«A mother dead is any body dead». Madre e materno in Amelia Rosselli

da | Mag 3, 2016

Esce il numero 74 di «Nuovi Argomenti» con una sezione monografica dedicata ad Amelia Rosselli, a cura di Maria Borio, da cui presentiamo in anteprima il saggio di Caterina Venturini «A mother dead is any body dead». Madre e materno in Amelia Rosselli. Gli altri contributi per Amelia Rosselli sono di Nanni Balestrini, Antonella Anedda, Roberto Deidier, Stefano Giovannuzzi, Alberto Casadei, Alessandro Baldacci, Laura Barile, Daniela Attanasio, Gabriella Sica, Jennifer Scappettone, Jean-Charles Vegliante, Daniela Matronola, Laura Pugno, Ulderico Pesce.

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Quando Calvino, riferendosi a un esordio letterario parlava del «grande strappo» in cui sciogli una volta per tutte il nodo che porti dentro, intendeva senz’altro un pubblico esordio e nel caso di Amelia Rosselli quest’idea sembrerebbe funzionare perfettamente, in quanto Variazioni belliche, sua opera prima pubblicata nel 1964, è il grande libro sul padre, Carlo Rosselli, militante antifascista ucciso insieme al fratello Nello nel 1937 per ordine di Ciano e Mussolini. Eppure il vero esordio di Amelia, rimasto privato per trent’anni, è My clothes to the wind, una breve prosa in inglese scritta tra il ’51 e il ’52 incentrata sulla figura della madre Marion Cave «una donna bellissima, e molto più avventurosa, forse, anche di mio padre», morta un paio di anni prima. Vorrei partire proprio da questo scritto, incluso poi in Primi scritti (1981), per parlare di madre e materno nell’opera di Rosselli, proseguendo una linea critica che solo da pochi anni ha individuato nel nome della Madre una categoria interpretativa non meno importante di quella nel nome del Padre, avvertendo però l’esigenza di marcare da subito una differenza. La madre e il materno sono la presenza muta della poesia rosselliana, il relitto affondato, quello che non si dice, l’innominabile tabù del non amore, mentre la figura paterna è eternata in un martirio politico che diventa per l’umanità, e dunque va accettato come il martirio di Cristo per la salvezza degli uomini.

«Salpa la tua pietà per altre sponde ridi ancora di Jesù
che cadde disfatto dopo anni e anni di lotta condizionata
alla elevazione di Maria.»

Lontano dall’essere confessional, la scrittura rosselliana non può però prescindere da una biografia che la vede perdere il padre a 7 anni e la madre a 19: entrambi muoiono fisicamente distanti da Amelia – il padre nel sud della Francia mentre lei è a Parigi, suo esiliato luogo di nascita; la madre a Londra mentre lei è in vacanza dalla nonna in Italia – segnando così l’enorme difficoltà se non impossibilità di elaborare un lutto che accade sempre lontano, da un’altra parte, mai in presenza di un Soggetto che poeticamente già in questo primo scritto si pietrifica nella figurazione dell’Orfana (archetipo junghiano), che non può crescere perché privata delle sue radici, ovvero l’adolescente perpetua che di poesia in poesia indosserà gli abiti (clothes to the wind che il padre ha venduto) di Elettra, Antigone, Ifigenia, Cassandra: antiche fanciulle che come lei sono state costrette a stipulare «funeste nozze con la Morte» (parafrasando Loraux, citata da Tandello nel bel saggio La fanciulla e l’infinito).

Se in questa prima prosa, il nodo calvinianamente inteso non è del tutto sciolto ma rimane come groppo in gola, si può però notare che esistono già qui tutti i temi rosselliani: la Memoria che non sorpassa il Lutto, la Fanciulla prigioniera dei fantasmi dei propri Morti, la dimensione onirica come unica possibilità di racconto della propria esperienza, riproducibile solo per frammenti.

