Paola

da | Feb 24, 2014 | Senza categoria

Il racconto di Giulia Cavaliere, “Paola”, preceduto da un dialogo con l’autrice.

Cristiano de Majo: “Ti dico perché ho scelto il tuo racconto, ne ho letti alcuni altri in questi giorni, la maggior parte dei quali utilizzavano delle combinazioni di parole, anche belle, originali o visionarie, ma non significavano nulla. Il tuo invece mi sembra che significhi qualcosa, nel senso che significa qualcosa per te, e che però riesci a trasferire, almeno in parte, quest’importanza al lettore. Mi sono piaciute molto le descrizioni della Milano dell’epoca, non è semplice rendere il passato credibile sul piano narrativo, ma tu con pochi dettagli e uno stile molto lineare riesci a farlo. La mia sensazione è che si tratti di un racconto fortemente autobiografico ed è dovuta principalmente a due elementi. Il primo, l’uso della seconda persona singolare, personalmente non lo amo, ma crea un legame di grande intimità tra voce narrante e protagonista. Vorrei sapere se hai fatto questo scelta in modo consapevole o se è stata una soluzione naturale”.

Giulia Cavaliere: “Un po’ tutte e due le cose. Mi spiego: ho riflettuto molto riguardo a questa scelta, avrei potuto scrivere questo stesso racconto in una più consueta terza persona però, farlo, avrebbe non solo posto un’inevitabile maggiore distanza tra me e la protagonista ma avrebbe anche modificato il compimento delle mie intenzioni. Ho concepito questa storia non solo come un racconto ma anche, in qualche modo, come una lettera. Io faccio parte del racconto, la mia percezione di questa vita di cui scrivo definisce le cose stesse di cui sto scrivendo, ancora di più di quanto accada normalmente quando si scrive di un “egli”. Un racconto che è dunque una lettera, quindi in qualche modo un dialogo, che verso la fine diventa anche una confessione, in qualche modo poi forse persino una dichiarazione d’amore. La seconda persona è quindi una scelta ponderata ma pure naturalissima, diciamo che ho scelto la via più naturale”.

Cristiano de Majo: “L’altro elemento che mi spinge verso l’autobiografia è il passaggio improvviso nel paragrafo finale al noi, che si restringe ancora per un lampo in un io. Scrivi “Dalla finestra della nostra cucina” e mi fai pensare che Paola, la persona che hai ritratto, sia tua madre. Però lo dici e non lo dici, lo sveli un poco e lo nascondi come se avessi paura di dirlo, ma se così fosse, perché invece non dichiararlo? Perché non dire apertamente: questo è il ritratto di mia madre? Non pensi che il lettore sarebbe più contento e più in grado di apprezzare il testo se sapesse tutto quello che c’è dietro a questo racconto? Tutta la partecipazione che c’è? Perché, in altre parole, rendere in modo forzato la nonfiction fiction? Te lo dico perché tu mi dai questo indizio finale bello grosso, e probabilmente se tu non me lo avessi dato non ti chiederei questo”.

Giulia Cavaliere: “Mi piaceva molto l’idea di costruire la storia di una vita in uno spazio breve, un numero di battute senz’altro ridottissimo per raccontare le tappe di un’esistenza. Mi piaceva che i tempi fossero compressi e gestiti in un modo tutto sommato anarchico – ci sono momenti di questa biografia sui quali indugio molto e altri che in qualche modo sintetizzo brutalmente – questo perché, credo, metaforicamente, questo è anche quello che accade nella vita vera, il mix del tutto imprevedibile e folle di enormità che si consumano velocemente e di eventi meno significativi che invece si protraggono a dismisura magari con strascichi emotivi e tutto il resto. Mi piaceva l’idea di non dire chi fosse Paola, di far arrivare l’ipotetico lettore attento alla tua conclusione e che, nel caso in cui qualcuno non si fosse reso conto di questo legame, avrebbe potuto leggere questa storia esattamente per quello che è: la storia di una vita, una vita come ce ne sono tante, tutte o quasi con all’interno risvolti che varrebbe la pena raccontare. Mi intrigava l’idea di costruire il racconto così e ho pensato che da lettrice sarei stata invogliata a scoprire il legame esistente tra autore e personaggio andando avanti con la lettura. Mi piaceva proprio come gioco, scrivendo, svelare sempre di più, in questo senso la seconda persona che poi cambia repentinamente ma naturalmente quando si arriva al presente, mi è sembrata perfetta, anche perché io nel passato non esistevo. A un certo punto della biografia io esisto ed esco fuori”.

