No te vayas: il padrone della nostra casa

da | Ago 9, 2013 | Senza categoria

E finalmente si torna alla vita.
Finalmente.
Anche in questo caso, il significato del termine spagnolo sfugge nella sua doppiezza. Ha poco a che fare con l’univoca sollevazione che si genera in chi pronuncia la parola italiana. Finalmente in questo caso significa di più. O di meno. Racconta più che altro ciò che arriva alla fine. E solo in un senso ulteriore, aperto dal contesto o dall’espressione del significante, può dire anche il modo in cui questa fine viene accolta. Potremmo tradurre “infine”. Per dire che siamo alla fine. Una fine che in certi casi è la benvenuta. Ma non sempre.

Del resto, tutto qui ha a che fare con la fine. E quale fine? Come interpretarla? Dove vederla, questa fine? Porta con sé un inizio? Non c’è sempre un inizio dopo la fine?
Finalmente si torna alla vita.
L’auspicio sembrerebbe buono. A Sevilla la fine di questa festa infinita viene salutato da una salva di fuochi artificiali a mezzanotte di domenica. Le terrazze della città si riempiono di gente riunita per l’occasione. Il cielo brilla, si festeggia, si festeggia cosa? Sono passati esattamente sette giorni dall’ Alumbrado. Domenica scorsa la gente era raccolta per le vie della feria e aspettava solo che tutte le luci si spegnessero, un blackout temporaneo, il nero della notte sulle mille e quaranta casette già piene di uomini e donne con il loro rebujito in mano, il buio quasi assoluto per far scintillare l’improvvisa accensione delle trecentocinquantamila lampadine che quest’anno innestavano nei colori classici il portone della feria, eppoi subito dopo, progressivamente, le migliaia e migliaia di lampade che percorrevano i viali, illuminavano ingressi, bagni, baracchini, indicazioni di strade torere. Si stappavano champagne e ci si abbracciava come in un capodanno, una settimana fa a quest’ora. Orde di sivigliani sciamavano per calle Joselito e calle Juan Belmonte in un miracolo da epoca d’oro del toreo. Ragazzini fieri delle loro giacche corte e ragazzine commosse per i loro primi mantones de Manila gettati sulle spalle s’incontravano innalzando calici. Sette giorni dopo il fenomeno è speculare, identico e contrario, assolutamente contrario e assolutamente identico. Le trecentocinquantamila luci del portale si spengono. E il buio della fine resta immobile solo un istante. C’è un nuovo inizio forse. I fuochi artificiali illuminano il cielo nero. Le vie della feria sono di nuovo occupate da eleganti sivigliani, i volti segnati dall’interminabile festa. Gli estranei sono scomparsi. I turisti, i bambini, i mille e mille cittadini dei pueblos andalusi sono tornati nelle loro case e il delirio del weekend è finito in un attimo. C’è solo Sevilla. E di nuovo saltano tappi, volano bottiglie, s’incrociano saluti umidi e occhiate malinconiche, brindisi, brindisi e brindisi, e saluti, abbracci e lacrime. Finalmente. Finalmente si torna alla vita. Finalmente vita.

