A cinquant’anni dall’esordio in poesia. Roberto Pazzi e una vita in versi

da | Ott 24, 2020

 

di Matteo Bianchi

S’UNA FOTOGRAFIA DEI ROMANOV[1]

 

Dopo lo zar Nicola e la zarina Alessandra

Furono uccisi con Alessio, Olga, Maria, Tatiana

E Anastasia, i loro cinque figli,

ci misero tre giorni a bruciarli per bene.

Martirio e sfregio ebbero, come santi

E non lo erano. Ma finiti così, come posso non amarli?

Lo so, lo so, che hai ragione, che a milioni

Morirono per loro; ma, vedi, questi morti

Io non riesco a vederli, non li conosco,

nulla di loro, sono un numero grande,

ma sono un numero, capisci? Non posso piangere

per un milione, per due milioni.

A questi morti posso pensare soltanto.

Quando il vicino di casa mostrava la suddetta foto a Roberto Pazzi, da bambino, gli diceva che di re non ce n’erano più e che gli ultimi, i Savoia, erano in esilio. E nonostante i loro mirabilia, il lessico nobile e il sangue indaco, basterebbe che la letteratura si prendesse cura della vita senza la pretesa di trattenerla, di tenerla con sé ab eterno. L’accompagnasse senza che poche esperienze prevalessero sulle tante, essendo giudicate migliori, o persino più vere; perché la consapevolezza dei singoli non c’entra alcunché con la verità. La consapevolezza sopraggiunge quando il tempo a nostra disposizione è finito. «Vivo come re Mida / nel mio museo di sole parole. / Con molta pazienza ho lavorato anni / per salvare le cose del mondo / staccandole dal sangue, dal vento, / dall’acqua, dalla luce, / da tutto quello che troppo rapidamente fugge»[2]. Nel paragone abbagliante con Mida, sottolineato da Antonio Porta sul Corsera per il risoluto antistoricismo[3], si afferma quel «contatto diretto e vario con la realtà» che amava di ciascuna lingua da lei assorbita Marguerite Yourcenar tramite Le memorie di Adriano, uno dei romanzi imprescindibili per Pazzi. D’altro canto, l’opera dello scrittore di Ameglia si è espressa per mezzo secolo spaziando sia in prosa sia in versi. Nei decenni la scrittura narrativa ha asciugato la sua poiesi, rendendola più simbolista, più allegorica; parallelamente all’influsso che ebbe la psicanalisi sulle rime di Umberto Saba. La sua è da sempre una lirica che sboccia da un nocciolo di purezza incorruttibile; una fioritura lenta e tenace, nel credere nel terreno dove ha messo le radici, Ferrara. Quasi fosse una pianta del deserto, una bella di notte, che nel buio fa luce e dal buio trae la sua luce.

«Ma la sua è forse una Ferrara da ascrivere prima all’esperienza del “marchesino pittore” Filippo De Pisis (notevolissimo anche come prosatore/poeta) che a quella del padre putativo di ogni scrittore ferrarese del secondo Novecento, Giorgio Bassani. Di Bassani, infatti, più che i temi o gli stili Pazzi condivide l’equilibrio mirabile, ottenuto con un gioco prezioso e del tutto consapevole di contrappesi ispirativi e compositivi, fra scrittura narrativa e scrittura poetica. In entrambi, la spinta istintiva alla poesia è probabilmente un primum di scrittura, ma in nessuno dei due il lirismo si presenta mai allo stato puro, motivato da un’adesione più o meno inconscia all’ermetismo […]»[4]. Questa la traccia perseguita da Alberto Bertoni nel saggio che inquadra Un giorno senza sera. Poesie 1966-2019, antologia fresca di stampa per La nave di Teseo.