Cristiano de Majo: “Non so se sono ancora condizionato da questo indizio dell’autobiografia – non credo ma una cosa che secondo me manca nel racconto è una forma di motivazione interiore, che non dev’essere esplicita, spiegata, ma interna. Nel senso che non vorrei chiedermi mentre leggo una cosa: ma perché questa persona mi sta raccontando questa data cosa proprio in questo momento? Perché proprio in questo momento stai raccontando la vita di Paola? Nel presente non c’è nessun segno, nessuna incrinatura, nessun dramma né nella protagonista, né nella voce narrante che sembrano giustificare questo percorso a ritroso. Rileggendoti non pensi anche tu che manchi quest’aspetto?”

Giulia Cavaliere: “Qua mi viene da rispondere tornando a quello che ti dicevo sopra. La mia idea era che questa fosse semplicemente una storia, una storia che non ha tempo, che non ha motivo di esistere oggi e non aveva motivo di esistere ieri. Poteva non esistere, non essere scritta, come la maggior parte delle vite, nessuno se ne sarebbe accorto oppure invece sì, poteva essere fermata, raccontata. L’ho scritta avendo come sottopensiero Vedrai vedrai di Luigi Tenco, che pare lui avesse scritto per sua madre. Alla fine del mio racconto parlo di quello che io ravviso come dramma, incrinatura contemporanea di questa donna dalla vita tormentata, che oggi è naturalmente stanca, nostalgica senza mai dirlo di ciò che non ha vissuto e non può vivere come io lo sono nei confronti del suo passato che posso in qualche modo immaginare, interpretare, raccontare ma che in realtà non conosco direttamente e giustamente non mi compete, non mi appartiene. C’è anche in qualche modo la resa scritta di un distacco, che il personaggio “io” che sono io, prende dal personaggio “tu”, ispirato a mia madre.  Forse ho fallito nell’intento di far capire questa cosa perché, deliberatamente, non ho voluto calcare troppo, spingere troppo sull’acceleratore drammatico, volendo conservare per questa storia anche il suo status di semplicissima storia di una vita, frammento intimo narrato per la ragione stessa di essere fermato”.

 

Paola

Sei nata in una mattina di metà maggio verso la fine degli anni ’50, tua madre si chiama Ester, ha ventisette anni e non lavora. Aldo invece, tuo padre, non fa altro dalla mattina alla sera e ha l’aria di chi proprio non riesce a desiderare di più dalla vita. È impiegato in banca, indossa giacche di sartoria mediamente pregiate, perfettamente stirate da Ester ogni giorno due volte: la sera, appena rientrato, e la mattina, per sicurezza, prima di uscire di casa e correre a prendere il tram, affrontare quelle diciassette lunghissime fermate restando in piedi in un angolo alla fine della carrozza insieme a molti sconosciuti, tenendosi abbracciato alla cartellina in pelle nera. Dopo poco, quasi sempre provocando una eco schioccante con la suola delle scarpe in cuoio liscio, Aldo irrompe nell’atrio d’ingresso dell’edificio littorio della sede centrale della Banca Popolare di Milano, ha la camicia ormai sudata e la giacca già priva del profumo dolce e caldo tipico del cotone appena passato sotto il peso del ferro da stiro.  Il parto è stato naturale, senza complicazioni, pesi poco ma il gruppo di parenti di Voghera che è venuto a conoscerti in ospedale ha commentato quasi all’unisono le dimensioni un po’ sproporzionate della tua testa e prima di passare ad analizzare silenziosamente la forma invadente delle tue piccole orecchie a sventola, ha avuto modo di concedersi una frase di retorica affettiva: hanno detto tutti, tentando di stabilire una proporzione diretta e insensata, che certamente da una testa così grande non potranno che uscire tante bellissime cose, che sarai senz’altro una bambina molto intelligente. La tua casa è in un appartamento al terzo piano di un palazzo molto alto di via Riccione, lo stabile si trova all’interno di un complesso residenziale di recentissima costruzione: Ester e Aldo hanno iniziato a viverci subito dopo essersi sposati, nella primavera del 1954. E’ tra quelle vie periferiche, grigie e ricche di una vitalità