La poetica di Bertolucci: Aritmie, La camera da letto, Verso le sorgenti del cinghio – di Anna Toscano

da | Nov 19, 2020

 

Terza e ultima parte del dossier inedito di Anna Toscano dedicato ad Attilio Bertolucci.

 

 

La poetica di Bertolucci: Aritmie; La camera da letto, poesia da vedere; Verso le sorgenti del cinghio

 

 

Attilio Bertolucci nel 1991 pubblica Aritmie, con sottotitolo Incontri con artisti, libri, film. Ma anche i fumetti e i burattini, i quadri e la musica. La verità poetica rivelata dalle intermittenze della memoria. A ottanta anni dunque raccoglie saggi lasciati assopiti in un cassetto o affidati a qualche terza pagina o a qualche lettura di programma radiofonico: sono gli scampoli di un poeta, le sue schegge di curiosità, interessi, entusiasmi e riflessioni. Bertolucci toglie le date a questi saggi e poi li dispone per temi in tre sezioni: Poetica dell’extrasistole, Persone, In cerca di immagini. Unico elemento che unisce questi saggi è il cuore, il cuore del loro autore, un cuore che non funziona affatto bene ma grazie a ciò hanno esistenza. Questa poetica “del cuore” è perfettamente spiegata nel saggio che sta in limine al volume, uno dei pochissimi saggi non a pagamento apparso nel 1951 su “Paragone”: Poetica dell’extrasistole. In tre pagine Bertolucci riesce a spiegare settanta anni di poesia, cioè la propria poetica, una vita di amicizie e di incontri, di passioni e di sentimenti: tutto nato seguendo il battito del proprio cuore, come dice la frase di Paul Klee, “Segua ognuno il battito del suo cuore”, posta all’inizio del saggio. E il cuore di Bertolucci è aritmico, ma non come la maggioranza delle persone il cui cuore è aritmico dopo sforzi, ma anche in uno stato di quiete, quando:

 

 “[…] mentre parla con te un tale, in treno, ecco non segui più il filo perché un’extrasistole, o peggio una salva nutrita di extrasistoli, ti ha scosso […] l’attimo di smarrimento per il colpo andato perduto e il conseguente fortissimo ictus di ricupero siano stati tali da farmi svanire il viaggiatore”.

 

Seguendo il filo di queste aritmie, le quali data la percezione soggettiva del disturbo sono di carattere funzionale, il poeta ricorda la loro presenza anche da fanciullo quando, di nascosto, andava a posare le sue prime poesie sulla finestra del maestro facendogli credere fossero state portate dal vento.  Il cardiopalmo forse ha avuto origine allora, è:

 

“…gemello fastidioso e dolce del poetare: e l’un male forse non potrei cavarmi di dosso senza uccidere anche l’altro, che non ho deciso ancora se debba chiamar male, o no”.

 

Il termine “aritmia” è la chiave di lettura di queste prose, un po’ come lo era il termine rêverie per la poesia. Possono essere trovate d’altronde delle analogie tra i due termini: entrambi infatti indicano una sospensione del tempo, e non è detto che la sospensione della rêverie non sia dovuta a una momentanea sospensione cardiaca e che il successivo ictus di ricupero non provochi quelle magnifiche immagini provocate dalla rêverie. Le aritmie sono delle pause che, nel nostro poeta, favoriscono una applicazione improvvisa al particolare apparentemente più insignificante: ed è di questi particolari che si costituiscono tali prose. Dunque si tratta di sospensione del tempo a livello fisiologico, ma nell’opera il tempo appare frantumato; frantumazione che porta il poeta alla ricerca della continuità come sommo bene, continuità manifestata appieno nelle sue poesie. Bertolucci considera la parola aritmia “allarmante e magica” e la pone come titolo di queste prose per l’“estrema varietà, aritmicità dei temi”. Sicché in Bertolucci rêverie e aritmia possono assomigliarsi così come prosa e verso hanno numerosi punti di contatto nelle sue opere. Le poesie di Bertolucci hanno una tendenza, direi quasi innata, alla prosa; lo dimostrano i titoli delle singole poesie sin dalle prime raccolte (Pagina di diario, Diario, Romanzo, ecc.), passando per la Capanna indiana, vero e proprio poemetto, per arrivare all’opera La camera da letto, un romanzo in versi a metà strada dunque tra il verso e la prosa. Ma anche le prose possiedono questa ambiguità, come dice Domenico Scarpa, “basterebbe mettere gli a capo per avere uno di quegli interventi dell’autore nel poema”. È sufficiente un brano qualsiasi di queste prose (ad esempio “ma non era anche questo la poesia, un piacere drogante e spurio sotto lampade accendentesi tentennando nel vento, tra fine inverno e primavera?”), e modificarla con “quella strana scrittura a righe brevi e ineguali che è la poesia” per accorgerci che è, citando Giorgio Cusatelli, “poesia in forma di prosa”. Lo stesso Bertolucci in una paginetta intitolata “Verso e prosa”, apparsa nel 1983 in “Poliorama” e non raccolta in questo volume, ammette:

 

“Non so se il verso lavi la prosa, o la prosa il verso. Ma questo lavarsi reciproco, come fra amanti, mi va benissimo. Sembrerà forse un’operazione sensuale, ai rigorosi difensori del verso verso, della prosa prosa. Pazienza.”

