Playlist di libri. Traccia 3

da | Giu 27, 2014 | Senza categoria

Ellen Waddell dei Los Campesinos! propone la traccia numero tre della playlist – e c’è anche un racconto.

 

A giugno le traduzioni dalla riviste estere si trasformano in una nuova rubrica.
Secondo gli editor della rivista londinese Five Dials, se siete come loro, e come noi, vi capita di passare parecchio tempo guardando video musicali, esibizioni dal vivo riprese con mani malferme, e una volta o l’altra vi siete detti “sì, tutto molto bello: ma questa gente cosa legge?
Perciò hanno chiesto ad alcuni musicisti di parlare del loro romanzo preferito, e del loro brano preferito del romanzo preferito.

 

 


… e ora parliamo di Kevin, di Lionel Shriver

La prima volta che ho preso in mano …e ora parliamo di Kevin ho perso la pazienza al primo capitolo. Ero al primo anno di università e stavo cercando di ricominciare a leggere per piacere. Il mio cervello si stava esaurendo a forza di pesanti libri di testo teorici. Volevo leggere qualcosa di narrativo e d’evasione: un’abitudine che ho acquisito quand’ero piccola e i miei genitori stavano attraversando un aspro divorzio, e che ho sviluppato quando la mia matrigna mi accusava di seppellire la faccia in un libro invece di occuparmi di qualcosa.
Vagando nella Waterstone’s di zona mi sono ritrovata di fronte all’espositore dell’Orange Book Prize e sono stata istantaneamente attratta da Kevin, non solo per gli importanti riconoscimenti di colleghi affermati, ma anche perché il libro parlava delle conseguenze di una sparatoria in un liceo. L’ultimo libro che avevo letto sullo stesso argomento – il brillante Hey Nostradamus! di Douglas Coupland – era diventato uno dei miei preferiti. Vai dove conosci.
Il libro era sotto forma di una serie di lettere scritte da Eva Khatchadourian al suo ex marito, Franklin, dove cerca di capire perché loro figlio abbia brutalmente ucciso dei suoi compagni di classe. Eva passa dal presente (l’indomani e le visite al figlio in prigione) al passato (l’educazione di Kevin) mentre cerca di decifrare e venire a patti con la trasformazione del figlio. È una voce narrante fredda e debole, che non allude alla propria mancanza di istinto materno, ma fornisce comunque le prove di come il figlio possa aver portato con sé questi istinti dalla nascita. Discute le differenti impostazioni genitoriali impiegate da se stessa e dal marito, il proprio risentimento e il malessere verso il figlio, e riflette sui possibili segnali che potessero condurre alle uccisioni, nel tentativo di comprendere di chi potesse essere la colpa, ammesso che fosse di qualcuno.
La prima volta ho smesso di leggerlo. All’inizio mi piaceva il tono del sottotesto “natura vs cultura”, ma in pratica era un libro pesante e doloroso da leggere e non ero in grado di gestire la materia. Non era l’anno giusto per sviscerare il difficile rapporto tra una madre e il figlio, figuriamoci per esplorare l’argomento taboo di non piacere a se stessi. Era l’anno per Anne Rice. Ho deciso di riaprire il libro dopo l’università, quando mi sono sentita più saggia, o almeno meno emotivamente fragile. Appena ho iniziato a leggere sono stata assorbita e conquistata, ma l’assorbimento è stato riconosciuto e capito per quello che era. I sentimenti sono cresciuti per la grande scrittura, ma potevo anche chiudere il libro e bere un tè. Potevo spegnerlo, o così pensavo. Un giorno in cucina ero quasi alla fine del libro e mi sentii riempire di una curiosità morbosa. Presto avrei scoperto esattamente cos’era successo in quel particolare giovedì in cui Kevin aveva deciso di uccidere i suoi compagni. Non era pronta per la traiettoria ad effetto che mi aspettava, quella che arriva verso la fine e ti distrugge come lettore – l’orribile tragedia personale che il narratore ha condotto sin da pagina uno e il linguaggio brutale che la descrive. Non voglio dire cosa accade – per favore leggete questo libro – ma è così terribile e ben raccontato che ti lascia asfaltato. Mi accasciai sul pavimento della cucina. C’era una frase in particolare che mi aveva scioccato così tanto che ero rimasta a fissare a bocca aperta le parole prima di dire ad alta voce “no”. Mi aveva ricordato le tragedie greche che amavo, il glorioso orrore delle Baccanti – e anche la disperazione in Dante. Poi singhiozzai. Singhiozzai molto. Ho dovuto sdraiarmi sul divano un po’ per superare lo shock. Mia madre mi ha trovata lì un’ora dopo, era confusa sul perché fossi così scossa da un libro. Era il modo in cui Shriver aveva dipinto l’immagine viva di questo narratore che sembra non lasciarci entrare. Mi sentivo così male per lei, così impotente, e capivo perché fosse così distante. La rivelazione non cede mai al vuoto melodramma, accennando all’isteria soltanto nella scena in cui lei trova qualcosa che non potresti immaginare neanche nel tuo incubo peggiore. Sembrava reale, troppo reale, e la mia reazione è stata una testimonianza della natura autentica della scrittura. Vorrei non averlo riletto in un certo senso, e poter cancellare quella parte, ma allo stesso tempo ha perfettamente senso. Rende il libro perfetto.