lontana da quella che popola le giornate nel centro della città, che Giovanni Testori comincia ad ambientare i suoi racconti, nel sottile lampo della Storia in cui tu inizi a reggerti bene sulla spina dorsale, a camminare, fare pipì senza pannolino, esprimerti a parole con quella sensazionale precisione che lascia immediatamente a bocca aperta i tuoi genitori e i loro amici. La tua infanzia si colora da subito di bianco candeggiato, vestitini eleganti, scarpine a due occhi e giri in passeggino la domenica pomeriggio nei giardini del Castello Sforzesco. Dicono tutti che sei una bambina vivace, in effetti hai un viso buffo, sorridi sempre, chiudendo gli occhi è facile visualizzarti morbida, seduta su una sedia tra le braccia di Ester, vederti  muovere velocemente una manina, batterla più volte sul tavolo in un crescendo che culmina in una risata bianca di dentini da latte. All’asilo non ci vai perché a mamma e papà sembra una cosa inutile, Ester è a casa e la mattina uscite sempre, ti porta a comprare il pane e il latte fresco nella bottega della signora Rapetti, la vicina di casa con cui condividete il pianerottolo. C’è un’aria pulita e secca tra le nove e mezza e le undici in quelle strade popolate solo da fattorini, annoiati proprietari di negozi sempre fermi sull’uscio in attesa del prossimo cliente, donne coi figli piccolini come te e pochissimi altri avventori di cui nessuno, nel quartiere, conosce il nome. Camminate tutti vicini cedendovi di volta in volta il passo, scambiandovi di frequente la velocità lì, sul marciapiede rotto, tutti in movimento sotto un vento molto sottile, intenerito dal vuoto della terra tra i palazzoni, da quegli spazi tanto simili alle borgate romane che anche Milano sa concedere al suolo periferico.  Alla scuola materna non vai con piacere, ti sembra di essere circondata da bambini più piccoli anche se hanno tutti la tua stessa età. A metà del secondo anno però, nella classe di mezzo, quella dei ‘Leprotti’, fai amicizia con Sara con cui giochi soprattutto a bambole. La mattina cammini con mamma verso la scuola svogliatamente, ancora non ti rassegni ai pasti della mensa e ogni giorno, all’ora d’uscita, la maestra elenca a chi ti viene a prendere tutti i cibi che non hai voluto neppure assaggiare. Anche a casa, a cena, sei capricciosa e fai di ciò che stai masticando, a ogni forchettata, una piccola sfera che poi per molti minuti lasci lì, a un lato della bocca, a gonfiarti una guancia dall’interno, come fosse un palloncino. Devono sgridarti per farti deglutire e mandare giù le pietanze, alcune volte piangi e il tuo viso si fa paonazzo, teso di capricci, con tutte quelle rughette tenere d’impazienza e nervosismo a cui difficilmente Ester riesce a opporre resistenza. Nell’estate che precede l’inizio delle elementari vai al mare per la prima volta, alle porte di luglio partite per Camogli, un paesino del Levante ligure che da Milano si raggiunge in poco più di un’ora di treno diretto.  Ad Aldo piace scattare fotografie, è la sua unica passione oltre al lavoro, ai calcoli, alle scartoffie che riempiono le scrivanie; durante la vacanza ne approfitta per ritrarti in alcuni momenti felici: tu che sorridi in piedi sul muretto del lungomare con in mano un cono gelato gigante, tu con Michele, cuginetto quasi coetaneo, in sosta sulla battigia con due retine da pesca in mano pronti a dare la caccia ai granchietti, tu che dormi a pancia in giù, al crepuscolo, sotto l’ombrellone. Le fotografie, ritirate un sabato pomeriggio di fine settembre alla foto ottica di via Console Marcello, sono venute benissimo, Ester decide di far ingrandire quella di te e Michele visto che hai un bel sorriso e le tue orecchie a sventola non si vedono granché: fine settembre lo scatto è incorniciato e appeso accanto a quello di te a braccia conserte sul banco, il primo giorno di scuola.  