 

La prosa e il verso di Bertolucci hanno il medesimo scopo: il recupero del passato. Se nella poesia vi era la rêverie, uno stato di veglia in cui un attimo particolarmente illuminato apriva al passato, nella prosa le intermittenze del cuore segnalano un particolare degno d’attenzione che riporta in qualche modo al passato: “fu un’intermittenza del cuore provocatami da quelle incantevoli e strazianti immagini del tempo perduto del mio ospite, a ricordarmi la mamma giovane”.

In Aritmie Bertolucci parla spesso di poesia, di quella di altri e della sua: dichiara apertamente i poeti che più apprezza riconoscendosi in loro. Il verso in assoluto perfetto è il primo della Gerusalemme del Tasso “Al fine ormai di quel piovoso inverno”:

 

“Il bel verso italiano, stagionato, non barbaro, non preraffaellita, non parnassiano, non decadente. Ma neppure ancora restaurato e lustrato dal classicismo ermetico, anzi narrativo, umilmente funzionale a fini domestici, nelle lunga ombra portata dalla Controriforma”.

 

La descrizione di questo endecasillabo tassiano è una vera e propria dichiarazione poetica, è tutto ciò che si potrebbe dire di un verso dello stesso Bertolucci. Procedendo per negazioni ci descrive come è questo verso: non aspro e stridente, non troppo semplice, non tecnicamente perfetto, non decadente, non rinnovato né freddo, ma narrativo e domestico. Per completare il quadro delle influenze della poesia bertolucciana è necessario un riferimento a Walt Whitman: il verso libero, vera ventata di novità nel panorama italiano, esaltò con i suoi ritmi nuovi Bertolucci, che lo lesse a soli quattordici anni:

 

“Chi mi trascinò via (dal verso libero), più tardi, non riuscì mai del tutto a distaccarmene. Lo dimostra la benedetta sospensione dell’extrasistole, nel verso come nel cuore: salutare avvertimento sul fatto che morte e perfezione sono una cosa”.

 

Riguardo alla propria poesia si possono trovare, sparse tra le righe di Aritmie, delle vere e proprie confessioni di poetica: tutte riconducono a quella analisi che fece Pier Paolo Pasolini, il quale per primo riconobbe nella poesia di Bertolucci un idillio spezzato dall’ansia. Sono dunque delle confessioni che riguardano lo stretto legame tra ansia e poesia, tra la famiglia e la poesia in quanto, come scrive il poeta, “forse da nessun’altra parte l’ansia nasce e vigoreggia come nella famiglia”. Viene così a riconoscere la prima e più eclatante somiglianza con Proust, in quanto anche nella Recherche l’ansia nasce nella famiglia, dal ritardo del bacio materno. Un’altra similitudine con Proust Bertolucci la rintraccia proprio nel modo di accostarsi alla scrittura; Bertolucci riconosce che “a me non è stato concesso altro che esprimere me stesso” e cioè esprimere la propria vita presente e passata, raccogliere il materiale in famiglia, quella da cui proviene e quella che ha creato. Ciò ha molti punti di contatto con una frase proustiana da Bertolucci riportata:

 

“E compresi che i materiali dell’opera letteraria non erano altro che la mia vita passata; compresi che mi erano pervenuti nei piaceri frivoli, nella pigrizia, nella tenerezza, nel dolore, immagazzinati da me senza che ne indovinassi la destinazione e la possibile sopravvivenza”.

 

La poesia dunque, per Bertolucci, è un luogo e un tempo della vita che ritorna. Non è un luogo felice, è pieno di nevrosi e di ansie proprio perché specchio fedele della vita. Sicché Bertolucci non vede nella poesia un rifugio felice, una oasi di riparo dalla tristezza o un mondo di evasione, ma vede la vita stessa e cioè, con le sue parole, “non dico paradiso ma, lasciate che mi ripeta, purgatorio della poesia”. Un purgatorio dunque dove la nevrosi, la malattia o la malinconia sono ben accette in quanto fanno parte della vita e partecipano a un processo di catarsi del poeta. Bertolucci accetta nella poesia tutto ciò che appartiene al reale perché, come dice Citati:

 

“…con la crudeltà verso sé stesso dei veri scrittori, Bertolucci crede che tutto sia benvenuto, anche la malinconia e la follia pur di cogliere le sensazioni nella carta lasciandole sempre vive e vibranti”.

