Misteri dei giorni più difficili: la Preferia

da | Mag 24, 2013 | Senza categoria

Il movimento è veloce, e quasi impossibile è seguire dettagliatamente come girino le dita della mano. Se fate attenzione, però, è un movimento pieno di senso. Così almeno mi è parso, dopo giorni interi a ripetere il movimento sulla mia mano e studiarlo. Ho iniziato con gran lentezza, adesso già vado più veloce. Guardo come le dita si richiudono sul palmo, una dietro l’altra, sembrano le tessere di un domino che ha preso a correre, e in cui, una dietro l’altra, cadono le tessere; le dita invece girano sul polso che a sua volta si richiude, in un volteggio, verso l’interno: in senso antiorario con la destra, orario con la sinistra. I polsi che scandiscono la discesa dei polpastrelli sul palmo, la loro caduta, e la finale chiusura della mano in un pugno. Non mi ero accorto mai di così tanti particolari. Non mi ero accorto, per esempio, che si tratta di una mossa per nulla naturale e spontanea. La mia mano sinistra, per dire, non sa replicare in nessun modo la forma che vado disegnando da giorni sulla mano destra. Ci vuole attenzione, insomma. Qualcosa di cui sicuramente qui nessuno ha bisogno. Perché ci si nasce, la si apprende fra le prime cose, sia che uno balli, sia che lo faccia solo per scherzo o simulazione. Come noi impariamo da bambini a girare la forchetta tra un mucchio di spaghetti, così qui le mani flamenche le conoscono tutti. Ma è un esempio traditore, questo. Vale solo per la spontaneità del gesto, non per descriverlo. È in quella descrizione però che noi troviamo la Sevilla di questi giorni sospesi, i giorni di preferia.

E infatti non c’è fine, non c’è scopo, in questo movimento che abbiamo visto decine, centinaia di volte, senza mai davvero considerarlo. Tutto qui è legato all’arte e all’assenza di scopo. Perché in questo caso, non s’impara il gesto per mangiare, per costruire o lavorare. Si tratta del passo finale di un movimento di danza, l’apice di un volteggio, la chiusura di una figura. Il momento in cui le braccia si sollevano lentamente verso l’alto come costruendo un cerchio che sale impercettibilmente, si avvita, si assottiglia e infine, quando il passo finisce, mentre la testa della donna rimbalza all’indietro e tutto sembra esplodere in una sorta di immobilità improvvisa e ridanciana, le mani si serrano in questo movimento repentino in cui le dita chiudono quello che sembra il sogno inseguito, toccato, sfuggito. Per capire lo stato d’animo del passo con cui si chiude una figura flamenca si potrebbe guardare per esempio al desplante del torero. Ossia quel passo con cui l’uomo in un’arena si ferma di fronte al toro, alla fine di una figura, e esibisce il suo corpo in una forma plastica, di vittoria, momentanea presenza e felicità. Così, nel flamenco e nei passi delle danze che stanno per esplodere, le sevillanas, le donne terminano una serie di passi slanciando la testa verso l’alto e chiudendo le mani in un pugno fragile da cui pare che il sogno sia volato via. Volato dove? Il volto delle donne in estasi o come abbandonate alla felicità del momento, ci racconta quel che hanno avuto l’impressione di cogliere e non ciò che hanno perso. Ma quel che hanno colto è quella stessa vita che è volata via.