In italiano sei bravissima e anche in matematica prendi bei voti, le tue passioni sono i pensierini, l’esercizio per scrivere bene dentro i quadretti grandi dei quaderni, le lettere maiuscole in corsivo – specie la P, rotondetta – e quando le maestre vi portano in cortile a giocare a palla prigioniera. La mamma è contenta di te e si compiace dei risultati ottenuti anche grazie alla sua severità ben dilazionata nei pomeriggi trascorsi a fare i compiti sul tavolo della cucina, sotto il lampadario giallo che un po’ penzola appeso al soffitto. In terza cominciano ad arrivare a casa i primi temi con il voto da firmare, non prendi mai meno di 8, Ester ne è orgogliosa: saper scrivere e parlare correttamente per lei non è una possibilità, una scelta, un caso fortuito ma un risultato da ottenere ad ogni costo, la condicio sine qua non di ogni persona educata, persino una premessa alla costruzione di una qualche forma di felicità. Collezioni successi scolastici e conseguenti ricompense in forma di tempo da spendere il pomeriggio in cortile o a casa di Anna, la figlia della signora Rapetti: giocate a nascondino tra i paletti della luce fatti di vetro bianco, vi nascondete dietro le due panchine di cemento e quando fa freddo, nella sua stanza, giocate a fare le mamme che portano le loro figlie in viaggio: non ci sono mai mariti ma solo voi due, sedute sulle poltrone della sala d’attesa dell’aeroporto (i divanetti in salotto) e le vostre bambine neonate (le bambole), nei passeggini. Ogni tanto litigate ma è poca cosa, siete due madri in fondo, è il vostro dovere richiamarvi reciprocamente a un giusto senso di responsabilità. Cominci ad andare dai vicini sempre più spesso visto che le cose, tra Aldo ed Ester, sembrano non funzionare;  per qualche strana ragione papà continua a rifiutare la proposta di mamma di andare a vivere da un’altra parte, dove potresti avere una tua stanza, visto che sei costretta, da sempre, a dormire in sala sul divano che diventa un letto, senza un comodino, uno spazio tuo. Stai crescendo, tra un anno andrai alle medie e il clima di casa è irrespirabile, ogni sera, ogni mattina, è come se in tre, nell’appartamento, non si potesse stare, come se mancasse lo spazio, l’ossigeno per rimanere in vita senza cadere a terra, sul tappeto del salotto, sfiniti dalle urla, dai respiri affannati, dalla voce da uomo che si fa grossa e dai pianti di donna che, insieme, riempiono un altrimenti costante e tenace silenzio. Precipita tutto molto velocemente, le discussioni cominciano a non avere una fine e tu inizi lentamente a mettere a fuoco quello che sta accadendo. Il volto di Aldo appare sempre scuro, corrucciato e i suoi gesti trattenuti; a volte hai vergogna e ti viene da piangere perché arrivi a pensare che da un momento all’altro succederà qualcosa, lui scatterà in piedi alzandosi dal divano e butterà il pacchetto di Senior Service contro il muro, poi sbatterà la porta, trasformerà in rabbia e violenza le curve tristi del suo viso. Il copione è noto ma tu non puoi conoscerlo, vedi solo i fatti, i piccoli eventi del tuo quotidiano che distruggono ogni aspirazione alla quiete. Durante le ore di scuola perdi la concentrazione, osservi dalla finestra la gente camminare per via Mantegazza, alle volte hai persino la sensazione di intravedere i loro sorrisi, il segno della loro serenità che si fa manifesto sulla pelle, sulle labbra stinte del mattino mentre tu dietro il banco ti chiedi come mai ti stia succedendo tutto questo. Una sera  papà torna a casa e senza salutarti corre a controllare il telefono: vuole verificare la posizione della cornetta, capire se il filo è dallo stesso lato in cui era la mattina, se qualcuno ha spostato qualcosa, se sono state fatte telefonate mentre lui era al lavoro. Questo episodio come una pallina si muove per settimane da un lato all’altro del tuo cervello, in mezzo ci sono i compiti, i giochi ogni pomeriggio, la festa di carnevale a casa di Carla che aspettavi da tanto, il costume da fatine che tu e Anna avete scelto uguale e non vedete l’ora di indossare, ma agli estremi c’è il ricordo congelato e vivo di quel momento in cui hai capito cosa non va nella tua famiglia, tra mamma e papà, papà e te, papà e la vostra casa: papà. È con questa consapevolezza molto piccola ma capace di risvegliare