La teoria è morta, lunga vita alla teoria

da | Mag 7, 2014 | Senza categoria

Dalla rivista americana n+1 un intervento sulla critica della letteratura, sull’accademia, sul Grande Romanzo Americano, su Pynchon, Franzen e Lévi-Strauss. 

 

E se la teoria critica della letteratura fosse stata una bufala gigantesca? Tutto il contrario. Fu l’unica salvezza, per un periodo di vent’anni, dalle due colossali rinunce di pensatori e scrittori americani. Dal 1975 al 1995 circa, per via di una combinazione storica, gran parte del pensare e del vivere mentale degli americani venne fatto dai francesi, e da giovani americani che seguirono i francesi.

Le due grandi rinunce avvennero una nei dipartimenti filosofici accademici e l’altra nella narrativa americana. Sul fronte della filosofia, a partire dagli anni ’30, un gruppo rivoluzionario aveva iniziato a combattere dentro le università per superare “la tradizione”. Questa insurrezione, chiamata all’inizio “positivismo logico” o anche “empirismo logico” e poi semplicemente “filosofia analitica”, era in quel momento la cosa migliore che potesse esserci. L’idea originale si basava sulla convinzione che l’analisi logica del linguaggio avrebbe mostrato quali problemi filosofici potevano essere risolti e quali invece eliminati in quanto non potevano essere espressi in modo chiaro e in un linguaggio logico. Quindi tutto questo spazzava via la maggior parte di ciò che ci aveva lasciato Hegel, la cui filosofia veniva ancora capita in Europa, incluse la storia, l’essere, la morte, l’identificazione, l’amore. Questo approccio, ancora completamente nuovo negli anni ’30 (Carnap, Russell, Ayer) mentre cercava di sviluppare un suo linguaggio logico ideale, era da poco diventato istituzionale nel pragmatismo analitico degli anni ’50 e ’60 (Quine), in tempo da intensificarsi ancora di più negli anni ’70 (Kripke), e risparmiato dalla sua fine attraverso la reintroduzione di presupposti naïve che erano stati rifiutati all’inizio.

I positivisti non avevano torto, non era necessario entrare troppo a fondo nell’idealismo accademico per vedere che si trattava solamente di un qualcosa dal guscio duro ma dal cuore tenero. La tragedia della filosofia politica fu proprio il fatto che vinse in America in modo così decisivo all’interno dei dipartimenti di filosofia– distruggendo la fazione tradizionalista – esattamente nel momento sbagliato. Trionfò negli anni ’60, mentre la reale agitazione della società americana chiedeva un rinnovato trattamento dell’amore, della libertà, degli altri, della politica e della storia – gli “pseudo problemi” si fecero reali. Era bello che John Searle fosse così comprensivo verso l’uso del SDS a Berkeley, o che Hilary Putnam cantasse slogan maoisti ad Harvard; i ragazzi di Parigi però avevano Foucault.

Sul fronte della narrativa niente è mai così chiaro; ci si possono comunque trovare gli effetti del problema generale. Durante le stesse decadi di metà del secolo, quando i filosofi analitici sbaragliavano tutti i nuovi arrivati, il romanzo era esaltato nella cultura americana in quanto aveva un potere di giudizio e di profezia quasi biblica. (Bellow su Chicago: “La  terribile stupidità lo coprì, come un giudizio che non potrebbe mai trovare le sue proprie parole.” Ma lì, ne Le Avventure di Augie March, aveva trovato le parole giuste). Negli anni ’40 e ’50, quando i nuovi critici professionisti dettavano legge sia nelle piccole riviste letterarie che nelle università, la grandiosità americana si chiuse in un sistema senza uscita. Questo perché nello stesso momento i critici avevano appena scolpito nella roccia due canoni differenti – un Vecchio Testamento del Rinascimento Americano (Emerson, Hawthorne, Melville, Whitman), e un Nuovo Testamento del Modernismo (James, Eliot, Hemingway, Faulkner) – da cui non c’era necessità di uscire. Si trattava del tipo e dell’antitipo, erano gli anni ’20 del novecento che dialogavano con gli anni ’50 dell’ottocento, raggiungendo ogni cosa, e gli scrittori contemporanei arrivati dopo la guerra ne venivano lasciati fuori, al freddo. Le richieste sui nuovi romanzieri, per un “Grande Romanzo Americano” sul filone di questi vangeli della lettaratura, si innalzarono troppo per poterle raggiungere. La cosa sconvolgente era che gli artisti continuavano occasionalmente a dare qualcosa, come Ellison e Bellow fecero ognuno una volta – ma si trattava di una fine, non di un inizio.