 

Bertolucci cronista attento agli accadimenti dell’anima dunque, e attento cronista di quei particolari che mettono il suo cuore in un moto strano.  È di particolari che sono fatte queste prose, particolari che fanno brillare il tutto con lo stesso procedimento con cui nella sua poesia si ingegnava “di far brillare malinconicamente il sole che tramonta su di un mobile familiare, affettuosamente volgersi di una figura che non parla”.  Si lascia incantare da oggetti umili e quotidiani sia nella prosa sia nella poesia; questi oggetti sono degni di nota perché sono quotidiani e presenti, vivono la caducità e domani potranno essere degni di rimpianto.

In queste pagine Bertolucci riattraversa, viaggiatore pensoso e delicato, le passioni amate e godute: per la letteratura, il cinema, i fumetti, i gialli, le vicende della vita ed i luoghi che hanno accompagnato le stagioni di una esistenza, Parma, Versilia, Roma. Se grande spazio è dedicato alla poesia, altrettanto avviene per il romanzo. Bertolucci scrive molto riguardo Proust e la Recherche, così intensamente e a lungo elenca le influenze di questo libro su di lui e le reciproche somiglianze che viene da chiedersi come sarebbe la poesia di Bertolucci se non fosse esistito Proust: dico non fosse esistito perché, in caso contrario, sarebbe riuscito a scovarlo in ogni modo. Vi sono saggi dedicati ai grandi romanzieri che hanno influito sul nostro: Thomas Hardy e Tolstoj “semidei travestiti da romanzieri”, Flaubert “supremo maestro di esotismi ipocondriaci” Verne “quel gran padre dei miei sogni”, Whitman “liberatore dei sensi”, Verdi “supremo poeta popolar nazionale”. Tutti questi scrittori per parlare di romanzo, cioè per Bertolucci di un “viaggio”, in quanto sia il romanzo sia il viaggio hanno in comune una meta, una destinazione che si chiarisce sempre più e “che si fa alla fine abbagliante”. Il romanzo accoglie in sé “grandi pianure” e grandi spazi, persone e vicende che si muovono nello spazio e nel tempo, avventure e mutamenti, perché nel romanzo: “…c’era gente, gente che si muoveva e parlava, c’erano strade di città e di campagna, scorreva il tempo umano con il suo quieto rumore.”

Forse anche per questo Bertolucci ama i gialli, perché hanno la struttura del romanzo e perché per lui sono dei meravigliosi tranquillanti. Ma parla anche di melodramma e burattini, cinema e teatro, quadri e fumetti, amici e ricordi ma è tutto così indissolubilmente legato alla poesia da sbalordire.

I burattini e il cinema conducono a La camera da letto, poesia da vedere.

Infatti, oltre alla poesia tra le prime passioni di Bertolucci ragazzo troviamo i burattini e il cinema. Il teatrino veniva installato in primavera nel fienile della sua casa dove trovava posto anche il pubblico: quella prima “fiction” mista di botte e di polke, quelle persone fisse nel volto e così mobili nel corpo furono per lui il primo spettacolo e rimasero lo spettacolo supremo:  

 

“…devo aggiungere assieme al cinema, per quel che rimane in esso, della lanterna magica. Ma il teatro è un fatto collettivo, religioso, la lanterna magica e il cinema no, un prolungamento o un supplemento, dei sogni, dunque un fatto terribilmente individuale, irreligioso, forse empio. Un vizio solitario di gruppo”.

 

Bertolucci ginnasiale, e ormai cittadino di Parma e non più della sua campagna, era talmente preso dalla passione per letteratura, poesia e teatro che non si era quasi accorto che esisteva il cinema. Fra il ’25 e il ’26, fra i quattordici e i quindici anni una biblioteca circolante gli fece incontrare Pietro Bianchi, di qualche anno più grande di lui:

 

“Egli mi avviò al riparare il grave deficit della mia formazione che era la non conoscenza del cinema, nuovissima arte offertaci dal secolo in cui avevamo avuto la ventura di nascere. La mia risposta fu immediata e totale, coinvolgentemi in maniera così assoluta da procurarmi ansie, entusiasmi spropositati, febbrili e un po’ folli”.

