Per quant’è lungo un bacio /3

da | Ago 19, 2014 | Senza categoria

El arte no tiene miedo, l’arte non ha paura è lo slogan scelto per i tour di Morante de la Puebla, il più gitano dei matador, che s’esibisce pure accomodato su una sedia nell’arena, che affronta i tori inginocchiato a portagayola oppure scalzo, l’andaluso che fuma, aspettando il suo turno, un Cohiba nella plaza. Non gli hanno eretto, come a Curro Romero, una statua di bronzo mentre è vivo, ma la sua effigie quest’anno è stata ammessa nel Museo delle cere di Madrid.
Al di là dello slogan, José Antonio Morante Camacho vive con la paura come tutti i toreri. Anzi ne è perseguitato, però “nunca maltrato a mis miedos” dichiarò in un’intervista. L’uomo che ama i cavalli, i galli da combattimento e la pittura, che voleva toreare “come Zidane gioca a pallone”, che si tiene in forma con la boxe ma non fa incontri di pugilato per paura, il bohemién con sigaro e cilindro ha vissuto un lungo dramma psichiatrico, un disturbo della personalità che dovette curare a Miami con dieci sessioni di elettroshock. L’incubo ricorrente, d’essere trafitto da cornate “invisibili e senza sangue”, l’ha tenuto a piangere nel letto senza forze. Dice Morante: “E’ come se uno non fosse se stesso, come se il tuo corpo non fosse il tuo corpo e ti vedessi da fuori”.
Per la paura, a un torero spunta più barba nei giorni di corrida. Lo raccontò el fenomeno Juan Belmonte nell’autobiografia curata dal giornalista Manuel Chaves Nogales: “Nelle ore precedenti la corrida, si prova tanta paura che tutto l’organismo è smosso da un’intensissima vibrazione, capace di attivare le funzioni fisiologiche fino al punto di provocare quest’anomalia che non so se i medici ammetteranno, ma che tutti i toreri hanno potuto sperimentare in maniera categorica: nei giorni dei tori la barba cresce più in fretta”.

Non c’è una paura sola. Ci sono le paure.
Antonio Diaz-Cañabate, che collaborò all’opera monumentale del Cossío sulla tauromachia, trascorse molto tempo nell’antica taverna madrilena dove sono andato a bere vino una sera con te.
Entrando nel locale di Antonio Sánchez mi parve di rientrare in un passato da cui forse, per distrazione, uscimmo un giorno per una vacanza breve, di pura curiosità, senza sapere che ci saremmo smarriti tanto a lungo che fino a pochi giorni fa, quando ci siamo andati, non avremmo più trovato la strada per tornare. Forse la sensazione che prese Gómez de la Serna nel soggiorno a Napoli dovette carezzare me l’altra sera, e adesso che l’incantesimo s’è rotto, o che invece mi riafferra, non so dire se la vera vita sia là dentro, mentre tu parli sotto i lumi a gas, o è questa adesso, davanti al pc su cui organizzo, timoroso di crederci e rassegnato per non essere creduto, un racconto dedicato ai tori, all’eros e alla morte.

E’ nella Historia di Diaz-Cañabate, consacrata alla Taberna, che si trova una scherzosa riflessione sulle forme della paura e sull’ipotesi che abbiano lo stesso peso, com’è vero tra un chilo di piombo e uno di piume: “Non credo che lidiare una corrida di tori Miura, di trecento o cinquecento chili, spaventi tanto quanto metterti seduto davanti a quel terribile volto di don Salvador Torres Aguilar, cattedratico di Procedura penale all’Università Centrale nei miei giorni studenteschi. E questo si faceva gratis, per accontentare i nostri genitori e una fidanzata che aveva promesso di sposarci quando avessimo preso la laurea”.

– E lei, Manolo, perché sta tanto serio nella plaza?
– Il toro sta ancora più serio, rispose Manolete.

Celava in un’imperturbabilità lunare le paure il califa cordovese, tanto che per capire se ne avesse bisogna leggere la lunga intervista rilasciata a El Caballero Audaz, nom de plume di José Maria Carretero, poco tempo prima della cornata fatale di Linares il 28 agosto ‘47. Alla domanda quando abbia visto la morte più vicina, Manolete risponde secco: “Toreando, nunca”. Racconta invece che fu durante un viaggio in macchina nel Messico, verso la plaza dove si doveva esibire, per una strada tutta curve con un burrone a destra e i fossi a sinistra. I freni si ruppero a 140 all’ora: “Fue un momento de angustia que invadiò todos los corazones”. La prontezza di Manolete evitò la fine, perché impugnò lo sterzo costringendo l’autista a deviare verso sinistra. La vettura dopo spaventosi testacoda si fermò e ne uscirono tutti illesi: “La sera stessa toreavo, e rispetto al pericolo che avevamo passato qualche ora prima, quello rappresentato dal toro mi sembrò insignificante”.
Ci sono varie forme di paura e un chilo di piombo sempre equivale a uno di piume. Così Belmonte spiega perché, come Sánchez Mejías, fosse tornato ai tori. Viveva ormai tranquillamente nella finca, gli affari prosperavano, la moglie era serena e le figlie crescevano allegre. Però pure le piume hanno un peso: “Ero felice. Ma è solo nel finale dei racconti, precisamente perché finiscono, che si mantiene l’illusione di una felicità duratura”.
Allora, confessa Belmonte, “cominciai ad aver paura di essere felice”.

