Per quant’è lungo un bacio /1

da | Ago 13, 2014 | Senza categoria

Molti, anche molto tempo dopo, capitando l’argomento avrebbero rifatto la domanda: dov’eri quando è morto Joselito el Gallo? Ciascuno avrebbe ricordato il luogo, e con chi stava, il 16 maggio 1920 mentre il toro Bailaor uccideva il principe dei matador nell’arena di Talavera de la Reina. Nel mausoleo che gli fu dedicato al cimitero sivigliano San Fernando, il feretro del Gallo è portato a spalla, in un trionfo più perenne che estremo, da un corteo triste scolpito nella pietra.
Molti, tanto tempo dopo, se capita tuttora si raccontano, persino se non chiedi, cosa facevano e dov’erano il 23 novembre 1980, quando il terremoto dell’Irpinia uccise migliaia di persone e scosse così forte Napoli come nessuno ricordava.
E’ dopo, con l’ovvia e lenta perdita dei testimoni di un evento, che sperimenti un altro modo per misurare il tempo. Per tante cose c’è meno gente cui chiedere dov’era. Ciascun popolo ha i suoi giorni e non sempre drammatici – ci sono per esempio le Coppe del Mondo (dove vedesti la finale?) – ma come figure di marmo tutti accompagniamo, sfilando via anche noi senza capirlo, un gran fatto, un grande morto, la tragedia o la vittoria.
“Dov’eri” è la reciproca domanda che mette ordine nel corteo, assegna un posto angusto ma preciso per ciascuno perché eravamo tutti nel medesimo racconto.

I bambini amano la ripetizione delle storie quanto gli adolescenti la detestano. Chi si trovò a sentire la testimonianza soggettiva di un soldato, di uno sfollato, rimpiange un giorno di non ricordarla, di aver smarrito giusto i particolari che gli stanno mettendo un tarlo in testa, perché l’ascoltò così giovane e impazientiva: ora me la racconta un’altra volta. Si distrasse e guardò, sopportando, macchine che passavano dalla finestra, i soprammobili dietro il narratore o il suo gatto. Quando non c’è più, proprio tu gli chiederesti di ripetere, perché non rammenti cosa disse ma ricordi un gatto inutile o una finestra muta, e ammetti che a chi racconta bisogna portare, se non affetto, attenzione. Quel che gli portasti un giorno porterà a te dopo.
Come nel corteo che regge a hombros Joselito, ogni corteo – scolpito con più forza nella mente che nel marmo – esclude i distratti. Povero chi è circondato da disattenzione, poiché non l’accompagnerà nessuno. Un morto scivola da solo se non ricordiamo più dove stavamo quando se n’andò.

Era domenica pomeriggio nella plaza di Talavera. José Bergamín disse che Joselito pareva un Lucibello adolescente, “caído por orgullo de su luminosa inteligencia viva”. Il toro Bailaor era semicieco di natura o restò accecato dalle picche, sicché la virtuosa muleta del Gallo non lo poté ingannare. Di fronte a chi attacca senza alcun criterio, o contro il caso impazzito, persino Lucifero va a perdere la sfida.
Era domenica pomeriggio quando si scatenò la scossa del 1980. Un giorno contristato per essenza, il più temuto della settimana per chi tanto lo soffre da anelare al più presto al lunedì. La copertina di Buona domenica, l’album di Antonello Venditti, si sceglieva fra diversi colori come fosse un maglione e anticipava l’aggressiva varietà degli anni Ottanta. Raccontava di una giornata “passata a piangere sui libri”, “madonna non finisce mai”, la cantava ai ragazzi mentre un parente in visita, per confermare la noia, parlava di una storia della guerra che anni dopo avresti voluto riascoltare.
Sei sono i tori che s’avvicendano nella corrida, però il pubblico in più vuole ammazzarne un altro: “La domenica è il settimo toro di ogni corrida domenicale” considerò lo scrittore Ramón Gómez de la Serna, che soccombeva a quel tedio anche a Napoli, dove visse a lungo e scrisse il romanzo da cui traggo con solidarietà la frase, El torero Caracho. Da un appartamento alla Riviera di Chiaia immaginò la plaza guardando al tendido più che al ruedo e vide, tra il pubblico, un morto recente che prima dell’entierro al cimitero ebbe la grazia di assistere all’ultima corrida. Vide pure un posto vuoto ogni tanto e spiegò che padri e figli erano venuti assieme nella stagione precedente. Ora i figli compravano ancora due biglietti pretendendo compagnia dai fantasmi, perché per commentare lo spettacolo finalmente si parlavano, o parlavano meglio, con il padre. Che restasse così.
Chi non ama la corrida, o la detesta, trasponga il fatto nei tinelli con la poltrona a lato del televisore e pensi alle partite della propria squadra, ricordando come mai quella poltrona certe volte resta vuota di domenica.