 

Bertolucci, già più grande, dovette fare per un anno il mestiere del critico cinematografico per un quotidiano; mestiere, a suo giudi­zio, all’apparenza piacevolissimo ma in realtà orrendo e degradan­te. Ripensare a quei periodi passati al chiuso di un cinema gli dà un senso di angoscia, e i rari momenti non del tutto perduti di quel tempo li deve ricer­care negli intervalli: quando la luce nuovamente accesa poteva rive­largli esemplari d’umanità ben più interessanti di quelli che lo schermo con tanto falsificante evidenza imponeva.

I saggi di Aritmie sfuggono ai percorsi della cultura, alle connessioni della storia, alle gerarchie dei contenuti, non hanno date e sono collegati tra loro con un “montaggio” arbitrario, discon­tinuo e frammentario. Montaggio nell’accezione di Tarkovskij che riguarda non solo il cinema ma tutte le arti:

 “Il montaggio esiste in qualsiasi arte, come conse­guenza della necessità di una scelta e di un collegamento, opera­ti dall’artista, senza i quali non può esistere nessuna arte”.

 

In questa raccolta di saggi vi sono bellis­sime pagine dedicate al cinema: vissuto e rivissuto nel perenne stupore di occhi infanti­li. Nel volume autobiografico di Ingmar Bergman, Lanterna magica, tutto è evocato al modo di quella lanterna che oscillando giù in strada disegna misteriosamente luci e ombre sul soffitto. In Bertolucci, come nella dimensione incantatoria del teatrino dei burattini dell’infanzia, le pagine hanno lo stupore di un tempo eterno che ritorna. Tra i suoi scritti le parole più ammirate e gonfie di sentimento vanno a Le luci della ribalta quando “Chaplin viene a turbare le pacifiche acque del cinema, riproponendosi per intero quando non si chiederebbe di meglio che canonizzarlo e passare oltre”. Un film muto che “parla” di sentimenti utilizzando i volti dei protagonisti “che lo schermo ci porta sin dentro al cuore”. Bertolucci approfitta di questo film per dare il suo giudizio sul cinema di allora:

 

“È sperabile che il pubblico, cui la cucina del cinema d’oggi, con le sua droghe di sesso e delitto sintetici, deve aver guastato non poco la bocca, sappia gustare questo patetico «de senectute»”.

 

Tutto l’amore e la passione per il cinema di Bertolucci lo ritro­viamo nell’eredità culturale lasciata ai suoi figli: Bernardo, il quale da giovane era l’aiuto-regista di Pasolini, e Giuseppe anche lui regista. Ma questa passione traspare soprattutto dal modo in cui Bertolucci vede il mondo e lo trasferisce in poesia, in quanto, come dice Tarkovskij:

 

“[…] la poesia io non la percepisco come un genere. La poesia è una sensazione del mondo, è un tipo speciale di rapporto con la realtà. In tal caso la poesia diventa una filosofia che guida l’uomo durante tutta la sua vita”.

 

Una scrittura cinemato­grafica potremmo definirla quella di Bertolucci che cresce e si fa più evidente con l’evolversi della sua poetica. L’opera dove ciò è più evidente è La camera da letto, il romanzo in versi iniziato nel 1956, la prima parte è stata pubblicata nel 1984 con il sottotitolo Romanzo famigliare (al modo antico), e la seconda parte nel 1988. È una saga familiare e un romanzo di memoria: lo stesso autore ci fornisce indicazioni sul suo archetipo ispirativo, il manoscritto Memorie dei fatti straordinari successi alla casa Bertolucci ed altri degni di memoria nelli anni 1873 e negli altri progressivi, ritrovato nei cassetti della vecchia casa di famiglia.

Romanzo, infatti, è l’opera dal punto di vista della costruzione in quanto segue, con studiata lentezza, le vicende della vita del poeta, dalla remota emigrazione degli avi dalla Maremma all’Appennino fra Toscana ed Emilia, fino alle figure  dei più vicini parenti nel tempo, i nonni, i genitori, i fratelli, e all’acquisizione, conclusivamente da parte del poeta stesso bambino, poi ragazzo e adolescente, della funzione di protagoni­sta; le vicende si snodano nel secondo libro, lungo le vicende del poeta adulto e dei nuovi famigliari venutisi a creare nel tempo e le storie. Importanti sono i personaggi e ciò che a loro accade: la vita degli uomini è una cerimonia osservata dagli occhi del bambino attra­verso una macchina da presa e raccontata con la penna dal vecchio annalista che sa già tutto, il quale accompagna per mano il bambino verso il supplizio con un sorriso rassicuran­te, affabile, collo­quiale, col passo calmo e “padano” di Attilio Bertolucci filtrato dagli scrittori inglesi e dalla voce di Omero e di Tasso.