con te, ogni mattina, un dolore simile all’intermittente puntura di uno spillo, che la tua infanzia si scioglie nei primi bicchieri di coca cola comprati al bar del cinema Eolo di via Mac Mahon ogni domenica pomeriggio, appena prima dello spettacolo delle tre e un quarto. Con te solo Anna e pochi amici, figli di persone fidate, di cui Ester conosce approssimativamente l’intero albero genealogico. Iniziate a esplorare il quartiere, a darvi appuntamenti in luoghi di volta in volta diversi sotto casa di uno e dell’altro: via Riccione, via dei Frassini, via Bianchi, che diventano a breve le linee estreme del vostro spazio di scoperta. Quando non esci stai in casa sdraiata sul letto ad ascoltare i vinili di Battisti a ripetizione, in breve scopri anche quelli di De André ma ancora pochissima musica inglese e niente Luigi Tenco. Leggi Marx. Il Manifesto del Partito Comunista è un regalo dello zio Spartaco, partigiano in montagna a diciotto anni, ora fa l’avvocato di chi non può permettersi di pagarne uno, vive a Genova ed è caporedattore della redazione cittadina de l’Unità. Vi vedete poco ma ogni volta incontrare lui, stare qualche ora insieme, è diverso da quando ci si vede con gli altri parenti, ti trascina con parole precise dentro le sue storie appassionate, dentro la Storia, ti parla di politica, ti racconta del Partito, cerca di farti entrare in un mondo dove la vita di tutti – non solo la tua e quella di mamma e papà – è importante in un modo completamente nuovo.  Quando arriva il momento di scegliere la scuola superiore le litigate tra Ester e Aldo aumentano esponenzialmente: lui vuole che tu ti iscriva a Ragioneria, non concede ‘se’ né ‘ma’, farai quello, è deciso, e come lui lavorerai in banca. Poco conta che mamma gli faccia presente che tu sei molto brava a scrivere, che non ti piace la matematica, che devi studiare la letteratura, non sei fatta per passare la tua vita tra le carte di una banca. Aldo lavora, Aldo paga i libri, Aldo decide e tu inizi a frequentare il primo anno di Ragioneria. Ester intanto è sempre più pentita di tutto: di essersi trasferita a Milano, di essere lì completamente sola, assoggettata a un marito che non vuole che lei lavori e che la esclude quotidianamente dalle decisioni importanti della vostra famiglia. A un certo punto comincia a chiarirsi nella tua mente che lei è ormai pentita di averlo sposato.  È un pomeriggio di sole di metà giugno, non ci sono nuvole fuori, la scuola è finita da due giorni e in casa tua è tutto buio. Ester tiene le tapparelle abbassate nella speranza che il caldo già torrido di Milano, quello che scioglie lentamente i marciapiedi ancora rotti di via Riccione, se ne stia fuori dall’appartamento. Tu vorresti alzarle, avresti voglia di prenderti un po’ di sole su quel bel viso bianco che hai, di un pallore delicato, ottocentesco, che trasforma il color latte in rosso accesso sulle tue gote, non appena cammini un po’ più veloce del solito o accenni a una corsa in cortile. La mamma viene a sedersi sul bordo esterno del tuo divano che diventa letto, ti guarda e ti dice che tra meno di una settimana andrete via, tu e lei, da quella casa, aggiunge che non sa spiegarti perfettamente cosa sia successo tra lei e papà negli ultimi anni e che forse un giorno le sue parole saranno più precise. Tu in quegli anni sei sempre stata lì e non fatichi a capire quello che lei non riesce a dire; immediatamente, a una velocità difficile da mettere a fuoco, vieni invasa da un senso profondo di pace dolorosa, non lo sai, ma stai sperimentando per la prima volta quel sentimento di liberazione naturalmente accluso ad alcune forme di addio. Dopo una settimana di silenzi interrotti regolarmente solo dal rumore del nastro adesivo che chiude gli scatoloni, siete pronte per lasciare la casa di via Riccione e raggiungere Sannazzaro, un paese della Lomellina in cui, da Voghera, si sono trasferiti i tuoi nonni, i genitori di Ester. Il tuo primo anno a Ragioneria si perde nei ricordi e lascia spazio a una nuova vita, a un nuovo primo anno alle scuole Magistrali di Pavia. Tua madre è depressa e stanca ma si mette a lavorare. Non ti dispiace trovarti la sera a tavola con i nonni, vivi nella sensazione confusa di chi non si sente ancora a casa propria ma inizia a ritenersi finalmente parte di una famiglia.  