Quando El Caballero Audaz incontra il giovanissimo Manuel Granero, torero prodigio indicato come possibile successore di Joselito, gli fa alla fine una delle domande di maniera con cui si chiude un’intervista mancando la frase a effetto: “- Qual è la sua più grande aspirazione?
– Essere felice! Sia come sia! Costi quel che costi!
– Nulla di meno? Gli chiesi con ironia.
– Nulla di più – mi rispose Manolo con fermezza”.

Al contrario di Belmonte, sarebbe stata più durevole la sua felicità se si fosse ritirato già all’inizio della brillante carriera: si chiama Pocapena, nome da diavolo dantesco, il toro che ficca il corno in un occhio di Granero penetrando nel cervello, di cui l’autopsia rileverà frammenti persino nello stomaco.
Nella camera ardente, al Caballero Audaz restano impresse le mani “esangui e fini” di Manuel, che non sembravano destinate a matare. Era un promettente musicista e cominciò a suonare da piccolo: “Se non avessi fatto il torero sarei violinista” aveva detto. Su tutti gli piaceva Beethoven: “Per me è come un dio”.

E poi, tra piume e piombo, di piuma e piombo, ci sono le paure d’amore.

La bellissima puttana cordovese, con cui il personaggio del tuo romanzo trascorre la notte di Natale, lo irretisce ma lui non la comprende. Cerca di ritrovarne il paradigma in qualche film, che è il difetto di chi ha studiato troppo e vuole teorizzare tutto. Non sa che l’inventario della cordovese è compendiato, semplicemente, nel catalogo free shop dei voli intercontinentali. La voluttà di un touch screen, le pomate per il corpo, un orologio Armani, le casse per il tablet, il foulard Hermes, cioccolatini Lady Godiva, whisky invecchiato. Non l’autentico lusso ma quell’idea di lussuosità, che si sfoglia intontiti quando ritirano il vassoio dei pasti e hai riagganciato la mensola pensando: quanto diavolo manca all’atterraggio. La puttana cordovese lo fa per il catalogo, non è la rassegnata ragazza dell’Est costretta a fatturare da ex bambini incarogniti dalla ginnastica e dai cori obbligati in gelide scuole di Bucarest, che ora vogliono mangiare il capitalismo a bocconi per recuperare gli arretrati. La cordovese si vende perché vuol centellinare la vita, che i suoi solo a bocconi mangiano da generazioni. E’ la puttana cigno laddove le romene sono puttane donnole, faine, furetti.
La puta, la vamp, la giovane acqua-e-sapone, la mamma cattolica e casera, le sorelle minori da alimentare: sono molteplici, ma più o meno le stesse, le parti attribuite alla donna nell’epica taurina, che ha sfiorato e spesso invaso le pagine dello spettacolo. Sánchez Mejías ebbe l’Argentinita. Con Dominguin, solare e presuntuoso, andarono Ava Gardner e Lucia Bosé. Paquirri sposò la figlia del mito hemingwayano Antonio Ordoñez, poi prese per seconda moglie Isabel Pantoja, una cantante da quattro dischi di platino.
Manolete, di natura assorta e più attento all’adorata madre doña Angustia, s’accontentò di molto meno: Lupe Sino era un’attricetta di secondo piano, che qualcuno continuò a sogguardare come poco di buono, più appariscente di Penelope Cruz che la interpreta nel film con Adrien Brody, il quale indossa bene il traje di Manolete.

Due giorni prima di Linares, il torero confida al Caballero Audaz la rabbia per la propria “odiosa timidez” spiegando l’origine del suo mechon di capelli bianchi. Racconta che amava “locamente” una ragazza, non Lupe Sino, una tale di Cordova cui piaceva anche lui ma non trovò mai il coraggio di dichiararsi. Trascorse un anno, due, finché al ritorno da un viaggio la ritrovò sposata. Pianse per otto giorni, “come un bambino. E questo ciuffo mi diventò completamente bianco… era lo stesso che mi tiravano i compagni quando stavo in collegio”.
Lupe Sino morirà a quarantadue anni, sola e malata, in un appartamentino madrileno domenica 13 settembre 1959, mentre nella plaza della capitale si mata un toro chiamato Islero. Lo stesso nome del Miura che uccise Manolete, perché in amore le stranezze non finiscono mai.