La sfida di questo poeta non aspira (lo diceva Montale) a una visione della vita e non svolge programmi ma, crede in un genere, se non in una vocazione: quello del cronista di accadimenti psichici, del fotoperatore di sequenze memoriali mai sottratte alla scena concreta del loro rivelarsi. Uno sguardo estraneo ed esterno osserva da una prospettiva distanziata, ma partecipe, le vicende minime di una quotidiana rappresentazione di vita: si ha l’impressione che sia ciò che “l’unico occhio” di Attilio-scrit­tore-regista vuol vedere nel momento in cui inquadra la realtà.

Importante credo sia definire quali possano essere le tecniche di scrittura di Bertolucci, nel La camera da letto, che implicano parallelismi tra linguaggi diversi, cioè tra quello poetico e quello cinematogra­fico. Interessante è indagare come la sugge­stione di uno sguardo che possiede tutte le gradazioni dell’ob­biettivo sappia farsi struttura testuale, con effetti di profon­dità di campo o di dissolvenza; o come le carrellate su personag­gi e oggetti, le panoramiche paesaggistiche, i campi lunghi, funzionino trasferite dal tempo reale al tempo intimo della memoria.

Pasolini sosteneva, in Cinema di poesia, che anche un poeta “può leggere visivamente la realtà” e Sklovskij considerava “la poesia un particolare modo di pensare e precisamente un pensiero che si attua per mezzo di immagini.” L’elenco dei poeti «visivi» sareb­be lunghissimo, anche perché la poesia è sempre stata tramata di immagini. Lo stesso Pasolini sosteneva che nella letteratura esisteva già una forte dose di elementi cinematografici. Lui stesso ci fornisce l’esempio più estremo in Poesie mondane del 1962, vera traduzione poetica della sceneggiatura dell’ormai prossimo Vangelo secondo Matteo: poeta sceneggiatore che scrive in lingua e pensa per immagini, alternando primi piani, campi lunghi e dettagli.

Pasolini, sempre in Cinema di poesia, sottolinea che il “cinema è onirico per la elementarità dei suoi archetipi” cioè per “l’osservazione abituale e quindi inconscia dell’ambiente, mimica, memoria, sogni”. Vi è una somiglianza con Bertolucci poeta, con la sua attitudine all’osservazione continua e il ritorno delle immagini passate che vanno a creare una sequenza, e per l’uso di immagini concrete e visibili. Poi Pasolini effettua una distinzione tra linguaggio letterario e linguaggio cinematografico: il primo è un linguaggio «lecito», fatto di parole, mentre il linguaggio cinematografico è «arbitrario» e comunica attraverso immagini. Sottolinea poi che vi è un mondo nell’uomo, il mondo della memoria e dei sogni, che si esprime attraverso immagini significanti, ovvero per im-segni. Gli im-segni sono dunque il risultato di ogni sforzo ricostruttore della memoria, la quale crea cosi delle sequenze cinematografiche. La rêverie bertolucciana ha molto in comune con gli im-segni soprattutto la dimensione di memoria o di sogno che viene ricostruita per immagini significanti. Unica distinzione è che in Bertolucci la rêverie è spontanea e avviene senza alcuno sforzo ricostruttore. Il cinema di poesia, che per Pasolini è “fondato sull’esercizio dello stile come ispirazione sinceramente poetica”, ha dunque molte somiglianze con la poesia di Bertolucci.

Garboli definisce La camera da letto un “film in versi” e indivi­dua un momento tecnicamente riconoscibile in cui Bertolucci ha la rivelazione formale del poema che sta scrivendo. Questo momento cade nei primi anni Sessanta e coincide con il passaggio al cinema di Pasolini e con i primi film di Bernardo. È in questo periodo che Garboli nota un cambia­mento:

 

“Il passo dell’endecasillabo si allunga, prende un ritmo elastico, sinuoso, da fiume con tante anse, e nascono i versi piegati e arruffati come lenzuoli, mentre al filtro figura­tivo si sovrappone il gusto dell’obbiettivo: l’inquadratura, il detta­glio, il piano-sequenza”.

 

La costruzione del romanzo è affidata all’uso, in funzione narrativa, della tecnica dello sguardo: l’obbiettivo, la macchina da presa si sostituiscono alla vecchia maniera del romanziere. Questa tecnica blocca il tempo, perché ciò che è raccontato da Bertolucci non «trascorre» nel tempo ma è solo ciò che si vede. Si entra nel poema di Bertolucci sempre al presente; c’è un grande accumulo di tempo, c’è il pensiero, l’ossessione, il sentimento del tempo, ma non l’emozione del tempo. Questa emozione è rimossa: il tempo non è una realtà ma è una condanna. Contano gli antefatti ma non il passato: il tempo accumulandosi si concentra nel presente assottigliando ai margini il passato e il futuro.  Il cinema è forma d’arte per eccellenza in cui il tempo si concentra tutto al presente; il tempo di Bertolucci è dunque il tempo che scorre nei film, un tempo che fugge nel presente e che non torna indietro.