La vita di paese non ti piace, sei un’adolescente che rifugge la messa della domenica in un luogo in cui nessuno oserebbe farlo, il tuo modo di vestire ti fa guadagnare in breve il soprannome di Tupamaros, soprattutto sul treno regionale che la mattina alle 6.40 parte per Pavia, dove vai a scuola. È lì che inizi a frequentare i collettivi, simpatizzi e partecipi alla vita politica della sinistra extraparlamentare, scrivi i temi di italiano per le tue compagne mentre loro, in cambio, si occupano dei lavori di taglio e cucito che tu detesti. Ti innamori per la prima volta a 16 anni, lui si chiama Giulio, vive in un paesino che dista sei chilometri dal tuo, vi hanno presentato alcuni conoscenti in comune che non sono amici né suoi né tuoi. Molto velocemente ti accorgi di quanto siate vicini in una porzione di spazio geografico in cui fino a quel momento ti eri sentita sola. Giulio ti porta sottobraccio i dischi di Giorgio Gaber da ascoltare insieme il pomeriggio, dopo lo studio, con lui puoi parlare di politica per ore e ore, con lui vai alla sede del PCI e porti a casa la tua prima tessera. Molto spesso fate lunghe gite nei campi quando la brina si scioglie, lui sul suo Garelli e tu in bici, dietro, più lenta. Una sera Giulio ti accompagna a casa, è primavera, siete stati in campagna tutto il pomeriggio dalle parti di Scaldasole, avete bevuto tè freddo e siete tornati quando il sole stava già tramontando. Hai sentito profumo di brodo sulle scale e prima di girare la chiave nella serratura lo hai baciato piano e guardato solo di sfuggita, nell’esatto modo in cui si guarda qualcuno che sappiamo tornerà presto da noi, ‘ci vediamo domani’, ha detto, e sei entrata in casa con le gote rosse di sole. La mattina dopo suonano alla porta, è la polizia che chiede di entrare. Corri in salotto con ancora addosso i pantaloni del pigiama. Giulio è morto ieri sera dopo averti salutata, qualcuno è sbucato da una traversa in macchina, non ha visto il suo motorino e l’ha fatto saltare in aria, catapultandolo in pochi secondi ai bordi della corsia opposta, quasi fuori dalla carreggiata. E’ passata un’auto che lo ha trascinato per diversi metri prima che qualcuno si fermasse e vedesse il corpo morto steso a terra a esattamente settecento metri dalla sua casa.  È una mattina di aprile del 1975, fissi le piastrelle gialle e nere, ruvide sotto le tue ciabatte e non parli più. Non parli neppure qualche ora dopo, non parli dopo due giorni e nemmeno dopo una settimana quando arriva la notizia di zio Spartaco, morto improvvisamente di infarto. Negli ultimi anni hai letto quasi solo i suoi libri di Lenin, i suoi Quaderni rossi e lo hai chiamato ogni volta, quando non capivi qualcosa. Ester ti racconta con precisione della sua vita senza regole, di Carla, la donna che viveva con lui e tu hai conosciuto a malapena, del suo male al cuore mai curato, di quanto la sua vita fosse divisa senza orari tra lo studio, i clienti, il giornale e la politica. Vi amavate, tu e Spartaco, di una forza intensa che taglia i limiti di parentela, un amore evidente nei suoi toni sempre sarcastici e nel tuo desiderio costante di sembrare più grande ai suoi occhi. Era il tuo eroe, il tuo maestro, la tua guida.  ‘Come ti senti?’ ti chiede un giorno una compagna di classe vedendoti all’intervallo china sul banco con le braccia tra loro strette come per fare da cuscino al tuo volto, ‘bene’ hai risposto, ma non è vero: ‘tendenzialmente voglio morire’, è così che scrivi sul tuo diario quando torni a casa, quella sera. Alle porte dei tuoi 18 anni vuoi morire. Ester è preoccupata, ti porta dai medici che faticano a capire, ad aiutarti. Se la politica ti dà una mano non si può dire lo stesso dei tuoi professori. Non passa giorno in manifestazione che non sia seguito da un’interrogazione di ripicca alla lavagna. Una volta vieni chiamata per una settimana intera di seguito da quello di latino, un democristiano che, non contento, il venerdì, prima di farti tornare al banco, ti domanda di tradurre il più velocemente possibile ‘Il mio fidanzato è morto in un incidente stradale’.  