A metà degli anni ’60 alla narrativa stava succedendo qualcosa di paralizzante, un fenomeno ancora piuttosto difficile da spiegare: scrittori eloquenti incolparono la totale pazzia della vita americana (Roth) o “l’esaurimento” delle forme (Barth). C’era la pressione della critica, che poteva addirittura portare a una critica irriducibile, come la Sontag che si dichiarò “contro l’interpretazione”; altri puntavano il dito su i programmi accademici di scrittura e sulla terapia di gruppo dei workshop di scrittura. Poi arrivò il ’68, e i caotici anni ’70, un’era che ricevette – al posto di Germinal o L’educazione sentimentale o I demoni, o perfino Furore! – L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon e JR di William Gaddis. Il primo era un’epica simbolico-enciclopedica che senza alcun imbarazzo si avvicinava a Joyce, il secondo un romanzo che riguardava niente di meno che il capitalismo americano (in un modo rubato a Henry Green, modernista minore inglese, con un’alternanza di dialoghi estremamente chiari e brevi passaggi descrittivi di allucinata genialità, elevati da Gaddis a demente grandiosità). In retrospettiva però questi libri appaiono marginali mentre il “Grande Romanzo Americano” sarebbe dovuto essere centrale, quindi solamente singhiozzi eroici di esaurimento e non inni inaugurali.

Terry Eagleton una volta fece notare che i teorici francesi mantenevano una tradizione modernista riguardo alla letteratura che i romanzieri invece non mantenevano. Prolissi, allusivi, sperimentali, ma sempre con un obiettivo, dichiarare che certi pensieri potevano occorrere solamente usando un certo registro – certo, questa era la teoria. Ma la cosa più significante è che la teoria sopravvalse e prese il posto della funzione pensante e di quella stilistica: si trattava la teoria sociale come si trattano i romanzi, più per un potere liberatorio che non per rigida fedeltà alla scuola, e si offrirono sospetti selvaggi come il percorso verso l’illuminazione personale. La teoria sostituì il romanzo per un intero periodo: produsse i lavori allo stesso tempo letterari ed intellettuali, e tutto questo scese a patti con le immediate conseguenze degli anni ’60.

Molti dei classici dell’epoca aprirono con prodezze di prosa che i romanzi americani degli anni ‘70 e ‘80 avevano a malapena tentato. Lévi-Strauss poteva descrivere un tramonto in Tristi Tropici per più tempo di quanto non ci metta davvero il sole a tramontare. Foucault scrisse quattordici pagine su un singolo dipinto, “Le Meninas” di Velazquez. E poi c’erano la spinta e l’audacia della Storia della sessualità: volume I: “Per molto tempo, dice la storia, abbiamo appoggiato un regime vittoriano” – con i longtemps proustiani buttati via, con così tanto brio per un’opera di storia! Si poteva lasciare un libro a metà come quello con la capacità di capire praticamente tutto leggendo il giornale o camminando per strada, in un modo completamente nuovo. L’illusoria “verità” moderna del sé sosteneva quindi che i discorsi sul sesso e sulla salute non furono repressi ma proliferarono. Aiutava che i concetti di teoria erano così complessi che solamente un adolescente avrebbe potuto capirli.

Onestamente dove si andava a cercare la diagnosi della società, in American Psycho di Bret Easton Ellis? Lyotard fece un lavoro migliore in Libidinal economy, ed era anche più spaventoso – senza alcun spargimento di sangue pornografico. Una civiltà che poteva essere punita meno, ma punita meglio, amministrando la sorveglianza da dentro la propria testa (Discipline and Punish), o sostituire il reale con un mondo mediatizzato di simulazioni (Simulacra and simulation), o che aveva un incentivo economico per riconfigurare una conoscenza disparata come “informazione” commensurabile (The Postmodern Condition) – bene, quello era chiaramente il mondo in cui vivevamo. Mentre le storielline di tristi rivelazioni nel Best American Short Stories 1989 – quelle erano delle stronzate irrilevanti.