Forse allora questo mese è stata morte?
Al mattino, quando tutto deve riprendere, Plaza Nueva è la vita di sempre. Davanti all’Ayuntamento, le cinque stazioni di biciclette cittadine si riempiono e si svuotano in continuazione, di lá su Harinas il negozio di cartoleria e libri fotografici pare sempre uguale, sempre lo stesso, sempre quello di inverni, estati, primavere, autunni, come se nulla fosse successo e su Arfe non ci fosse Casa Matias. Ma io non ci vado. Non voglio andarci. Non voglio andare a Casa Matias. Altrove. Meglio correre altrove. Un’occhiata al rigagnolo di sapone che scorre davanti a Enrique Becerra, i taxi in fila sul lato corto della piazza, calle Tetuan e calle Sierpes che si preparano a quando il caldo rovente obbligherà a distendere immensi teli tra le cime dei palazzi, e intanto la gente che passa, s’incrocia, si scontra, sacchi, sacchetti e negozi, porte, fruscii, bar, almendras, birre negli antichi bar di General Polavieja dove non ci sono più allevatori, vaccari, banderilleros in pensione, né finti esperti, ma soltanto i soliti tipi che lavorano nei dintorni, qualche avventore improvvisato e nessuno che mi dica nulla, nessuno che m’inviti a entrare. Non voglio andare a casa Matias. Tiro dritto, scuoto il capo, mi ripeto che il centro turistico è perduto, come tutto nelle città globalizzate e che quel che si pedonalizza muore, quel che si salva al turismo muore per sempre. Certo, la Campana resta un centro arcaico. Pasticcini, cornetti, confetti, panna e legno antico e nessun odore più di torrija. La Campana è la vecchia Sevilla e chissà cosa pensano i camerieri che parlavano di tori e irridevano i turisti quel giorno di preferia in cui… No, me ne vado altrove. Me ne vado all’Alfalfa. Forse lì batte il cuore della città? Forse lì posso capire come tutto stia ricominciando? Chiunque mi direbbe che faccio bene, che Santa Cruz non può dirmi nulla, che lì non c’è più Sevilla, ma lo ammetto, sussulto solo a pensare alla piazzetta di Dona Elvira mentre vedo che su calle Mateos Gago c’è il solito viavai mattutino e in calle Lope de Rueda una donna inonda il pavimento della strada di acqua e sapone, solleva uno scopone che pare un’arma e lo intinge nella pozzanghera profumata. Fa fresco, c’è fresco la mattina, è il fresco più giusto di aprile e sembra raccogliere in sé ogni cosa proprio quando la città torna alla vita. Ma non posso andare di là e non voglio andare a Casa Matias. Devo resistere. Così me ne vado all’Alfalfa passando per Placentines. È lì il centro vero, quello mitraico, del toro sgozzato nei riti antichissimi, il centro della piazza romana, il mercato. Alfalfa. Los Caracoles chiuso, i due bar sui lati aperti e al Horno Buenaventura, il primo forno Buenaventura di sempre, il capo cameriere dalla camicia azzurra e l’aria persa e gli occhiali anni settanta porta il conto al tavolino fuori, dove due donne cercano il primo sole, quello leggero e buono, e la freiduria lì davanti è chiusa, e per quanto ancora resterà chiusa, se le panetterie di calle Aguilas sono aperte e il viavai di donne e uomini con la busta della spesa in mano è intenso come mai? Su Placentines la cera al centro della via è un percorso santificato. Cera dura, ha preso il nero della città, ma ancora puoi intravederne i colori originari. Cera sacra dei riti pagani di un mese fa. Per quanto ancora resterà lì, il segno eterno e immortale del passaggio di processioni che ha solcato Placentines quando migliaia e migliaia di nazarenos precedevano i piedini achillei dei costaleros e la cera cadeva dalle candele lunghissime e le musiche suonavano l’inizio di una festa lunghissima, infinita, talmente infinita che è finita, è finita come tutto e se esisteva era solo perché lei, invece, era morta. Ecco, morta come tutte le feste che vogliono sconfiggere la morte.