«The disagreement heavy and unpleasant» così comincia questa prosa, con un «disaccordo pesante e spiacevole» prima che con un dolore: l’Orfana si lamenta perché i genitori l’hanno abbandonata. In un’intervista a Spagnoletti nel momento in cui Amelia ricorda l’analisi con Bernhard (conclusasi poco prima della stesura di My clothes to the Wind), come esperienza fondamentale per ricostruire l’infanzia e il padre, «figura da me quasi totalmente dimenticata», colpisce la violenza verbale utilizzata a proposito della successiva ricostruzione dell’adolescenza: «perché la morte di mia madre me l’aveva stroncata». Quella stessa madre che aveva annunciato la morte del padre ai bambini (i due figli minori Amelia e Andrea, in quanto il primogenito John era sempre con lei), rovesciandola in una domanda terribile: «Sapete cosa vuol dire la parola assassinio?» – lo shock era stato tale che Amelia aveva aggiunto al racconto la visione di un lenzuolo scoperto dalla madre per mostrare ai figli le ferite del padre morto – fatto escluso dalla cugina Silvia Rosselli, la quale sostiene che fu sua nonna, giunta dall’Italia a fare il riconoscimento delle salme, mentre i suoi cugini furono mandati subito a casa di amici, perciò lei suppone che Amelia potette invece vedere in seguito delle foto «quelle sì, atroci» in cui si vedevano molto bene le ferite del padre e dello zio. Foto viste poi anche da lei, figlia di Nello, alla quale però la madre disse di quella morte con grande delicatezza – ci mise un mese – tanto che lei e sua sorella Paola vi si avvicinarono in modo diverso, più tipicamente infantile: «Ma allora anche i nostri cugini sono orfani?», e furono quasi contente di sapere di sì. Silvia Rosselli aggiunge: «Non voglio giudicare mia zia Marion. Lei era malata di cuore e i bambini non li reggeva, soprattutto Amelia, da sempre molto inquieta, che forse per la sua sensibilità aveva risentito maggiormente di tutti quegli spostamenti di lingue e paesi da ben prima che morissero i nostri padri. Già nel ’35 lei e Andrea vennero a stare per un periodo da noi a Firenze: loro erano le bestioline, mentre John era considerato, non a torto, una specie di genio.» Questa madre(lingua) inglese poco dopo la morte del marito e un successivo ictus smise di parlare italiano con i suoi figli. Amelia stessa a sua volta, dopo la morte di Marion smise di parlare del tutto: «Per due o tre anni non aprii bocca.» E ancora: «Quella di mia madre è stata una perdita molto brutta, più brutta di quella di mio padre perché, quando è morto mio padre, ero troppo piccola per sentire un dolore adulto.» Cominciò allora per qualche anno a farsi chiamare Marion, cercando un’identificazione con la madre che non le era riuscita in vita: «Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere lei, per averla» – così la ricorda il cugino Aldo Rosselli, tra i primi a ipotizzare il legame fortissimo tra il rapporto con la madre e la scrittura rosselliana.

Si potrebbe pensare che una volta riemersa dal silenzio di quel dolore adulto, la sua prima parola letteraria sia stata dunque disagreement, come si potesse non essere d’accordo e ribellarsi alla Morte, spregiando un amour (inserzione in francese, la lingua dell’infanzia), definito come «a substitute for the empty city and the empty mother». La vuota madre, ricordata in un’intervista come presenza “evanescente”, si configura per questo vuoto che lascia prima in vita che in morte, chiudendo in My clothes la figlia in una culla come fosse una bara, in un rovesciamento parossistico che vede morire chi resta in vita.

«Caldamente protetta
scrisse i suoi versi la Vergine: moribondo Cristo le rispose
non mi toccare! Dopo i suoi versi il Cristo divorò
la pena che lo affliggeva.»

Nella poesia rosselliana fa la sua comparsa la mater dolorosa cristiana che subisce lutti, perdite e malattie, come sua madre Marion e come la sua nonna omonima «madre dolorosa – così la ricordava un’amica – per lunghi anni peregrinò in terre straniere con gli otto nipotini, figli di Carlo e di Nello, e le due vedove sconsolate.»