Belmonte aveva ragione: vissero felici e contenti si può dire solo quando un racconto è proprio finito. Se la vita prosegue bisogna aggiungere altre righe, spesso capitoli. Allora meglio non arrischiare sentenze.

E’ passato molto tempo dalla pubblicazione della sua autobiografia. Belmonte s’è separato dalla moglie. Cresciute, le figlie si sono allontanate. Solo nella finca, come un monumento vivente, l’anziano torero ha trovato una “passione autunnale” in Enrichetta, che ha una trentina d’anni in meno. Non vivono assieme per evitare speculazioni scandalistiche, è la Spagna tra gli anni ’50 e ’60, ma lui va tutti i giorni nell’appartamento che le ha preso a Siviglia. E’ ossessionato dall’idea della vecchiaia, anche se è sempre stato brutto. Aveva trasformato tutti i difetti di un fisico poco possente in doti funzionali grazie all’intelligenza con cui rivoluzionò la tauromachia. Tolse terreno al toro e lo attribuì tutto al torero. Due le sue massime più illuminanti, che richiamano gli enunciati con cui Bruce Lee scompigliò le arti marziali tradizionali: “si torea come si è”; “se vuoi toreare bene, dimenticati il corpo”.
Ogni giorno Belmonte visita Enrichetta e ogni giorno, quando se ne va, lei gli tira una pantofola. E’ un rito d’eros giocoso, il pegno quotidiano di Cenerentola, perché lui prende la scarpetta e la riporta l’indomani. L’ultima volta si presenta con alcuni regalini, un po’ di contanti e un pacco di vecchie fotografie che vendute alle riviste, assicura, avranno un certo valore. Poi se ne torna, con la pantofola, alla finca e dice al guardiano che farà una cavalcata. Il racconto della serata è confuso. Sembra che abbia fatto un’inusitata cosa che assomigliava alle sue imprese da ragazzo, quando nelle notti di luna nuotava dal quartiere di Triana fino a un allevamento sull’altra sponda del Guadalquivir, per toreare con gli amici di nascosto.
Sembra dunque che quella sera abbia sfidato nel campo uno dei suoi esemplari, cercando il tipo di morte forse sempre invidiato a Joselito. Sembra che tornato a casa, stremato, abbia sofferto di una ricorrente emorragia. Il fatto certo è che prende una Browning 6,35 e si spara un colpo in testa. Le circostanze del decesso saranno offuscate il più possibile per consentire i solenni funerali in chiesa e preservare la reputazione di una gloria nazionale. L’esistenza di Enrichetta, anche se risaputa, non fu mai menzionata.
Belmonte avrebbe compiuto settant’anni sei giorni dopo, il 14 aprile 1962. Non ammetteva la decadenza fisica.
Dimenticò il corpo toreando. Non poté dimenticarlo vivendo.
Se qualcuno trovò la pantofola a casa se ne sarà disfatto, non sapendo o perché sapeva. Così spesso finiscono i pegni d’amore.
Nemmeno, finito il racconto, puoi scrivere vissero felici e contenti.

E’ bella la foto col fazzoletto rosso e la camicia bianca che hai mandato da Pamplona. Racconta quel che dietro si vede e non si vede. E’ bello scrivere trasfigurando la vita anziché meramente immaginare trame verosimili.
Hai ricevuto l’afición taurina da tuo padre e nel renderla tua l’hai incrementata. Non c’è l’equivalente a Napoli, se non il Napoli. Oltre ci sono forme di mitologia privata incomparabili a un’afición, e il diffuso patimento per i Paladini è scomparso se non s’è travasato in una curva del San Paolo. Quand’ero ragazzo chi esprimeva una più spiccata passione, fosse il pianoforte o un’arte marziale, in assenza di specifica tradizione domestica incontrava in famiglia il primo toro, destando sentimenti d’ironia e sospetto, uno scetticismo manifesto verso quella bizzarria da cui, evidentemente, nulla di vantaggioso poteva venire. Confermavano la regola sparute eccezioni di genitori, ma più invasati che confidenti nella prole, trascinata al pomeriggio verso palestre, scuole musicali o piscine da madri che non sapevano nuotare e padri mai stati a un concerto.