Penso a questo paradosso mentre entro nel mercato dell’Encarnacion. Erano aperti tutti i mercati di Sevilla in questo mese di vita e morte. A calle Feria, Juan il verduraio portava la scarola, gli uomini del pesce portavano cañaillas, il caffè Pitacasso accudiva chi era affaticato. E ora qui invece c’è di tutto. E su tutto, solo qui, all’Encarnacion, puoi comprare la carne sacrificale, la carne vergine, prelibata, dei tori uccisi alla Maestranza nella settimana passata. In questa magnifica normalità assoluta di un lunedì di vita la carne sacrificale suona come l’ultimo baluardo del sacro che affliggeva di morte un mese di festa e di sospensione di vita. Il mercato mi pare improvvisamente un viavai che racconta solo questo. Vedo Antonio, l’uomo dell’asfalto, che beve al bar verso calle Regina; vedo Eduardo, l’uomo del formaggio, che ride di fronte al bancone scintillante nonostante le file di accoliti. Vedo gente che ho già visto altrove, forse alla biglietteria della Maestranza, forse quando a Plaza de la Magdalena sfilava qualche confraternita, forse al baretto sul Guadalquivir che chiude appena cala il sole. Mi sento perduto. Come un improvviso horror vacui, come se un vuoto atroce mi richiamasse nel brulichio del tran tran quotidiano. Vorrei andarmene dove non ci sono negozi, non c’è mercati, traffici, mercanteggiamenti e tradimenti. Vorrei andare verso la casa dove visse Machado a cercare il sole caldo e i canti dei galli, magari infilarmi al numero 22 della via che sappiamo per tirare la corda della campanella di ottone che suona nel patio e Luis viene alla porta, sdentato, la sigaretta in bocca e ci fa strada verso le sedie libere e nessuno che sappia del bar, nessuno che sappia del posto che non si deve sapere, un club, un circolo, soci, solo soci, solo dire che sei socio o fingere di sapere che è giusto dire di essere soci, eppoi sedersi lì, sfogliare l’enciclopedia, il Cossìo, aspettare la cartata di carne mechada, le coppe di vino e quella bottiglia che Luis ha sempre promesso, sempre promesso e non ha portato mai. Ce la porterà ora che è lunedì, non è più festa e si ricomincia, si torna alla vita? No. Non la porterà. Dirà che è in arrivo e che basta poco, basta pochissimo, un ultimo sforzo, un’ultima attesa. Andiamo verso l’Alameda, allora, andiamocene dove ogni cosa sembra sempre sospesa e rimandata, nonostante i taxi, le biciclette, il pavimento di un colore sbiadito che nessuno a Sevilla ha mai saputo definire. Quanti anni sono passati dalla volta che ci capitai e dovevano cominciare i lavori? Arrivavo da Niño Perdido e immaginai di scrivere una storia che cominciava lì. Neppure sapevo che proprio dietro l’angolo aveva vissuto Joselito. E poco più in là era nato Chicuelo. E dov’è che abita suo nipote? C’è ancora suo nipote, basta chiedere a Luis Leòn, professione artista. Artista nel toreo da bambino prima di fallire, artista del pallone da adolescente prima di fallire, artista di teatro da adulto prima di fallire e ora è artista vero, artista a tutto tondo, artista nelle miniature che produce, inventa, dipinge, volete chiedere a lui? Andate da Luis Leòn, calle Feria nei pressi di Cruz Verde, artista. Ma ho fallito sempre, dice lui. Sono artista in tutto e quindi artista in nulla, e semmai l’idea è degli altri, di chi lo racconta, mi prenderanno in giro?, ma no, non è possibile, mi vogliono bene, forse troppo, eppoi, be’ un po’ artista sono, un po’ torero, un po’ calciatore, un po’ pittore, sì, un po’ artista, sì artista, in fondo sono artista, io. Ecco il glicine di Quintana. Sta sfiorendo e è sempre inodore. Ecco la via che di lá porta all’Hercules, Guadiana. Potrei tirar dritto verso quello che fu il Sirenas quando Giulia aspettava Pombo e i ragazzi festeggiavano il suo compleanno con l’hascisc arrivato dal Marocco? Non c’è più quel bar. Ce n’è uno che porta lo stesso nome ma accoglie gente diversa, e tutti quelli che amavano il Sirenas neppure vorrebbero passarci davanti. Non c’è più nulla da quella parte dell’Alameda. Ecco, sarebbe meglio di qua, allora. Sì, dai, aspetta, tira dritto, taglia per questo vicolo, passa per di lá. Suoni di pianoforte, violoncelli, violini, fiori d’arancio secchi, il cinese che vende gerani e margherite, la Beni che fa panini e vende caffè e chiacchiera e la madre è sul marciapiede in sedia a rotelle e intrattiene i passanti. Me ne vado al Central, io. Bambini che trottano, taxi che si allungano in fila di fronte alla stazione di polizia pulita come uno squallido museo d’arte contemporanea, la stradina che spinge oltre i bar gay, San Lorenzo e l’ abaceria che per un mese ha cucinato in tutti i modi carne di toro e che da ieri non lo fa più. Un po’ più in là verso la piazzetta? Il locale all’angolo che sforna lumache, il padrone sempre burbero e incazzoso e che basta arrivi suo nipote di qualche mese perché si sciolga e inizi a fare facce idiote e a tirare molliche di pane e fare versi e saltellare. La pasticceria lì davanti dove t’infilavi a comprare mille pasticcini quando vivevi lì dietro, nella casa piena di merletti che odiavi eppoi la lasciasti e hai finito per rimpiangerla. Ecco San Vicente, più in lá Torneo e il Guadalquivir. Ci saranno adesso folle sul lato del fiume che era buio e freddo mentre passava sul ponte in un’infinita fila di candele il paso dell’Estrella? Vorrei ritrovare i resti della teleferica che costruirono nel 92 per l’expo. Volteggiava sulla città del futuro eppoi morì e noi eravamo andati lì a vedere come sarebbe cambiata la situazione il giorno in cui avessero deciso di rimettere a posto la zona e giravamo tra lastricati di pietra rotti dall’erba selvaggia e oggi non ce n’è più, hanno rimesso tutto in ordine e non è affatto come avevamo immaginato: la Cartuja è un museo, una biblioteca e un centro studi; e l’Isla Màgica è una specie di oasi di uffici e luna park, e tutto è come sempre, tutto è come sempre in città negli undici mesi in cui la città è viva e vive la sua vita quotidiana fatta di glorie e sconfitte, uomini e donne che sono gli uomini e le donne di Sevilla.