Al di là dell’amore ventoso per Bocca di Magra, sul Golfo di Spezia, dove Vittorio Sereni notoriamente villeggiava, del rapporto con il maestro che lo iniziò al verso libero nel 1969, sulla rivista “Arte e Poesia”, rimane un folto epistolario curato da Federico Migliorati, Come nasce un poeta. Epistolario 1965-1982 (Minerva, 2018), ma soprattutto un luminoso lacerto emotivo:

SERENI[5]

 

Ora la mia mano mi ricorda

la tua. Non solo per il polso

stretto da cui l’anima

pareva sforzarsi di uscire

subito dove il pensiero

si congiunge al gesto,
ma per la scrittura
che pareva minacciare
pensieri dispersi,
inarcarsi sulle punte
volgendosi indietro
agli ultimi sbadati della fila,
allo snodato serpente degli anni

alla stella variabile, già fredda.
Se qualche regno patisce violenza

è quello dove tu sei passato,

caduta l’ansia di curare

che tutti, proprio tutti,
fossimo passati.
Perché c’è un punto del mondo

che tu sapevi non reggere il peso

dell’odio, un ponte percorribile

solo da certo peso delle parole

ma che nessuno della marcia

doveva temere.
Lo portavi tu,
il peso del segreto, per molti
che scrivevano e non capivano

l’imitazione del silenzio.

«Buona parte della critica insiste, con ragione – incalza Bertoni – sulla predilezione di Pazzi per il tempo, richiamando a suo archetipo il modello altissimo di Proust», ma di più, ne sfida il corso convenzionale attingendo dal suo tempo interiore. Ci riesce fissando al foglio gli assoluti che lo hanno ispirato, le presenze e le rivelazioni che hanno reso indimenticabili i momenti quotidiani destinati alla tenebra. Tramuta le ossessioni in spiragli e si domanda «chi mi salverà dalla salvezza?» Non a caso, ha scelto di intitolare la raccolta citando l’ultima pagina de Le confessioni di Sant’Agostino, appunto «un giorno senza sera», nella serenità della luce che basta a se stessa. Sono poesie che rubano voce alla vita, come fossero una continua confessione all’orecchio delle persone care, sussurrate dalla camera da letto, perché «non c’è mai sciopero del sogno, / sempre nuovi operai di antichi amori».

Le rotte della mente è la sezione conclusiva, composta da ventisei testi carichi di sensualità, della «calda vita» sabiana che non ha età. Sullo sfondo, invece, si leva l’ombra di Kavafis tramite l’erotismo incapsulato in una dimensione totalizzante, libero dall’identità dell’oggetto amato e da una corrispondenza obbligata. Non rinuncia, alla maniera di Sandro Penna, alla stupore che lo coglie talvolta di fronte alla realtà e onora quella meraviglia attraverso una semplicità espressiva a tratti disarmante, assai più eloquente di qualunque figura retorica ben congeniata. Tra il bancone di Degas e la medietas con cui Pazzi tratta dell’anima, frutto novecentesco maturato lungo la linea Leopardi – Cardarelli – Saba – Caproni, si staglia una delle sue figure femminili più recenti:

LA BELLA BARISTA

 

Quest’incapacità di cambiare la vita

che ci risveglia ogni mattina
con l’illusione di poterla mutare,

eccola, già qui pronta a rivestirsi,

a infilarsi le scarpe e a uscire.
Mi terrà compagnia levando gli occhi

a rispondere al saluto del giornalaio

e dei clienti poi al caffè.
Truccata come tutti i giorni

d’azzurro sulle palpebre,
la speranza mi abbraccia
al primo sorriso della giornata
che mi serve, seduto al tavolo,
il mio caldo caffè macchiato:
la bella barista non lo sa
d’essere una principessa
davanti al suo incantato re,

conserverò il segreto[6].

Un giorno senza sera racconta un’esistenza intera, dai dolori alle epifanie, sino allo smarrimento davanti al proprio riflesso. Con lui c’è la sua Ferrara, la città desiderata a tal punto da respingerla ogni mattina, e di fatto mai decifrata come una fortezza Bastiani affondata nella pianura padana. Riaffiora dunque la narrazione che ricalca la circolarità di Vita d’un uomo, di Giuseppe Ungaretti; una circolarità esito di uno sguardo provato, ma limpido come la prima volta.