Non ti consolano gli amici del paese che organizzano uscite di gruppo per andare a vedere Giovannona Coscialunga in un cinema di seconda visione e neppure ti è d’aiuto quel velo nero di morte che sembra essersi posato non solo sul tuo stato d’animo ma pure sul resto del mondo, sul tuo tempo, sugli sporchissimi treni regionali che sei costretta a prendere a orari impossibili ogni giorno, sulla compagna di classe più in gamba di tutte morta di overdose e finita in prima pagina sul quotidiano locale, sulla mediocrità con cui sei costretta ogni giorno a confrontarti parlando con certi compagni che improvvisamente ti sembrano interessati a frivolezze e amenità che spariscono nella bolla del tuo male profondo.  Non è chiaro come ad un certo punto cambino le cose, come improvvisamente si sciolgano le membra che per tanti mesi hai sentito gelarsi senza tregua; sono forse i libri dello zio che ora tieni tutti in camera tua, oppure le prime giornate di sole nuovo, Ester finalmente più serena e lontana dal buio che non le dava tregua. Metti d’improvviso a fuoco ciò che prima ti sembrava confuso e decidi che da grande farai l’assistente sociale, ti occuperai dei bambini costretti a dormire in posti ben più scomodi di qualche divano che all’occasione si trasforma in letto e di madri tristi, padri assenti, e viceversa. Ti occuperai delle donne ma non sarai mai una femminista a tempo perso, mai cadrai nell’inganno retorico del tuo tempo, nella cullo di qualche forma di potere che sembra volersi sostituire a un altro potere. Ti occuperai, nei fatti, dell’amore, soprattutto quando è difficile, quando non funziona. È da questo momento che tutto si ammorbidisce e sembra farsi più veloce, come sullo scivolo, una volta finiti i gradini della scala. Ti riempi la vita, non sei mai a casa, mai ferma, sempre divisa tra la scuola, la politica, i piccoli primi lavori. Siamo a un passo dagli anni ’80 e ti innamori di nuovo. Lui è un giovane uomo di teatro, comunista, colto, pieno di fascino ai tuoi occhi di giovane donna, per nulla irascibile – a differenza di tuo padre – e sarcastico – proprio com’era zio Spartaco. Vi amate così tanto, di così pura e idealizzata passione, che vi sposate dopo poco con una cerimonia civile mentre la banda del teatro comunale suona solo per voi. Nessuno è d’accordo, sei troppo giovane, Ester ha firmato da poco le carte del suo divorzio e l’idea che tu, sua unica figlia, studentessa e futura lavoratrice di successo ti stia già dando in pasto ai dolori di una vita di coppia senza semplice via d’uscita, la preoccupa enormemente. Non ha tutti i torti, tu e Marco durate poco, il tempo di capire che l’amore non basta, che la vita in due va costruita oltre le passioni, oltre i sentimenti, oltre le teorie. Le fatiche, i doveri, in questa famiglia che non fa in tempo a nascere, sono solo tuoi, sue invece le tournée e il tempo trascorso a coltivare il lavoro culturale con cui mangiare è quasi impossibile. Un giorno, stremata da una vita in due di cui senti il peso gravarti sulle spalle senza che nessuno ti offra aiuto, decidi di andare via, fai la valigia, sali sulla tua auto beige e lasci la vostra casa. Entri in un bar e raggiungi un telefono pubblico, componi un numero che ti hanno dato, scritto su un foglietto: chiami un analista ancora prima di chiamare tua madre.  