Cosa ne è stato allora? Cosa è capitato?
No te vayas, no te vayas. Su Avenida de la Cositución è capitato per caso come sempre quando l’aria viene spezzata da una saeta flamenca. Non ho voluto pensarci, lì per lì, ma la frase mi riempie la testa, mi stride nei timpani, mi corrode l’animo. Ho finto disinteresse, mi sono ripetuto che a Casa Matias non volevo andare e sono corso via, veloce, per sfuggire i turisti in folla nel primo pomeriggio del primo giorno dopo la festa infinita. Ma quella saeta non se ne va più via. Mi si è schiantata in faccia mentre fuggivo. La voce roca, rotta, un ruggito slabbrato. Lui l’avevo visto subito: era uno dei due fratelli gitani che girano per la città cantando per i turisti. Raccolgono soldi e fanno quel che sanno fare e cantano invasati, inseguendo ogni volta le vette del duende, il duende assoluto che nessuno ha mai saputo definire, quello spirito trasfiguratore che accomuna toreri, cantanti, artisti, soprattutto gitani. Ma non c’era il fratello. Era solo, lo zingaraccio, stavolta. Si muoveva come sempre, come in un film di Tony Gatliff e forse è lui che è entrato in qualche spezzone di Vengo, in una Sevilla più antica, anni e anni fa, forse è lui da giovane quando aveva ancora tutti i denti, è lui che compare in quel capolavoro di film. Ma probabilmente è la mia immaginazione che vola. Perché era lì, adesso, sulla grande Avenida pedonalizzata. Scalciava, batteva i piedi, faceva piroette, si tirava lembi della giacchetta lisa, l’apriva e la chiudeva, sbatteva le braccia nell’aria e continuava a muovere i piedi sul selciato, quattro passi, un movimento fiero, la toreria gitana. Eccolo. L’ho visto subito. No te vayas, no te vayas. Non te ne andare, non te ne andare. Il grido svociato, la gola dissolta. No te vayas. Andare dove? Andare perché? Perché? Perché se non mi hai mai lasciato? Sevilla. Non mi hai mai lasciato. E non mi lascerai. E’ questo il motto della città, o no? Il nodo che lega la madre ai suoi figli. Il legame che stringe indissolubilmente. Il nodo simbolo di Sevilla. Un rebus, una sfida, l’enigma della sfinge. Un numero 8 tra due sillabe NO e  DO: l’8 che più che numero è un nodo, un nodo tra NO e DO, e il nodo che si chiama medeja e il rebus che diventa elementare, altro che sfinge e sfida alla morte: nomedejado, no me ha dejado, non mi ha lasciato, non mi lascia mai, non mi lascerà mai, Sevilla, perché dovrebbe lasciarmi andar via, allora? No te vayas, no, non te ne andare. Non mi lasciare, non te ne andare, non muoverti. Quale parte di noi se n’è andata e quale è tornata e quale è destinata a restare per sempre, allora? Perché è questa città che ci ha chiesto di restare, è questa città a volere che una parte di noi resti sempre in lei, per non restare sola, per essere protetta, per non lasciar sola quella parte che è in noi, per proteggerla, custodirla, accompagnarla altrove, a tornare se stessa, a restare adolescente. Quali parti sprofondate in noi? Quali zone del nostro io? E quali parti di Sevilla si sono allontanate e sono ritornate in questo mese di sospensione dell’io, sospensione della quotidianità, sospensione della iperproduttività fallimentare del nostro occidente?