LETTERA DA FERRARA A UN AMICO ROMANO[7]

 

Mi hai chiesto al telefono
perché non vengo ad abitare a Roma,
che ci sto a fare qui.
Ma qui si guarisce più in fretta,
si vede la vita calare a vista d’occhio.
Sapessi come occorre poco, un niente,
per una così lunga malattia,
sapessi come passa presto una giornata di nulla

davanti a un cortile dove non passa mai nessuno,

con le acacie i colombi i camini le statue…

(vivere è superare un esame,
accumulare giorni bianchi,
le prove dell’innocenza).

Sono stati i critici Insel Marty[8] e Paolo Vanelli[9] a individuare una corrente ideale della lirica italiana contemporanea dalla poetica di Saba a quella di Roberto Pazzi, attraverso l’abissale interiorità caproniana. Difatti lo scrittore ligure è portatore di un lirismo colloquiale, teso a chi “ausculta” e si lascia coinvolgere dalle sue forme scolpite, quasi fossero solchi sul marmo. Una parola appassionata, melodico-cantabile, che abita i luoghi popolari e li eleva, mirando all’epicità dell’ordinario, conquistata senza rinunciare alle ebbrezze filosofiche. Seguendo la foggia lieve, ma duratura di Kavafis, e avvalendosi di una formazione classica, si muove tra i piccoli particolari dettati dall’abitudine e le magnificenze del passato, tra le sfumature impercettibili della cronaca e la storia maestra, quasi volesse appartenere a un tempo antico, o non appartenesse abbastanza al proprio, spaziando grazie all’immaginazione nel vuoto testimoniale che li separa. Spesso Pazzi ha ribadito quanto la poesia sia stata una fonte inesauribile di energia per lui; energia che deriva dal greco enérgeia, “forza in atto”, e rimanda al lavorio interiore che la parola suscita e veicola, come un secchio lanciato in un pozzo. Il secchio è la parola, il pozzo è l’inconscio collettivo, di cui il sé è il frammento: più il secchio viene lanciato nel profondo, più l’acqua è fresca, è spontanea. L’io lirico svela la ferita aperta della parola che nomina le cose e, così facendo, ne designa anche l’ordito.

VERSO IL NULLA

 

Bello voler solo esistere,
famiglia, moglie e figlio di me stesso,

signore del mio tempo in rotta,
ma ancora in quota alla terra.
Al computer la mano disimpara a scrivere,

il suo è un ascetico esercizio,
e non scrive più lettere d’amore,
brucia quel che rimane della voglia,

risparmiando penne, guanti, vestiti,
le scarpe per le camminate
che aspettano in riva al mare,
i vecchi costumi da bagno basteranno,

come i viaggi, gli inverni, ormai tutti visibili,

perché vedo oltre, più in là,
centellinando l’anima per non sprecarla,
e lasciare la casa e la città vuote,
prima di partire
e restituire le chiavi del mistero.
Poi non so dove abiterò,
ma se ritornerò,
nessuno mi riconoscerà
nemmeno questa volta.

Nei versi della lirica che sigilla in quarta l’antologia Felicità di perdersi (Barbera, 2013), il poeta, giunto alla Ferrara alta che è il belvedere di Caproni, si riconosce in uno stato di estasi, ne prende poco a poco coscienza tramite gli oggetti del suo vissuto, «penne, guanti, vestiti, / le scarpe» che, nell’astrazione crescente, nella sprezzatura dell’evoluzione poetica, divengono i talismani dell’essenza, i significati stessi che racchiudono, «i viaggi, gli inverni», depositari di piccole realtà terrene che si sono fatte verità ultraterrene, asciugandosi nel flusso del tempo. I Talismani (Marietti, 2003), titolo della sua seconda antologia personale, sono gemme da appuntare allo spirito, sono le parole che durante il viaggio ci cambiano oltre la carne, così il monito memorabile di Italo Calvino per affrontare il futuro. Pazzi combatte l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposto con la precisione dei termini decisi, nutrendo una legittima rimostranza alla fine, all’annullamento individuale che pende diafano sopra ogni mortale. Ecco allora che “il mestiere di scrivere”, praticato con metodo tra le pile di libri che alloggiano e aleggiano in casa sua come ospiti privilegiati, diviene una sequenza di esercizi spirituali, una sorta di rito per l’ascesi, quando l’esistenza gli ha concesso di superare il bisogno biologico di riprodursi, ma specialmente quando la conoscenza, «i vecchi costumi da bagno», lo ha distanziato dal fraintendimento culturale esercitato dalla società odierna sull’istinto naturale, «famiglia, moglie e figlio di me stesso». La lievità delle parole sullo schermo del computer è metafora di un progressivo abbandono della dimensione corporale, della mano che «non scrive più lettere d’amore», il desiderio più non l’opprime, bensì «centellina l’anima per non sprecarla».

