichilimento.
In una Russia che funziona ormai a pieno regime secondo logiche di mercato, anche la poesia potrebbe rischiare di vedersi nullificata dalla disattenzione o dalla poca redditività. Chi ne frequenti i poeti, però – di una più delle tre generazioni chiamate in causa – respira ancora un pathos non comune e sente non del tutto obsoleto un celebre verso del recentemente scomparso Evgenij Evtušenko: «poeta in Russia è più che poeta».

Alessandro Niero

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).