Me ne vado ancora più giù verso il fiume, scendo, scendo giù, scendo sempre un po’ più giù. Scendo dove non si possa trovare più nessuno.
E cerco di raccapezzarmi. Tento schemini intellettuali.
La città si è ritirata. Inizialmente si è come addensata in un grumo, durante la semana santa, poi si è eclissata in una città parallela, durante la settimana di feria, e nelle due rituali settimane tra quella santa e quella feriale si è sparpagliata di riposo nel post semana santa e si è riaggrumata nel preferia. Una città scomparsa, una città assente. Morta. Tutto è morte a Sevilla in questo mese di festa in cui la vita trionfa. Turisti arrivano e si chiedono perché nessuno sia in giro o perché i bar siano talmente zeppi che nulla è più possibile, né sedersi, né vivere una vita normale. Gente di qui che se la ride e lo sa bene: non c’è vita in questo mese, la vita non è questa. O forse la vita non è l’altra, quella della quotidianità. Lì, nella quotidianità di undici mesi, è la vita o la morte? E se si fa tutto per combattere la fine, dov’è che sta l’inizio e dov’è che sta la fine? Guarda dentro di te, guarda in te. No te vayas, no te vayas. In noi è il sacro, la nostra parte sacra, la nostra parte buia, oscura, morta e sacra. La Vergine che è dentro di noi, il Cristo morente che è in noi e il Toro, il Toro vergine e Cristo che è il nostro punto buio, la nostra sacralità oscura che lottiamo per tirar fuori e immolare, perché solo immolandola possiamo farla nostra. E quindi ecco il torero che aspetta la sua Vergine: il Toro è una sua parte, è uscito dal toril per ricongiungersi a lui e quando con lui riesce a creare una perfetta figura di perfetta unità, ecco che il toro, l’animalità, la sua parte sacra, è tornata dentro l’umano e l’umano e il divino si sono uniti, il Minotauro ha prevalso e la morte è superata. Ecco qua. Tento schemi intellettuali e non riesco a stare appresso al mio delirio. Il nostro sacro è ciò che è oltre la morte. La nostra quotidianità invece è al di qua della morte, non la considera, non la combatte, semplicemente la rifiuta, la allontana, la evita. E per combatterla, ecco che dobbiamo farla nostra, dobbiamo chiamarla a noi e sfidarla, dobbiamo superarla accettando il sacro che è in noi, il nostro Toro e la nostra Vergine, quel che teniamo chiuso nel buio della quotidianità ma a cui a Sevilla immoliamo un intero mese di vita. Questa è la festa. Il rito. Un rito in cui la città muore, la città è piena di morte. Perché mai come in quel rito di un mese intero noi possiamo affrontare la morte, guardarla in faccia e vincerla con l’esaltazione della nostra vitalità. Festa, festa, festa. Almendras e rebujito. Pescaito frito e rabo de toro. Cavalieri, amazzoni, fiori tra i capelli, luci, luci, luci, nella città in cui la luce è diversa, il cielo si bagna, il cielo è zuppo di luce. E qui è la vittoria della nostra vitalità, nella conquista del sacro che è in noi e solo in noi. Non altrove.