Il presente storico prevale e blocca la successione del tempo in fotogrammi nitidi: il “presente dell’accadere” diceva Pasolini. Così è anche in Bertolucci. Ma il suo presente corrisponde poi ad una intenzione precisa, a una dichiarazione di poetica:

 

“Questo eterno presente io l’ho veramente voluto, come un modo per sconfiggere l’idea della morte. Ho voluto in un certo senso fermare il tempo che è sempre il protagonista di questo poema”.

 

Spetta al montaggio dei capitoli, delle sequenze, orientare quel presente, trasformarlo in trama, in racconto: ma rimangono a rallentare la successione dei fatti le divagazioni sui dettagli, su oggetti che, come nel cinema, “dicono di sé solo ciò che sono in quel momento”.

 

Nel 1971, a venti anni di distanza da La capanna indiana, Bertolucci pubblica Viaggio d’inverno. A differenza del ventennio di stasi che separa la raccolta Fuochi in novembre da La capanna indiana, questi anni sono di intensa attività culturale: collaborazioni al terzo programma della Rai, consulenza alla Garzanti, redazione di riviste letterarie tra cui «Paragone», «L’Approdo letterario» e «Nuovi argomenti». Questi sono gli anni in cui, in un altro tavolo, compone il romanzo in versi La camera da letto.

Viaggio d’inverno nasce da un mutamento, da una evoluzione nel percorso poetico di Bertolucci, che il poeta stesso ha rilevato con ironia:

 

“Per anni si è parlato di coerenza, per me, che è una virtù, certamente, ma forse un po’ restrittiva. La parola mi è venuta un po’ a noia. […] Ricorrendo un po’ ironicamente alle formule dei politici, perché non dire che in me c’è stata «un’evoluzione nella coerenza» o una «coerenza nell’evoluzione?»”

 

Il cambiamento riscontrabile in Viaggio d’inverno rende l’immagine consueta di Bertolucci, poeta bucolico del tempo che fugge, inadeguata per l’interpretazione di questa raccolta. È un mutamento indicato da Pier Vincenzo Mengaldo come “il secondo tempo di Bertolucci”. Vi è cambiamento ma è un cambiamento strettamente legato alla vita in quanto la poesia di Bertolucci è vita, scriverà infatti di Viaggio d’inverno: “È un libro strano, vedrai, trascolorante, molto, anche troppo mio” e “C’è tanto della mia vita, mi basta”.

La vita del poeta nel 1958 attraversa una fase delicata e ne risente anche la poesia, lui stesso lo indica come anno di svolta: “Al ’58 non al ’68, ma forse il mio ’58 è stato il mio ’68, un momento cioè di crisi, di mutamenti dolorosi ma forse salutari”. Questa data indica l’avvenuto trasferimento a Roma e la morte del padre del poeta, fatti che influenzarono notevolmente la sua grave crisi psicologica e la nuova raccolta di poesie che andava componendo: Viaggio d’inverno. In queste poesie il termine “ansia” è molto presente (assai ricorrente già in In un tempo incerto), mentre il termine “pazienza”, parola chiave nelle precedenti raccolte nelle quali indicava soprattutto la “pazienza dei giorni”, viene improvvisamente a mancare. Pare quasi che Bertolucci abbia pazientemente osservato lo scorrere dei giorni per giungere alla maturità e ritrovarsi impaziente di fronte agli eventi della vita.

In Viaggio d’inverno Bertolucci cerca le origini e le cause del male che era affiorata sotto forma di nevrosi ed ansia nella precedente raccolta, dirà: “Viaggio d’inverno per me è la malattia, e La camera da letto la terapia”. Questa raccolta “è la malattia” in quanto il poeta non si sottrae all’ansia, non cerca vie per fuggire, la affronta per conoscerla meglio e collabora con essa utilizzandone tutti i frutti possibili.

Viaggio d’inverno è simile alla “piccola terapia d’appoggio, di chiacchiera con lo psicologo” che il poeta seguiva negli anni di crisi: è dunque una sorta di diario personale in cui il poeta raccoglie i moti dell’anima.

Tesi questa sostenuta dal fatto che in questa raccolta, a differenza delle precedenti, è molto difficile se non impossibile rintracciare similitudini, paragoni o confronti con altri poeti. Sono anni questi in cui Bertolucci rilegge maestri come Hardy o Pound dei Cantos. Le radici di questa raccolta vanno dunque ricercate nel profondo del poeta e nella malattia perché:

 

“…a causa della malattia nella mia personalità avvenne un vero e proprio terremoto, bisognerebbe trovare dei chiarimenti che provengono dalla psicoanalisi più che dalla letteratura”.