La tua foto, tra una folla di camicie bianche e fazzoletti rossi, parla prima che tu ne scriva.
Gli appassionati taurini di ogni livello citano una frase di Ortega y Gasset, secondo cui la rigorosa ricostruzione storica delle corride è necessaria per capire la storia di Spagna dal 1650. Il filosofo fece un’altra riflessione suggestiva: benché il toreo sia un’arte silenziosa, disse, “dà enormemente da parlare”. “E’ senza dubbio un atto di grande carità dare agli uomini di che mangiare, ma conosce poco le cose umane chi non osserva tutto quel che c’è di generosa carità nel dare agli uomini di che parlare. Immaginate di estirpare per magia, dalla vita spagnola degli ultimi due secoli, tutte le discussioni su argomenti taurini e raffiguratevi il vuoto enorme, la spaventosa vacuità che in essa avremmo aperto. Ci si dimentica troppo che una delle cose per cui l’uomo in generale è venuto al mondo, e particolarmente l’uomo meridionale, è parlare, e non è così facile come a primo acchito si potrebbe supporre che l’uomo medio di ciascun paese abbia argomenti di cui parlare”.
Nella tua fotografia quasi si sentono, alle spalle, le voci e il chiasso di San Fermín. Si sente un racconto. Non c’è il pauroso vuoto temuto dal filosofo.
Perciò chi snobba il calcio si costituisce un limite. Perché si nega a un sacco di gente con cui scambiare due parole su una partita piuttosto che sul tempo. Ci sono altri pretesti per comunicare. Ma cancellando per magia le discussioni sul calcio, nessuno riempirebbe il silenzio che ne resta.

A José Ortega y Gasset quel colpo annullatore di bacchetta magica avrebbe inflitto un grave dispiacere personale. Racconta il poeta Gerardo Diego della cena a un ristorante madrileno cui partecipa il filosofo. Parlando del torero Guerrita, a un certo punto don José s’infiamma e s’alza con il tovagliolo aperto, disegnando con eleganza una figura di cappa per poi tornare “majestuoso a la mesa”. E’ il tipico ma imprevedibile raptus per cui certi pacati intellettuali, fomentati dal vino o da presenze femminili, si producono in straordinarie quanto effimere manifestazioni fisiche prima di rientrare, “maestosi”, nella torpida condizione di quiete.

C’è, a quella cena, anche Sánchez Mejías.

Al suo ritorno nelle arene lancerà la cappa nel modo più rischioso, come ad alzare l’asticella del coraggio. Avviene a Cadice il 16 giugno 1934. Spetta a Ignacio “el primero de la tarde”, che lui attende a portagayola. I toreri che optano per questa suerte si fanno prima il segno della croce. Consiste nel porsi, sovente inginocchiati, di fronte al toril chiamando l’uscita dell’animale, che irrompe con tutta l’aggressività frastornato dalla paura e dalla luce improvvisa. L’arena di Cadice riserva un’altra insidia, fra le peggiori per i toreri. E’ il vento che può alzare improvvisamente il panno, scoprendo il corpo e mostrando al toro “l’inganno”. Se la folata è forte neanche basta bagnare la muleta per appesantirla. Quel giorno a Cadice spira un tremendo Levante, ma non impedisce il successo di Ignacio, cui il presidente della corrida concede due code.
Il titolo della cronaca, firmata su ABC da Gregorio Corrochano, non poteva che essere questo: “Contra viento y marea”.

Chissà se contra viento y marea c’incontreremo ancora.
Chissà quante volte l’eleganza di una conclusione, dovuta proprio alla precocità, viene rispettata vincendo la tentazione di un supplemento, della dilazione di un’ora con la mutua rassicurazione che “comunque questo non cambia niente”, che “è davvero l’ultima volta”. Chissà perché la tensione verso un progetto solo teorizzabile prevale sulla concretezza del presente semplice, che basterebbe vivere poiché è già lì.
Ma quel saluto nella Gare d’Orsay, bello proprio perché triste e prematuro, l’addio che segue alla perfezione del bacio avrà un supplemento. Quando lui non se l’aspetta più.
Forse ci sono meccanismi che s’innescano per rendere più struggente, o complessa, la fine di qualcuno, e prescindono dalle volontà soggettive come rispondendo a un disegno superiore, che mentre intravediamo non riusciamo a spiegare.
Così io e te, se simile disegno sarà mai tracciato, saremo attori e non registi dei nostri desideri. Resta per ora un lungo bacio che occupa, in proporzione, la parte più importante della storia che suggella. Poi potrà accadere un giorno di sentire la tua voce alle spalle:
Cuanto tiempo. Qué tal estàs?
E tutto potrà succedere, o niente di speciale. Finirà nei convenevoli:
Cuidate!
Me ha alegrado verte.

La poesia non consiste di eccessi.

[continua…]

la prima parte è qui.
la seconda qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).