Non voglio andare a Casa Matias, non voglio. Ma il pomeriggio incombe, il Guadalquivir prende colori densi, e fra poco sarà inevitabile. Cammino sul lungofiume, scalcio lattine e bottiglie di plastica. Risalgo verso Plaza de Armas, dove un tempo era la stazione del treno, detta stazione di Cordoba. Il treno andava dritto nell’altra città torera per eccellenza. Cerco da qualche parte in me gli spezzoni di una serie televisiva eccezionale: Juncal. Vedo questo ex torero, José Alvarez Juncal, sangue murciano e vita andalusa, lo vedo zoppicare sulla gamba che gli ha ferito un toro sapiente, soppeso il vestito buono, il cappello, è proprio lui: va a cercare se stesso lasciando Sevilla, treno per Cordoba. Va a inseguire la parte di sé che ha dimenticato. Cosa troverà alla fine di questo cammino? Tutti dovrebbero vedere quelle sette puntate di qualità assoluta, che paiono lontanissime dalla loro epoca anni ’80, regista e ideatore intellettuale Jaime de Armiñàn, interprete protagonista indimenticabile Paco Rabal. Tutti dovrebbero senza esclusioni. Sia chi ama i tori sia chi non li ama e soprattutto chi vuole capire qualcosa di sé. Si ride, ci si sganascia di risate, di fronte alla magia di Juncal, ma quel che vediamo è al di là delle risate. In una dimensione che solo qui, in Spagna, dove per vincere la morte si deve guardarla negli occhi, solo qui possiamo riuscire davvero a tenere in mano. Lo vedo Juncal, mi pare sia qui, ascolto la famosa sigla, il pasodoble dei Vainica Doble. “¿Quién es la maravilla / Que arma la marimorena? / Un torero de Sevilla / Con sangre murciana en sus venas. / A Dios le rezo y pido / Que le acompañe en la arena / La Virgen de los Peligros / Y también la Macarena”. Canticchio. La stazione dove arrivò il treno che portava il feretro di Joselito, poi quello di Gitanillo de Triana, poi quello di Sanchez Mejias. La folla che aspetta il feretro come quando si aspetta la Vergine. Il giorno di Joselito, la Macarena vestita di nero, un abito di lutto cucito da mani di sarti in lacrime per il ritorno del torero che ha regalato alla sua Vergine i cinque preziosissimi smeraldi. La folla che aspetta, aspetta, aspetta. Un’attesa che pare infinita finché il treno si ferma sbuffando. Silenzio, silenzio assoluto, un tremito che percorre le migliaia di anime immobili e nel silenzio è come se fremesse tutta la città e quando il feretro sbuca ecco l’esplosione. Un’esplosione di vita che ridà vita al ragazzo morto, il Lucifero adolescente che pareva invincibile e a cui un toro di nome Bailador ha strappato gli intestini. Tutta la città segue il corteo. Il percorso stringe d’assedio Sevilla come durante il Domingo de Ramos, la domenica delle palme che apre la Semana Santa, come durante un’alba dietro la Vergine Macarena. In tutto il corteo è simile al percorso di un paso. Anche le tappe, le soste, quasi fossero stazioni di penitenza. E lo snodo decisivo, come sempre, è la Campana. Il centro arcaico. La Campana. Poi su verso l’Alameda e calle Feria e la Macarena e infine su su, ancora più su, verso il cimitero di San Fernando dove Mariano Benlliure ha già cominciato a scolpire un mausoleo. Seguo con l’immaginazione quei trionfali cortei funebri in cui tutta la città morì per rivivere. E proprio mentre penso a Gitanillo de Triana, alle migliaia di gitani che cantavano per lui al suo passaggio come fosse il Mistero della loro confraternita, ecco che la voce profonda, che pare arrugginita ma sta scavando nel buio dell’io, quella voce flamenca mi raggiunge come fosse un’altra saeta. E’ la voce di Garcìa Lorca: “In tutti i paesi la morte è una fine. Arriva e si chiudono le tende. In Spagna no. In Spagna si aprono. Molte persone vivono tra le mura di casa fino al giorno in cui muoiono e vengono portate alla luce del sole. Un morto in Spagna è più vivo da morto che in qualsiasi altro luogo del mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio da barba”. Da quale sua parte oscura saliva il duende che ispirò Garcìa Lorca quando scrisse e raccontò l’inafferrabilità del duende? Per un attimo mi pare di vederlo. Mingherlino, lo sguardo che scintilla cupezza, le mani dalle dita veloci e tenaci e gli abiti eleganti e logori e il senso di orgoglio e dignità che conosce soltanto chi ha sondato i limiti della verguenza, ossia il più profondo pundonor. Cammina per i campi aridi di Andalusia prima di essere fucilato assieme a due banderilleros anarchici. Toreria. Dov’è finito il suo corpo? Ancora lo cercano, qui, sotto un albero, in una fossa comune, in un campo coltivato. Ma è vivo, non vedete? Non si può uccidere il duende. “Il duende non arriva se non vede una possibilità di morte, se non sa di dover girare intorno alla sua casa, se non ha la certezza di dover cullare quei rami che tutti portiamo, che non hanno, che non avranno consolazione”. Non esiste consolazione quando la morte e il duende si aggirano per la città della nostra anima. Non esiste consolazione nella scomparsa. Ma neppure nella ricomparsa. E nessuno a Sevilla cerca consolazione. La consolazione è per gli sconfitti e per chi ha smesso di cercare in sé, nel proprio buio, e ha rinunciato a combattere la morte, a dar vita a chi è morto, come per un mese intero succede qui. E io non voglio andare a Casa Matias, non voglio, non voglio, non voglio.