 

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Ellen Waddell è stata la bassista dei Los Campesinos! dalla loro fondazione fino al 7 dicembre 2012, quando ha annunciato che avrebbe lasciato la band. Adesso si dedica ad altre arti: scrive sceneggiature, pezzi sulla cultura pop e racconti. http://ellenwaddell.tumblr.com/

 

(Racconto pubblicato su McSweeney’s)

LETTERA APERTA ALL’AGENZIA INTERINALE CHE CONTINUA A MENTIRMI RIGUARDO QUANTO SIA BUONO UN LAVORO

Di Ellen Waddell

Ragazzi,
capisco che pensate sia divertente dare appuntamento a due persone per un lavoro di merda alla reception, ma in realtà è molto fastidioso. Specialmente quando sei quella che deve tornare a casa e non guadagnare una lira perché è arrivata trenta secondi dopo l’altra ragazza, la quale era più veloce soltanto perché non indossava inappropriatamente tacchi alti da receptionist, come una cazzo di sprovveduta.

Voi vi prendete un terzo di quello che guadagno per ogni ora che io scansiono, salvo, o fingo di saper usare Excel, e non capisco perché. Non mi pagate mai nei tempi, mi affibbiate sempre i lavori peggiori perché sapete che ne ho bisogno e che ci tengo a fare bella figura, e voi vi comportate come se due settimane di inserimento dati siano una sorta di sfida entusiasmante. Apprezzo il vostro entusiasmo, ma non facciamo finta che sia come scalare l’Everest, o, per quello che conta, che sia quello che davvero voglio fare nella vita.

E non pensate che non abbia decifrato il vostro codice aziendale da agenzia interinale. Quando dite “le persone in questa azienda dicono pane al pane”, intendente in realtà “questi tizi sono dei razzisti imbecilli”. E quando dite “si aspettano un rapido ritmo lavorativo” intendete “nessuno avrà il tempo di mostrarti come fare il tuo lavoro, e se la prenderà se fai domande”.

Ho iniziato ad avere sospetti su quanto vi interessa di me dopo Truck Gate. Vi ricordate Truck Gate? Quando mi avete messa nel reparto amministrazione di una compagnia di camion di trasporti, e io vi ho chiamato da una stazione di servizio piangendo perché avevo gli attacchi di panico in bagno e non ce la facevo più? Mi avete risposto che loro forse usavano un linguaggio osceno, ma d’altra parte erano persone carine. Loro NON erano persone carine. Si odiavano tutti, e quando uno lasciava la stanza i colleghi parlavano di quanto fosse grasso, stupido, o avesse figli orrendi. Ho sviluppato rapidamente il terrore di lasciare le stanze. In più mi prendevano in giro per come facevo le fotocopie, non volevano insegnarmi a portare i camion, e mi hanno fatto guidare una macchina che non ero assicurata né capace di guidare. Il linguaggio osceno era l’ultimo dei miei problemi. E quando me ne sono andata, uno di voi, nella sua cantilenante voce, confessò che il suo fratellastro aveva lavorato là e aveva detto che era stato il periodo peggiore della sua vita. DELLA SUA VITA.

E non sembrava fregarvene un cazzo dei miei diritti umani. Non avete fatto nulla quando mi sono lamentata della ridicola regola del bagno in quello studio di architettura. Ogni volta che dovevo usare il bagno, dovevo mandare una mail ad una donna di nome Patsy, la quale doveva coprire il mio posto alla reception. A volte Patsy mi ignorava per delle ore. Io stavo semplicemente seduta lì ad aspettare che la mia vescica esplodesse, sapendo che Patsy veniva pagata per ogni minuto della mia sofferenza.

E potevate avvisarmi riguardo le fottute consulenze pro bono che ho finito per fare. Sono andata avanti a parlare con i membri senior dello staff che mi raccontavano i loro più profondi e oscuri segreti, e io dovevo mostrare interesse per non essere licenziata. Pensano che dal momento che sono a tempo determinato possono raccontarmi qualunque cosa, come un secchio della spazzatura parlante da riempire dei loro più profondi rimpianti. Sapete cosa fanno queste persone? Tirano fuori le loro poesie, mi fanno ascoltare i loro demo musicali, insistono che senta quanto la tetta sinistra sia più grande della destra e mi chiedono se secondo me dovrebbero lasciar perdere tutto e diventare modelle di intimo.

Bramo un lavoro a tempo determinato dove io non inizi a pensare di scriverci una sitcom ma poi decido che non lo faccio perché sarebbe troppo triste. E quello che mi pagate non è minimo, è nonsense. Ho ricevuto la stessa paga oraria di merda per copiare numeri in un tabulato e per parlare su Gchat come ho fatto per le assicurazioni sulle vacanze per un’agenzia per ha entrate di milioni. Per favore non “sfidatemi” facendomi guadagnare lo stesso che prendevo stando dietro un computer a scrivere sceneggiature, come quando lavoravo durante la pausa pranzo, convincendo una donna di nome Louise che le sue due virgola sei tonnellate d’acciaio sarebbero state in Scozia venerdì.

Il tempo con voi ha fatto schifo. Cercherò un’altra agenzia interinale che mi succhierà via la linfa vitale, ma spero che almeno sarà più sincera al riguardo.

 

Tiziana Scalabrin

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).