“Il mondo è un’enorme plaza de toros”.
Hai fatto tua questa frase di Ignacio Sánchez Mejías, il matador amico dei poeti ucciso da un toro nell’agosto di ottant’anni fa, che ispirò a Federico García Lorca la più bella elegia scritta in Spagna, il Llanto dall’ossessionante a las cinco de la tarde, l’ottosillabo che è il metro d’eccellenza della tua letteratura.
“Il mondo è un’enorme plaza de toros”.
Ho fatto mia questa frase perché anch’io, senza merito, attingo alle sorti della corrida per spiegare altre cose quali la morte, l’amore, la distanza irrimediabile fra vivi e morti o fra due vivi come noi.
Provai quando ti vidi un’inquietudine come la prima volta davanti alla vaquilla in un corso di toreo a Siviglia. E’ la paura che mettono gli appuntamenti di cui si sceglie l’ora e il luogo ma non il perché, ammesso ce ne siano di plausibili. Quando arrivò in redazione la copia del tuo romanzo tradotto in italiano, un mercoledì dei più cinerei di novembre, cominciai a leggere per l’inerzia con cui si scrutano gli incipit, che si fa assiduità se tuo malgrado hai conquistato pagine o alcune pagine hanno conquistato te.
Per telefono l’addetta stampa della casa editrice, con la voce di plastica che dopo un po’ acquisisce chi fa quel lavoro, ringraziò della recensione e m’invitò alla presentazione napoletana del libro. Volli conoscerti perché alcune frasi, forse l’intonazione del romanzo, mi avevano colpito più della stessa storia, fatta di solitudini incrociate nella Madrid degli indignados mentre un mondo sopraffatto dalla crisi inevitabilmente arretra, come un corteo che va all’indietro.
I libri sembrano città: ciascuno sceglie le pagine da abitare o le righe che andranno rilette come un angolo dove tornare. Nel tuo trovai il capitolo sul lustrascarpe messicano della Gran Via, il quale si rammarica che sempre meno gente ricorra ai limpiabotas e ricorda quel torero retirado cliente ogni mattina, con l’aria nobiliare di chi ha un passato presuntuoso riflessa nell’impeccabile lucidità delle calzature. E’ scappato da Madrid o sarà morto, il messicano immagina pensando al vecchio, che si rifaceva i lacci su una gamba per sfoggiare l’equilibrio tra la folla. Niente a che vedere con i toreri attuali, che sembrano e si muovono come chiunque.
Ricordo almeno un paio di giocatori stranieri, che a fine carriera scelsero di invecchiare a Napoli diventando allenatori o commentatori sportivi, i quali avevano la stessa cura per i mocassini perché un signore si vede dalle scarpe, anche se s’assottiglia il gruzzolo messo da parte quando il calcio garantiva guadagni meno grassi. Sudamericani che non persero mai l’accento, ma lo calarono nell’inflessione dialettale e anche uscendo a comprare il giornale preservavano con un atteggiamento dignitoso la dignità di chi salutava in loro una lontana gloria. Niente a che fare con i calciatori attuali, dai tatuaggi che chiunque si può imprimere per assomigliare a loro e assomigliarsi tutti.

La vita è fatta di incontri e di saluti che il tempo stabilisce più di noi per noi.
Joselito, per Ignacio Sánchez Mejías, è molto più di un mito astratto: è il maestro, l’amico, il cognato perché ne ha sposato la sorella Lola. Doveva per forza trovarsi presente alla sua ultima corrida. Toreavano insieme e gli toccò matare Bailador mentre l’altro agonizzava nell’infermeria. Sarà riproposta migliaia di volte la foto di Ignacio che accarezza il capo a Joselito e la suggestione deriva dal contrasto fra l’espressione disperata di chi è vivo e l’implacabile serenità del morto. E’ un dispetto che i defunti, benché non sempre, fanno da sempre.
Giace sulla barella come di non so che appagato.

Il dolore di Ignacio non si spegne ma prende una tinta di rabbia inconclusa. Sette anni dopo, alla vigilia della commemorazione del torero, chiude a chiave in camera Rafael Alberti all’Hotel Magdalena di Siviglia: “Non mangerai né berrai finché non avrai scritto un poema dedicato a José. La veglia in suo onore è per questa stessa notte. Al teatro Cervantes”. “Recuperai la libertà qualche ora dopo”, racconta Alberti, “leggendo a Ignacio Joselito en su gloria, quartine molto semplici che ripetei alla cerimonia, fra olé e ovazioni di un pubblico frenetico, composto di gitani e di devoti del maestro”.

