Luglio: libri di viaggi

da | Lug 6, 2015 | Senza categoria


La via della scoperta

«Lasciammo Caracas il 7 febbraio, con il fresco della sera, per intraprendere il nostro viaggio verso L’Orinoco. Il ricordo di questa partenza è oggi per noi più doloroso di quanto non fosse qualche anno fa. I nostri amici sono morti nel corso delle sanguinose rivoluzioni che, una dopo l’altra, hanno dato o tolto la libertà a quelle lontane regioni. La casa in cui abitavamo non è ormai che un ammasso di macerie. Spaventosi terremoti hanno modificato la superfice del suolo. La città che ho descritto è scomparsa. Su questi medesimi luoghi, su questa terra screpolata, s’innalza lentamente un’altra città. I mucchi di rovine, tombe di tanta gente, sono divenuti nuovamente dimora degli uomini».

 All’ingresso dell’Università di Berlino – fondata dal fratello Whilelm, e dove hanno studiato Fichte, Hegel e Marx – c’è la statua in marmo di Paul Otto che rappresenta Alexander von Humboldt, seduto su un globo.

Sembra comodo ma pronto ad alzarsi, e lo sguardo punta a quegli anfratti di mondo che avrebbe voluto visitare per primo, per raccontarli, per allontanarsi da tutto ciò che conosceva; come quando presso la foce del Rio Meta assaggiò la carne di un lamantino «lungo più di nove piedi. Era una femmina e la sua carne assomigliava a quella del bue».

Se nel 1799 si viaggiava per scopi commerciali, per colonizzare, portare salvezza divina in cambio di schiavi, terre e minerali, il trentenne prussiano è solamente attratto dal sapere, un sapere intriso di curiosità personale, quasi una maniacale necessità di accumulazione di informazioni indirizzate alla comprensione del tutto.

Quando parte dalla Spagna attraverso il Pacifico, con l’amico naturalista Aimé Bompland, ha nei bagagli ogni sorta di strumento di misurazione possibile: termometri, igrometri, barometri, cronometri, inclinometri, cianometri,  sestanti, quadranti, teodoliti e telescopi. In cinque anni di viaggio, fino al 1804, analizza e trascrive tutto ciò che c’è di osservabile, di paragonabile, di catalogabile; dalle temperature ai comportamenti umani, dalle piogge all’alimentazione, dai colori alle screpolature della terra. «Sulla costa della Guinea, i negri mangiano con gusto una terra gialla che essi chiamano caouac. Gli schiavi che vengono portati in America cercano di procurarsi il medesimo piacere, ma ciò avviene sempre a detrimento della loro salute».

In questo Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente (Quodlibet/Humboldt, a cura di Franco Farinelli, con illustrazioni di S. Arienti e traduzione di G. Lucchesini), narrativo e scientifico, si vive attraverso gli occhi pieni di entusiasmo di Humboldt, giovane e sognante, (prima che diventasse amico di Napoleone, prima che Schrader gli facesse un ritratto).

Aveva studiato tutto – senza mai finire niente – solo per poter viaggiare. (Tutto: finanza, scienze mercantili, scienze storiche, medicina, fisica e matematica all’università di Francoforte sull’Oder, chimica a Gottinga, poi geologia a Freiberg, lingue ed economia ad Amburgo, anatomia, astronomia e l’uso di strumenti scientifici a Jena). Più tardi la sua grande missione autoimposta diventò «racchiudere in un’opera tutto il mondo materiale, tutto ciò che oggi sappiamo delle apparizioni della volta celeste e della vita sulla Terra».

«Vicino alla montagna di Sacuima avevamo incontrato un colono francese che viveva con le sue greggi nel più perfetto isolamento. Questi era un uomo semplice, e credeva che le rivoluzioni politiche del Vecchio Mondo, come pure le guerre che ne erano seguite, dipendessero soltanto dalla “lunga resistenza dei monaci dell’Osservanza”. Appena entrati negli Llanos di Nuova Barcellona, passammo di nuovo la notte con un francese che ci accolse con la più amabile ospitalità. Era nativo di Lione, aveva lasciato molto giovane il suo paese, e sembrava non curarsi affatto di quanto succedeva al di là dell’Atlantico, o, come si dice qui per alludere sdegnosamente all’Europa, “dall’altra parte del grande mare”».