 

La conversione al vero che Mario Luzi riscontrava nelle liriche de La capanna indiana rispetto a quelle di Fuochi in novembre ora è ancor più accentuata: è una conversione al vero che implica un sofferto riconoscimento della realtà come portatrice di istanze dolorose e un legame più stretto con gli oggetti che le parole rappresentano. Leggendo in senso non letterale la lirica “Decisioni per un orto” si può scorgere una dichiarazione di poetica, un “modus operandi linguistico”:

 

Bisogna rivalutare questo orto

recingerlo dove è aperto di rete metallica

azzurra sostituendo i pali fradici

pallidi di vecchiaia con altri

 

appena scortecciati di un bianco

che si dora all’aria con lentezza

e felicità e saranno le piogge e le nevi

di là da venire ad argentarli

 

così che di essi non si distingua l’età.

 

L’orto di cui parla Bertolucci è l’orto di Casarola, ma forzando il testo si può leggere in esso un riferimento all’orto della poesia, che deve essere rivalutato sostituendo le parole di tutti i giorni sbiadite dall’uso (“i pali fradici di vecchiaia”), con le stesse parole quotidiane ma “ravvivate e rinverginate” (“con altri appena scortecciati”).

Il paesaggio di Viaggio d’inverno è dunque Parma, la quale con le sue pianure e le vicine montagne resta sempre il luogo dell’anima come lo Hampshire di Jane Austen o il Wessex di Thomas Hardy, ma l’orizzonte si allarga fino a raggiungere Roma. Ritroviamo le ore, i giorni, i mesi, le stagioni ai quali “l’autore è fedele come uno scultore del suo duomo,” troviamo tutte le umili cose che hanno destato l’attenzione del poeta nelle precedenti raccolte. Ora a rubare il primato delle epifanie naturali a gaggìe e viole vi sono i papaveri i quali se non fossero una gramigna, destinata a essere strappata dalle mani dei bambini al loro passare lungo i fossati, forse non desterebbero l’attenzione del nostro poeta. La prima lirica che apre la raccolta è appunto “I papaveri”:

 

Questo è un anno di papaveri, la nostra

terra ne traboccava poi che vi tornai

fra maggio e giugno, e m’inebriai

d’un vino così dolce così fosco.

 

Dal gelso nuvoloso al grano all’erba

maturità era tutto, in un calore

conveniente, in un lento sopore

diffuso dentro l’universo verde.

 

A metà della vita ora vedevo

figli cresciuti allontanarsi soli

e perdersi oltre il carcere di voli

che la rondine stringe nello spento

 

bagliore di una sera di tempesta,

e umanamente il dolore cedeva

alla luce che in casa s’accendeva

d’un’altra cena in un’aria più fresca

 

per grandine sfogatasi lontano.

 

Il modello strofico è quello de La capanna indiana: quattro quartine, di versi prevalentemente endecasillabi, con rima tra secondo e terzo verso, più un verso finale isolato.

La lirica I papaveri è l’esempio di come, in questa raccolta della maturità, Bertolucci sia fedele agli oggetti umili e quotidiani della vita, ma è accompagnato anche da un sentimento di inquietudine e ansia forse perché, come sottolinea Pietro Citati, “maturità è la più inquieta tra le età umane”.

Le liriche di questa raccolta sono collocate spazio-temporalmente, ma è una collocazione che assume un significato diverso e profondo. Mentre nelle precedenti poesie lo spazio ed il tempo erano costantemente presenti e richiamati alla mente per un attaccamento alla realtà della vita che diventa poesia, e per l’istanza narrativa legata al “dove” e al “quando” (essendo spazio e tempo categorie costitutive dell’opera d’arte e fondamentali nel ritratto di una personalità), in questa raccolta il significato cambia.

In questa silloge Bertolucci abbandona la punteggiatura e la normale sintassi, tanto che la resa è stata definita da Giovanni Raboni una specie di action painting:  il metodo di dipingere del pittore Jackson Pollock e cioè lo sgocciolare del pennello sopra le tele distese. Lo stesso Bertolucci parla di questa tecnica rapportandola alla sua poesia:

 

“In molte poesie di Viaggio d’inverno io ho abolito non proprio tutta la punteggiatura, ma senz’altro le virgole, in modo che un aggettivo possa attaccarsi alla parola prima o a quella dopo, lasciando questa specie di mobilità, in modo che possa venire spostato a piacimento dalla mente del lettore.”