“La Spagna è l’unico paese dove la morte è lo spettacolo nazionale, dove la morte suona lunghe trombe all’arrivo di ogni primavera, e la sua arte è sempre retta da un duende acuto che le ha donato diversità e qualità d’invenzione”. Canta Garcìa Lorca, canta. Una voce nel nulla, il cante hondo che sale dalle profondità del nostro io e che irripetibilmente viene accompagnato dal padrone del nostro buio. Eccolo qui il duende, il padrone del nostro mistero, il dueño de la casa, duen de la casa, duen de, duende. Il padrone della nostra anima più nascosta. Sale, sale, sale, ci dice che non ci abbandonerà. Non ci lascerà. Non se ne andrà mai via. Ma sta a noi lasciare che venga in superficie, che accompagni i nostri gesti, l’irripetibile capacità di cogliere un profumo, un colore, una sensazione. “Perché il duende  non si ripete, come non si ripetono le forme del mare in burrasca”.

Me ne vado di nuovo su per Los Reyes, poi Trajano, Hiniesta, Parros, la Macarena, le mura. Non voglio andare a Casa Matias, non voglio. Calle Medalla Milagrosa, il ristorante dove non siamo andati mai. Vorrei mangiare ma ho lo stomaco chiuso e la Ronda de Capuchinos è un inferno e le bici sfrecciano, i bambini tornano a casa, il cielo comincia a inzupparsi del blu andaluso, il blu azzurro che gronda terra di albéro e che sa di crepuscolo. Alle nove e mezza finisce tutto a casa Matias, basterebbe aspettare le nove e mezza. Ho ancora un’ora ma le mie gambe mi portano, i miei piedi mi spingono, i miei piedi incontrollabili mi costringono, come Patroclo quando fu rapito dai suoi piedi per correre alla tenda di Achille. Plaza del Pelicano, si sentono rumori sordi del fabbro nel grande patio, battiti di mani e di piedi nella scalcinata scuola di flamenco e a plaza Moravia ci fermammo quell’ultimo giorno di sole, il barista stava aprendo proprio alle sette di sera, disponeva i tavoli metallici e accanto ragazzi facevano fotografie. “Non sembra una modella” dicevamo della ragazza. Aveva un volto picassiano, gli zigomi alti, il naso adunco, il rossetto sulla pelle bianca. Era la donna che si fermò al Bar Algabeño quel giorno di marzo in cui smise di piovere e per la prima volta in città si mangiavano le cabrillas raccolte nei campi umidi Scivolo di nuovo giù su Hiniesta e su Vergara e su Castellar. Non voglio andare a Casa Matias ma fra poco sarà tutto finito e le responsabilità verranno sradicate, le colpe annientate, il giudizio rimandato per sempre. La porta che apre alle grandi scale per salire al grande terrazzo sui corralones è chiusa. C’erano uomini ubriachi a darci il benvenuto quel giorno di preferia e ora chissà se sono sobri. A plaza Maldonados cerco il Gato Azul. Erano molti anni fa quando ridevamo del mio apodo torero e scattammo foto sotto l’insegna felina. Ordino un fino, almeno un fino, almeno uno che mi dia coraggio. L’alcol scorre giù freddo e pesante. Ne ordino un altro e subito un altro ancora. C’è il sapore di Jerez l’anno che la feria era lunga e alla Mesòn de Paco mangiammo il rabo de toro più buono di Spagna. Corro giù a occhi chiusi. Supero senza guardarla la Vizcaina e la chiesa da cui sbucò come un parto il paso di Cristo nel giardino degli ulivi, i discepoli addormentati e