Egli manifesta il riavvicinamento all’ultima fase della poetica caproniana[10], il tempo della «disperazione / calma, senza sgomento», la medesima serena disperazione di Saba amplificata, ossimoro che inchioda la contraddizione intrinseca all’essere umano, l’arrivo all’ultima stazione, il sentimento del vuoto, assenza di Dio che in Pazzi vale quanto incertezza dell’assoluto, parallelamente alla concezione teologica di Hesse, il quale non si limitò a una definizione, a considerare un percorso religioso superiore agli altri[11]: difatti, rinunciando solo in extremis alle «chiavi del mistero»[12], che gli hanno donato la capacità di sognare con in bocca immagini sempre innamorate, spera (forse) in un ritorno, magari una reincarnazione già consumatasi chissà quante altre volte, che ci salva, o ci condanna, a un’eterna diversità, pur essendo tutti ugualmente uomini.

Il distico conclusivo della poesia, il salvacondotto «nessuno mi riconoscerà / nemmeno questa volta», diventa un’assoluzione che richiama la sentenza di Franco Fortini, «una volta per sempre» eterni nell’unicità di ogni istante realizzato. Verso un nulla che è tutto al contempo, nell’ambivalenza fatalista del relativismo più attuale; secondo la lezione di Walter Moretti, l’appartenenza al niente dunque si equivale all’inappartenenza al tutto di Montale[13].

 



[1] Il titolo originario era In morte di Aldo Moro, da Il re, le parole, Lacaita, Manduria 1980, p. 56

[2] Almanacco dello Specchio, a cura di Marco Forti, n. 10, Mondadori, Milano 1981, p. 339.

[3] Parole che scardinano il tempo, sulla Terza Pagina del “Corriere della Sera”, 16 giugno 1987.

[4] A. Bertoni, Poesia come teatro della mente, in Un giorno senza sera, La nave di Teseo, Milano 2020, pp. 281-91.

[5] Ibidem, p. 129.

[6] Ibidem, p. 258

[7] Poesia già presente ne Il filo delle bugie, la prima antologica di Pazzi edita da Corbo (Ferrara) nel 1994.

[8] Il “come se” della poesia di Roberto Pazzi, in La gravità dei corpi, di R. Pazzi, Palomar, Bari 1998, pp. 73-77.

[9] Durante il Convegno al Ridotto del Teatro Comunale “Abbado”, in occasione del centenario dalla nascita di Giorgio Caproni, organizzato dalla “Dante Alighieri” di Ferrara, 12 dicembre 2012.

[10] Tanto è vero che fu il poeta livornese a presentare insieme a Giovanni Raboni il suo La principessa e il drago al Premio Strega nel 1986.

[11] Siddharta compie un destino logicamente possibile rispetto alle sue origini, al bacino etnografico di provenienza e alla direzione della sua ricerca spirituale e alle relazioni personali che alimenta intorno a sé.

[12] L’autore echeggia il Borges de La moneta di ferro.

[13] «La lezione di Montale – l’associazione di “povere creature” a “grandi simboli” – si avverte nella forte scansione metafisica di questa poesia, così come a Montale ci richiama la ricerca di presenze numinose (o di amuleti) che valgano a esorcizzare il “male di vivere”», W. Moretti, in “La Pianura”, anno XCV, n. 2, Ferrara 1980.