 

Questo nuovo modo di scrivere comporta notevoli conseguenze tecniche: il periodo si complica, aumentano gli enjambements, appare un personalissimo blank verse lungo, talora vagamente esametrico. Secondo la definizione di Raboni, dunque, la vita sgocciola dalla penna di Bertolucci direttamente sul foglio. È questo il motivo per cui in Viaggio d’inverno troviamo tutto ciò che circonda la vita di Bertolucci: le cose care di sempre (Parma, la famiglia, gli amici), e ciò che non è poi così caro ma gli dà ugualmente vita per scrivere (Roma, il buio, l’ansia).

La terza sezione di questa silloge, Il tempo si consuma, è composta da una unica lirica che porta lo stesso titolo; scritta nel 1957, in quel periodo già evidenziato di crisi psichica e di stasi compositiva dell’autore, questa poesia può essere considerata lo spartiacque di Viaggio d’inverno. Inizia così una seconda parte più complicata e offuscata. Il poeta concentra ancora di più l’attenzione su se stesso e sui suoi problemi. Il periodo si fa più complesso, scrive Garboli che “i pensieri si allargano pigramente”, si intravede il richiamo alla sintassi proustiana e “al gusto della frase a lenzuolo”. Nelle prime raccolte la passione di Bertolucci per Proust e la Recherche si può notare da alcuni temi comuni. Le aritmie bertolucciane  e le  intermittenze del cuore proustiane si assomigliavano nei loro esiti: quella di Proust è una prosa di epifanie, mentre Bertolucci approda a una poesia di epifanie. Per quanto riguarda le prime raccolte di Bertolucci, essendo le vite dei due autori completamente differenti, non vi può essere nessun altro punto di contatto al di fuori di un simile modo di sentire la vita. In Viaggio d’inverno lo stato psichico di Bertolucci, per i motivi a cui sopra è stato accennato, si avvicina a quello di Proust: anche Bertolucci soffre ora di una malattia del sistema nervoso, ed è proprio questo che lo avvicina ancora di più al suo autore preferito. La malattia nervosa provoca in Bertolucci un progressivo egocentrismo o la presenza ossessiva di, come scrive Garboli, “un io insieme egocentrico e decentrato, quasi emarginato”. In queste ultime poesie, Bertolucci, finge di rompere la struttura tradizionale del verso componendo delle poesie costituite da un verso solo, che Mengaldo descrive come “un solo lungo verso disperatamente attaccato a restituire e a sfaccettare in tutti gli aspetti una cosa vista, fuggitiva”. Una dimostrazione di questo nuovo periodo non imbrigliato da punteggiatura ma libero di catturare ogni spostamento dello sguardo è “Non”, della quarta sezione “Per una clinica demolita”:

Non mi lasciare solo se io

ti lascio sola

e intorno a te la luce

è quella che fa piangere

dei giorni ordinari,

 

non allontanarti con passo

fiducioso in direzione

dell’estate e non

considerare rassegnata

la fatalità delle averse e del sole,

 

non acquistare viole in prossimità della casa.

 

Gli imperativi negativi (come quelli affermativi), sono ricorrenti in questa ultima raccolta; in questa poesia ve ne sono quattro (vv.1, 6, 8-8, 11), di cui tre messi in evidenza dall’anafora, la quale richiama il titolo. Nelle prime due strofe ha collocato uno dei lamenti più intensi e drammatici di tutto il libro. Il poeta ha paura e non vuole essere lasciato solo nella luce “dei giorni ordinari”, una luce che “fa piangere”, ed è ossessionato dallo scorrere del tempo. L’ultimo verso, legato ai versi precedenti solo dall’anafora, non ha alcun rapporto logico con quanto lo precede, sembra introdotto per sdrammatizzare. Il termine “piangere” fa la sua apparizione in questa raccolta e sottolinea la sofferenza della malattia, della nevrosi; viene utilizzato solo cinque volte per indicare un distacco o l’incertezza dei giorni: “fuggo piangendo da voi”, “occhio che vuole lagrimare e non vuole”, “Qui dove un poeta ha pianto…” e “se il mattino ti svegli piangendo.”

È la silloge dello smarrimento delle poche speranze, dell’aggrapparsi agli imperativi che sono incaricati di mettere dei recinti alla visione, alla vita, agli eventi, per far in modo che nulla entri nuovamente a turbare e nulla esca a sperperare: una sorta di autopreservazione contro il dissipamento, aggrappandosi al verso lenzuolo che chiude molto con calma.

Ma saranno le raccolte postume e i carteggi che apriranno nuovi squarci di lettura e daranno nuovi spazi di meraviglia nel e dal mondo di Attilio Bertolucci.

 

 Immagine: Foto di Dino Ignani.

 

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