Nel movimento delle mani sta moltissimo di tutto ciò che si sta preparando in questi giorni a Sevilla. La città infatti si sta svuotando. Sembra una morsa che con leggerezza, tocco, canto e ritmo si sta serrando attorno al centro di questa piccola capitale del mondo piena di una vita brulicante, dall’alba al tramonto, ogni santissimo giorno dell’anno. Tranne in questi. Tranne nei giorni che seguono la settimana che si è allungata dopo Pasqua in una gloria di immortalità. Cosa stia succedendo però lo sanno tutti, qui. E basterebbe farsi un giro a est di Triana in quello che è chiamato Recinto Ferial, un parco attraversato da strade in terra battuta che portano nomi toreri. Sono gli eroi che hanno segnato l’interpretazione spagnola della tauromachia. Costillares, il genio che inventò la veronica, Pepe Hillo, autore ottocentesco del primo trattato tauromachico, Joselito El Gallo e Juan Belmonte, maestri della cosiddetta “età dell’oro”, Chicuelo, il sivigliano che per primò rese arte non un passo ma l’insieme dei passi, Gitanillo de Triana, il gitano che morì ucciso da un toro a Madrid, Curro Romero, il torero che deliziava solo quando (e se) ne aveva voglia. Nomi di strade che ricreano una Sevilla antica, senza cemento e senza benzina, ma piena di cavalli, calessi, cappelli, polvere e sole. Squadre di operai sono al lavoro in questo parco che per una settimana all’anno svolge il ruolo per cui è nato e conservato, ossia ospitare la Feria in mille piccole casette che riproducono in miniatura le classiche case andaluse. Mille casetas pubbliche ma soprattutto private per rifondare una città nella città, una città fuori dalla città e spostare il centro della città fuori dal suo cuore in cui ha pulsato durante la Semana Santa per farlo rivivere di fronte alla campagna in cui la primavera sta portando nuova vita.

Ecco il segreto. Dalla città alla campagna in un movimento veloce, pieno di grazia e sensualità, pronto a riprendersi ogni volta il sogno di immortalità. Olé. “Olé”. Così si grida all’unisono quando le mani fanno scivolare le dita intorno all’aria. “Olé” è il saluto sospirato al termine di una serie di passi toreri. E non è casuale che mentre la città si svuota e il suo centro si sposta verso la periferia, verso la campagna che è a due passi, intanto il cuore di Sevilla pulsi all’impazzata nel suo vero assoluto centro: la Real Maestranza. I tori invadono l’arena, ben prima che la feria cominci. Questa è la regola. Una regola che la crisi quest’anno ha reso fragile e sfuggente, con un taglio alle serate tauromachiche che fa sospirare gli aficionados. Per ora, una novillada per stimolare i palati, con torelli giovani e molto criticati, tanto era inadeguata la loro presenza. E una serata di tori maestosi, duri, caratterialmente difficili, tanto da apparire intoreabili. Gli appassionati si sono già divisi, si sono già scambiati critiche e rimostranze. Hanno ricominciato a discutere. Buon segno, dunque. “Se si discute vuol dire che siamo in salute” dice la vecchia padrona della Bodega San Josè, la creatrice del paninetto con la pringà più ambito di Sevilla. “Ah! Però se i morti sapessero quel che sta succedendo!” dice alzando le vecchie mani in una specie di benedizione. “Se potessero vedere gli antichi non ci crederebbero. Cosa? Ma che la crisi si sia portata via tanta gente e che qui a mezzogiorno non ci sia più il pienone. Se vedessero che ci sono meno corride. Se i morti venissero qui a vedere. Non so proprio, non so proprio”. Se i morti. Se i morti uscissero al sole. Se i morti tornassero davanti al loro bar, la bodega di una vita, dove si parla di tori e di toreri, la bodega dove spazio per un bicchierino di vino di Jerez non ce n’era tanta era la gente in giacca e cravatta a discettare di geometrie, allevamenti, sangue, razze, arte, morte. Se i morti fossero qui. Almeno una volta. Una volta almeno a vedere cosa succede. Quanto cambia. Se fossero qui loro. Al sole. Almendras in un pacchettino di carta. Vinito nella mano libera. Se fossero qui al sole. Di nuovo questa storia. Di nuovo una resurrezione sognata. Faccio un brindisi alla signora che sorride. Poi torno a guardare il movimento flamenco sulla mia mano e mi domando se non ci sia molto di più di quel che sto raccontando.

[continua…]

La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
La seconda qui.
La terza qui.
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La settima qui.
L’ottava qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).