Lo stabat mater rosselliano appare quindi in scena per subire, per lacrimare sangue nell’inquietante Sacra Famiglia delle Variazioni (un Padre implacabile, un Figlio (in)sofferente durante la Passione, una Madre muta accompagnatrice), scendendo poi gradualmente sulla terra nelle opere successive fino a Documento, in cui si osserva un maggiore realismo e una critica verso l’istituzione familiare, stavolta tutta situata nell’umano:

«Cristo seduto al suolo su delle
gambe inclinate giaceva anche nel sangue quando Maria lo
travagliò» (Variazioni belliche)

«Perversa mi dolgo della brutalità ma
vi cado supina con un bambino in braccio. Tale la brutalità
che svengano anche i santi alla vista del sangue che cola
brutto dai suoi buchi.» (Variazioni belliche)

«Fruste ammaestrate,
baionette del popolo grinze dei sapienti
e lacrime di madri tutte lanciavano passerelle
ma il battello, la barca semi vuota bucata
nel gelo non partiva.» (Variazioni belliche)

«Vicino a quel tuo capezzale piangeva
la madre ed ero io che ti guardavo stringere
le palpebre.» (Serie ospedaliera)

«Se esco e faccio la spesa
orrore si fracassa appena
belle cicogne snelle
m’assembrano le membra.» (Documento)

«Un matrimonio
di audaci piani, una riviera silenziosa
di morte» (Documento)

«Scostate la
carne, no
non toccate il di me grembo. […]
Il vivo vuoto è questo inordinato
credersi superiori alla norma!» (Documento)

Riprendendo necessariamente una chiave di lettura mai eliminabile per Rosselli, ossia un laico Mal de Dieu, si può dire che la desessualizzazione della madre si concreta nell’universalità del dolore umano. Il materno simbolico di Rosselli è il lutto, il dolore, un’attesa del cadavere che ricongiunge ossimoricamente la madre alla vergine Antigone. La madre rosselliana è svuotata, inerme,  priva di qualsiasi potere se non quel lacrimare con il quale ricorda agli altri di essere al mondo, con il quale punisce gli altri, soprattutto quando quel lacrimare si traduce in parola, in versi che la rendono intoccabile da Cristo, inascoltabile come Cassandra. L’io poetico consuma una lotta per cercare di non identificarsi con la madre-lutto, con la madre che perde il figlio, preferendo rinascere come «figliola col cuore devastato» (come ragazza cristica, citando Lorusso quando parla di Sexton), e innalzare/abbandonare la Madre al Cielo, poiché il rischio di rispecchiamento è troppo forte: «Vicino a quel tuo capezzale piangeva/ la madre ed ero io che ti guardavo stringere/ le palpebre». E le cicogne devono rimanere snelle, devono continuare ad essere solo degli uccelli, non la metafora della messa al mondo, il grembo deve essere vuoto, non toccatelo!, ammonisce Rosselli, non toccatene il vuoto!: vince la pretesa di essere superiori alla norma, la norma della normalità, ossia dell’essere madre.

La mancanza della Madre diviene dunque la mancanza di un corpo, «a mother dead is any body dead» (My clothes), in cui non ci si può specchiare per paura di vederne e toccarne il vuoto, quel pozzo profondo in cui si precipita in Diario ottuso.

L’esperienza biografica viene del tutto trasfigurata/irrelata al Cielo per sopportarla meglio, ma non se ne elimina la sostanza sanguinante, che anzi torna a perseguitare; diventano così maggiormente comprensibili i nascondimenti di una Rosselli anti-autobiografica: quella non è più la sua storia; il vissuto non va gettato in pasto al pubblico, dice lei, chi scrive o parla della propria esperienza non può essere aiutato da chi ascolta – si compie a questo punto una distanza siderale dal Movimento italiano femminista di quegli anni («è una brutta abitudine delle donne l’autobiografismo»), seppure sembra che Rosselli non ne abbia addirittura bisogno quando afferma: «Non avevamo paura, perché mia madre, mia zia e mia nonna ci proteggevano. Le donne della mia famiglia hanno dato un’impronta molto particolare al movimento di Giustizia e Libertà: erano attive quanto i loro mariti. Non c’era l’idea della donna succube, impaurita o frenante.» Sembrerebbe dunque che il mostro da lei combattuto non sia neppure più la madre, ma la sofferenza data comunicata e offerta dalla madre e dal materno. Un materno che non può accudire né consolare, mostrandosi solo nella fase finale e mortifera dell’azione drammatica. La madre è colei che abbandona per prima, che espelle fin dalla nascita e che soltanto dopo può/deve essere abbandonata. La madre mortifera (definizione femminista degli anni ’70) è nel caso rosselliano non colei che dà la morte (per quella hanno il potere solo gli uomini) ma colei che non riesce ad evitarla, ad allontanarla; anzi, costringe a guardarla in faccia, a sprofondarci dentro.

Immagine: Foto di Dino Ignani.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).