Hai 26 anni, sei stata moglie, lavoratrice e insieme studentessa, non ti sei iscritta all’Università ma mentre il tuo ex marito preparava i suoi spettacoli teatrali tu coltivavi un principio di gastrite e poi di ulcera sui soliti treni regionali che da Pavia ti portavano ora a ritroso verso Milano, alla scuola per diventare assistenti sociali. Ora sei sola, ancora una volta, vivi in una casa  che ti ha comprato Ester con i suoi risparmi di una vita. Hai un fidanzato che vive dall’altra parte della manica, un uomo con cui sai che non avrai un futuro e che forse hai scelto proprio per questa ragione. Vai dall’analista ormai da quattro anni e lavori sodo, giorno e notte. Coordini un gruppo-appartamento: una casa in cui assistenti sociali, psicologi e una cuoca dolce e di carattere seguono ragazzi e ragazze minorenni con alle spalle condizioni famigliari disastrose, aiutandoli ad avere una nuova vita, una nuova famiglia tra quelle mura. Sei quasi una mamma per loro e non sai ancora che nessun lavoro ti renderà mai felice quanto questo, nonostante i turni di notte sempre sfiancanti e le persone che non riuscirai a salvare da un finale troppo buio. È in quell’appartamento che un giorno fa il suo ingresso la tua nuova vita. Andrea si è appena laureato in Economia ed è il nuovo obiettore di coscienza, ha i capelli corti appena tagliati ma fino a un mese fa la sua chioma riccia era un tratto distintivo importante. Ha un animo sentimentale, dolce, forse ipersensibile ed evidentemente fragile ma di una fragilità che trovi bella e tenace. Vi innamorate subito e tenete la storia nascosta a tutti per alcuni mesi, fino a quando, molto lentamente, calzino dopo calzino,  maglietta dopo maglietta, vi ritrovate a vivere insieme nella tua casa. Volete un bambino, lo volete anzitutto, perché desiderate compiere insieme quello che pensate sia l’atto d’amore assoluto, la prova creativa più importante. Andrea ama ridere e ti fa ridere, ha un gruppo di amici interessanti e, come lui, pieni di talento, la maggior parte li ha conosciuti il primo giorno di Università, per via di un’agenda rossa tenuta tra le mani al posto delle precoci valigette Ventiquattrore nere che popolavano la Facoltà. Di lui ti piacciono soprattutto le spalle, le mani, una certa autenticità e una forma nascosta di forza interiore che scopri lentamente e in cui lo senti tutto sommato affine. Rimani incinta quasi subito e sul nome non hai dubbi: se sarà maschio si chiamerà Pier Paolo, come Pasolini, il tuo scrittore preferito, se sarà femmina invece Gaia perché ti piace e questo basta. A fine giugno del 1985 hai 27 anni compiuti da poco più di un mese e nasce la tua bambina, ha la carnagione chiarissima, gli occhi azzurri come i tuoi e come quelli di Ester, la testa un po’ grande ma niente orecchie a sventola. Dopo di lei, a distanza di otto anni, di lunghi viaggi nel cuore dell’Europa dove Alberto studia per diventare ricercatore, arrivano due bambine, gemelle, i nomi li lasci scegliere a Gaia in un pomeriggio di primavera del 1993 mentre la guardi intenta a  mangiare lentamente un gelato Cremino al tavolino di un bar in collina.   Andrea è un docente universitario, ha fatto ricerche di Teoria dei giochi e si è occupato di energie rinnovabili, tu lavori con i minori e le loro famiglie e anche se la sera rientri senza più energie, alla fine dei conti, non cambieresti nulla per nessuna ragione. Ester non c’è più da un anno ed è riuscita ad andarsene senza soffrire, facendosi beffa di una malattia che l’ha fatta tremare e piangere per anni ma che non è riuscita, neanche lei, a ucciderla. Ad Aldo, tuo padre, non pensi molto, quello che ti ha lasciato sono i ricordi di pochi incontri diradati negli anni e tutti gli alimenti mancati quando più ne avevi bisogno ora improvvisamente materializzati nel tuo conto in banca di dipendente comunale, pronti a trasformarsi in una bella casa nel centro della città.  Ora, dalla finestra della nostra cucina si vedono alcune delle cime di quelle che erano le cento torri di questo borgo longobardo, ne restano solo alcune sopravvissute a una Storia lontana che non abbiamo potuto conoscere. C’è un tempo che non ci compete, che non ci riguarda, un tempo che non ci possiamo concedere ed è forse questo quello che ti manca ogni giorno, quello a cui pensi con la nostalgia del non vissuto quando rientri a casa la sera e appoggi a terra una borsa, una busta, altro ancora e io ti sento camminare e riconosco i passi, i tuoi sospiri stanchi di appassionata combattente nel mio presente senza lotta.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).