Alla presentazione mi sembrasti come t’aspettavo avendo letto anche i tuoi articoli: ambasciatrice di un passato cui non fai dispetto con la giovinezza, senza la sfortuna di essere decisamente bella che condiziona il cuore delle donne. Chi si mette contra viento y marea, chi ama l’impolitico aroma dei sigari, i disegni art déco di Penagos, e commenta con poesia la stagione taurina, deve avere carnagione sombra y sol, una raffinatezza smentibile o una rozzezza sfiorata, così tu stavi al punto d’equilibrio tra il floreale e le scarpe di corda, l’amore per i classici hollywoodiani e l’insofferenza agli anglismi che contaminano lo spagnolo. Capii che con il tempo i tuoi occhi verde uva non sarano abbelliti dal trucco ma da rughe d’espressione, e se curi i capelli da sola è per la presunzione di evitare acconciature alla moda.
M’invitasti soprattutto al mio gioco preferito, di fare tuffi nel passato, per carpire segreti a un fondale dove può spingerti una donna che in quel mare senza tempo sia Sirena.
Resto napoletano anche se m’emoziono per toreri vivi e morti.

Su Napoli, quando torna a Madrid, Gómez de la Serna compone un romanzo visionario. La mujer de ámbar (La donna d’ambra) è storia di sangue e amore germinata ai tempi del dominio vicereale e vissuta secoli dopo nell’incontro fra Lorenzo, turista spagnolo che decide di restare, e Lucia, una ragazza dei vicoli dell’ombra. Lui è finito a Napoli “come seguendo un’orma di se stesso nel passato”. Più s’inoltra più avverte con sbalordimento quelle tracce spagnole: “Non ne restava ormai che un’eco oscura, sommersa eppure viva e vibrante. Sapeva porgere l’orecchio all’invisibile e ascoltava i rintocchi dell’orologio antico”.

Lo lessi la notte dopo la presentazione. Quando ti dissero che avevo scritto di misteri a Napoli, mi prestasti una prima edizione di La mujer de ámbar, del 1927. All’indomani volevi visitare la chiesa delle Anime del Purgatorio dove c’è il teschio di Lucia col velo da sposa, sempre il più venerato dentro l’ipogeo. Qualcuno dovette raccontarlo a Gómez de la Serna, poiché il protagonista del romanzo si convince dell’identità fra Lucia la fidanzata e un’anima purgante dipinta tra le fiamme: “Sì! Era l’anima rediviva che scontava probabilmente colpe altrui, l’anima che stava sulla terra come in vacanza o per un permesso speciale concesso alla sua sofferenza”. Perché “le anime del Purgatorio tornano sulla terra per espiare pene che non siano tanto sterili come il dolore per il dolore, e maggiormente se si tratta di anime che hanno diritto a una tregua dell’ammenda”.
– Sai una cosa? dissi quando uscimmo nuovamente alla luce così grigia e relativa di via Tribunali: – Ho l’impressione di avere camminato con te per questa stessa strada tanto tempo fa.
– Sì, rispondesti meno incredula di quanto m’aspettavo.
– Sì, la sola differenza è che non avevi l’iPad.
– E se dicessi che ricordo perfettamente?
Ti presi sottobraccio con violenza e andammo via. Stavo solo parafrasando un dialogo del romanzo. Non so se lo capisti o rispondesti seriamente.
Non te l’ho chiesto dopo.

La mattina delle nozze, Lucia vestita da sposa si getta dalla finestra e torna a essere quel che già era: il teschio velato fra le Anime purganti, che tu venuta dalla Spagna, come tornando dove avevi camminato, vedesti assieme a me.
Ti dovevo baciare allora, quando ti presi per un braccio. Quella sera stessa, mentre lo pensavo, stavi già a Madrid.

Il tempo per i baci, come quello della morte, a volte prende di sorpresa e non ci trova pronti.