I migliori e più eccitanti romanzi dello stesso periodo, quelli che facevano pensare alla nozione di “Grande Romanzo Americano” erano stati fraintesi e rispondevano apertamente ai teorici. Rumore Bianco di Don DeLillo aveva un critico teorico come protagonista. La Regeneration Trilogy di Pat Barker (d’accordo, è inglese) e soprattutto Eye in the door, trionfarono come esperimento controllato dell’applicazione di teorie femministe alle storie (della prima guerra mondiale) che un’intera nazione dava per scontato.

C’è solamente una cosa che sarebbe potuta “morire” negli ultimi cinque anni perché si trattava di un’importazione da un altro paese, la Francia, e che aveva ormai smesso di usare quel modello, mentre gli eredi americani più in vista erano esegeti ed epigoni, traduttori e discepoli – e quindi mediocri. La morte della teoria era anche letterale. Quasi nessuno dei vecchi eroi è ancora vivo. Le eccezioni sono Baudrillard (vivo, ma cinico), Habermas (anziano e in salute, ma tedesco), e, incredibilmente Claude Lévi-Strauss [che nel frattempo è morto, n.d.t]. Non potrebbe essere Althusser ancora in vita, magari in prigione? No, è morto. I candidati successori paneuropei, come Zizek, Badiou, Ferry, Virillio, Agamben, Negri, Vattimo, Sloterdijk, Luhmann, Kittler, sembrano, beh, piccoli se accostati a loro. O si dedicano a qualcosa di diverso.

Il grande errore in questo momento sarebbe di fallire nel tenere fede a ciò che una volta la teoria significava per noi. Si sente un grande collettivo respiro di sollievo dalle persone che non devono più leggere “questa roba”, che poi erano quelli che non la leggevano neanche prima. Ma chi si prenderà gioco di queste persone adesso, esponendo la loro vita di fumo, i loro mezzi di comunicazione come ostacoli alla verità, il loro buon senso convenzionale come ideologia? Sarebbe insopportabile vivere con questi individui, a meno che non vengano insultati regolarmente.

E tutti noi che abbiamo passato i nostri anni formativi sulla critica del simbolo non possiamo tutti essere andati a finire nella pubblicità. Quindi la teoria tornerà per vie impreviste. Le Correzioni, un rinnovamento monumentale del romanzo di critica sociale, passa le sue prime cento pagine nella pelle di un insegnante di teoria. Chip si ritrova a essere il marito casalingo di un dottore di successo; Franzen si prende carico del più grande dei compiti; crea qualcosa di propriamente romanzesco nel fenomeno che sia lui che Chip hanno dovuto guardare alla teoria per spiegare, come del resto abbiamo fatto tutti noi.

La teoria è morta, lunga vita alla teoria. Chi è stato scelto per essere in lutto ha comunque un incarico, quindi sarà in giro ancora per un po’. Per il resto di noi, si è aperta una breccia, nel romanzo e nell’intelletto. Cosa se ne fa?

 

Chip ha venduto i suoi libri di teoria nelle Correzioni, così, senza fatica. Stiamo vivendo la vita basandoci su quello che è già avvenuto nei romanzi? Siamo solamente una emanazione dello zeitgeist?

“Ti dico cosa,” dice chi compra libri, “prendo l’Anti-Oedipus, entrambi i volumi. Gli studenti d’arte lo leggono ancora.” No! Avremmo dovuto leggerlo dal 1987. Ah, non perdete la fede nei sogni di della vostra gioventù! Raccogliamo i libri come orfani.

Uscendo di casa, attraversando la strada, guardiamo a destra e a sinistra attenti ai furgoni delle lavanderie. Stiamo andando a un reading. Entriamo da Barnes &Noble, ci sediamo su una delle sedie pieghevoli di metallo, e ci prepariamo a essere sorpresi.

(Traduzione di Giulio Silvano)

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).