l’angelo dall’ala immensa davanti a annunciargli un destino di morte. Giro verso calle Regina e l’Encarnacion. I grandi funghi, le stradine, il bar Aurora pur di non passare dalla Campana, i vicoli dei librai pur di non rivedere ancora Sierpes, le strade anonime pur di non passare da Paco Gòngora, la via tortuosa pur di non ripassare di fronte alla cartoleria sempre aperta e sempre uguale, uno spicchio di Harinas, uno sguardo sulla Casa del Pulpo Gallego, il respiro che si assottiglia, l’idea dell’Arco del Postigo e la via, la piccola via che tutti credono sia morta e che invece è viva. E così eccomi qua e non sono ancora le nove e ho l’animo in subbuglio e già sento – o forse sono io che immagino? – le voci degli uomini dentro, i tacchi delle donne sulle assi di legno, le chitarre, i cassoni su cui battono impetuosi i ritmi e già il duende mi assale, mi accerchia, mi vuole stroncare, finire, uccidere. Pur di darmi vita eterna. E io ho paura. Ho paura. Tremo. Un po’ di toreria anche tu – dico a me stesso mentre saltello sui due gradini. il ragazzo dietro il bancone è lui. Non mi volto verso l’assito di legno. Chiedo una manzanilla, cerco di nuovo l’ingresso mentre i ritmi mi spezzano, mi frantumano e so benissimo chi stia cantando, lo so benissimo. E’ l’uomo senza voce in giacca e cravatta che i giorni delle corride pilucca olive dai piattini altrui prima delle sei e mezza al Bar Taquilla e dopo la fine della tarde pilucca gamberetti dai piatti altrui alla Bodega San José. Ma non lo guardo. Non voglio vedere la sua ira che è follia e la sua follia che è sapienza di morte. Cerco la lastra di porcellana sul lato sinistro del piccolo portoncino d’ingresso. Mi avvicino con le mani tremanti. Butto giù tutta insieme la manzanilla eppoi guardo e un’altra mano tremante, un’altra mano tremante di vita e di morte ha fatto il suo compito. Mi viene da piangere. Ha segnato i giorni. Ha riempito lo spazio bianco con uno svolazzo andaluso. 354. La prossima pasqua sarà il 20 aprile, me lo avevano detto. La mano ha fatto il suo compito. Mi nascondo dagli avventori, scendo sulla piccola via. Sento rimbombare il ritornello mentre i ritmi incalzanti gridano qualcosa che non posso sapere. Poi mi accovaccio su un gradino e mi viene improvvisamente da ridere. E’ una risata ebbra e dionisiaca, forse. Perché è Dioniso che ha dato l’ebbrezza al mondo il giorno in cui il dio che non sapeva piangere ha pianto, quando il dio che non poteva morire ha visto morire il suo fanciullo più amato: Ambelo. Rientro dentro. Prendo ancora una manzanilla. La butto giù in un sorso e col sorriso di un satiro guardo di nuovo la scritta. “Falta 354 dias para El Domingo de Ramos”. Trecentocinquantaquattro giorni di vita e di morte. Eppoi si ricomincerà. Si ricomincerà. Rido. Qualcuno mi guarda. Allora salgo l’ultimo gradino e mi siedo tra i musicisti.

(per Athanasios Koukopoulos)

[fine]

La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
La seconda qui.
La terza qui.
La quarta qui.
La quinta qui.
La sesta qui.
La settima qui.
L’ottava qui.
La nona qui.
La decima qui.
L’undicesima qui.
La dodicesima qui.
La tredicesima qui.
La quattordicesima qui.

 

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).