Ignacio accompagnò fino alla fine Joselito ma mancò di dire addio al più caro amico. Mentre Fernando Villalón moriva a Madrid, Sánchez Mejías tornava da New York, dove aveva tenuto una conferenza sulla tauromachia alla Columbia University a richiesta di García Lorca.
Pronunciò in quell’occasione la famosa frase: “El mundo entero es una enorme plaza de toros, donde el que no torea embiste”. Ma parlò, inaspettatamente e con melanconia, anche di don Chisciotte individuando in Sancio Panza non la figura arguta né il necessario compagno del suo gioco. Ignacio disse che lo scudiero rispetto a don Chisciotte “è il suo assassino”. “Sì, ciò che vuole senza accorgersene è questo: ucciderlo, sopprimerlo”. E’ il primo toro che il cavaliere della Mancia deve fronteggiare, “la sua remora, la sua àncora”. Sancio Panza, aggiunse, rappresenta “l’amarezza del trionfo” di Chisciotte, “l’ascia che pota tutte le sue allegrie”.
Quante occasioni abbiamo vissuto accanto a Sancio sotto le spoglie di un familiare, dell’amico maturo, di una donna che si ritiene più pratica. Quante volte lo scudiero, con una di queste maschere, ci ha illuminati con la fiaccola del ridicolo e del visionario, rendendo noi nostro malgrado don Chisciotte (o quante volte Sancio fummo noi, “potando” le allegrie di qualcuno). Ignacio conosceva la vita: non fu solo torero ma imprenditore, sarà presidente della squadra di calcio Real Betis, della Croce Rossa andalusa, appaltatore di terreni, gestore di una finca, pilota d’aereo. In quel momento tuttavia, ritirato dalle arene, fa soprattutto l’intellettuale: scrive per il teatro, abbozza un romanzo, è figura carismatica della Generazione poetica del ‘27 e si dedica a studi di folklore con la sua amante, l’Argentinita, celebre ballerina di flamenco interprete di García Lorca.
Eppure quel 20 febbraio del ‘29, parlando agli studenti, si fascia nel traje de luces del vecchio matador: “Don Chisciotte ha il corpo pieno di ferite, di cornate che gli hanno inflitto i tori. I tori, non lo dimentichiamo, danno cornate, feriscono e uccidono. Il toro – scandisce Ignacio – è la Morte. Per molto che si sappia di toreo, ci sono momenti in cui non si può evitare il colpo, difetta la tecnica o il lidiador si sbaglia e allora arriva, cruenta, la cornata”.
Ignacio conta diciassette ferite nell’arena. La scomparsa di Fernando sarà la diciottesima, se è vero che il mondo intero è una plaza de toros e che sono insostituibili gli amici con cui si litiga meglio su questioni inessenziali, le uniche a scaldarci senza amareggiare. Straordinario teorizzatore di stravaganze, Fernando ingaggiava con Ignacio, ricorda Alberti, discussioni “terribilmente serie che finivano male”. La più grave fu quando Villalón “si ostinò a dimostrare a Sánchez Mejías che i Re Magi, nel loro viaggio verso Betlemme per adorare il Bambin Gesù, avevano fatto tappa a Cadice, cosa che Ignacio non accettò, suscitando quasi una rottura fra i due amici”. E’ che, fra loro, Fernando recitava la parte di Chisciotte per cui la sua fine lasciò più solo Sánchez/Sancio.
Conte di Miraflores de los Angeles, poeta ma soprattutto allevatore, Villalón – vuole la leggenda – aveva dilapidato il patrimonio nel tentativo di selezionare tori con gli occhi verdi.

Guardo un istante i tuoi occhi verdi e ricordo Lope de Vega. Anziano celeberrimo e smagato, ormai prete, s’innamora di Marta che è assai più giovane di lui, è sposata e gli premorirà pazza. S’innamora degli occhi verdi. Se i poeti si mettono contra viento y marea vanno sognando stranezze: conciliare opposti destini, soffiare sull’età come se fosse sabbia, raggirare la scienza. Cervantes attribuisce occhi verdi all’inesistenza di Dulcinea. Fernando Villalón voleva darli ai tori.
Sánchez Mejías penserà con tenerezza a Don Chisciotte e all’amico.

S’intitola Occhi verdi una canzone di cui feci le parole. E’ che, in un modo o nell’altro, ciò che scriviamo lo viviamo dopo o lo vivemmo prima. Se proprio non succede, forse non c’era invenzione ma menzogna nella scrittura o nella vita.
Dici che la tua vita, per i continui spostamenti di lavoro, è come quella di un maletilla. Il mondo intero è una plaza de toros, perciò ne impieghi le metafore. I maletillas furono aspiranti toreri a caccia di fortuna. Con la loro attrezzatura addosso coltivavano quella ilusión da cui, passando il tempo, alcuni cercano di non guarire perché la vita non si riduca alla constatazione, o alla contestazione, d’una regola condominiale che quasi mai s’impara tutta.

[continua…]

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).