Il giovane esploratore racconta a sé stesso cos’è il Mondo, il vecchio mondo e l’altro mondo, e tra una pausa e l’altra fissa meridiani e paralleli e torna nella Francia della rivoluzione con le descrizioni di più di seimila piante ancora sconosciute.

«Fin dalla mia prima giovinezza ho provato un ardente desiderio di viaggiare in terre lontane e inesplorate. È un sogno questo che caratterizza quell’età in cui la vita ci appare come un orizzonte sconfinato, quando nulla ha per noi maggiore attrattiva dei forti turbamenti dell’anima e dell’immagine di pericoli concreti».

 

La via della strada

 L’ultima scuola che lo cacciò, la King’s School di Canterbury, aggiunse tra i motivi che il ragazzino difficile era: «una miscela pericolosa di sofisticatezza e avventatezza». Nel 1933, dopo aver abbandonato l’idea della carriera militare, Patrick Leigh Fermor decise a 18 anni di iniziare un viaggio: partire da Rotterdam e arrivare a piedi fino a Costantinopoli, «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante».

Nello zaino aveva qualche camicia, delle lettere di raccomandazione, l’Oxford book of English Verse e un volume delle Odi di Orazio.

«In una di queste insenature, vicino al punto in cui iniziava la sabbia, un uomo stava seduto sulla soglia di una sbilenca capanna di legno; accanto c’era una piccola barca tirata in secco sotto i cespugli. Il suo volto piatto, con gli zigomi alti, aveva un reticolo di curve benevole, simili allo scheletro di una foglia. Fumammo insieme una sigaretta e parlammo del freddo e della luminosità della giornata, elargendoci larghi sorrisi tra le nostre frasi smozzicate. Era un vecchio pescatore tataro che viveva in solitudine, e fu l’unico essere umano che vidi nell’arco di tutto il giorno».

Ne La strada interrotta, appena uscito, postumo, per Adelphi (e tradotto da Jacopo M. Colucci), seguiamo il percorso giornaliero del giovane inglese nei Balcani, attraverso i boschi, le montagne, le case, i fossi dove si addormenta stremato sotto le stelle.

Non sono diari – il suo primo diario di quel viaggio gli fu rubato in un ostello della gioventù di Monaco -, ma i ricordi freschi che l’autore ha rimesso insieme negli anni ’70 e di cui era riuscito in vita a pubblicare solo la tratta Hoek Van Holland-Medio Danubio (Tempo di regali, Adelphi 2009) e dal Medio Danubio alle Porte di Ferro (Fra i boschi e l’albero, Adelphi, 2013) e che qui sono stati sistemati dai suoi amici.

Lasciatosi alle spalle la carissima Vienna, dove per sopravvivere faceva ritratti a richiesta sulle barche, la sterlina che riceve ogni settimana dai genitori gli permette di comprare tutte le sigarette locali di cui ha bisogno, e le cene con gli aristocratici rumeni antisemiti gli ricordano la Recherche. Vaga cercando ospitalità, con l’unica certezza che un giorno vedrà Costantinopoli.

«Mi consegnò un pacco con pane, halva, formaggio, uova sode, mele, un fiasco rotondo pieno di slivo e, a mo’ di regalo d’addio, sei pacchetti di sigarette inglesi che doveva aver comprato in segreto […]. La testa barbuta di marinaio disegnata sul pacchetto era sommersa da strisce su strisce di marche da bollo per l’importazione; Nadežda non poteva permettersi quelle sigarette. […] Ci separammo solamente dopo una lunga serie di abbracci … Solo a malincuore e con lentezza voltammo alla fine le spalle per proseguire nelle nostre opposte direzioni, provando un’improvvisa sensazione di abbandono e girandoci indietro a salutare: speravamo che, perlomeno a distanza, quel gesticolare con le braccia apparisse più allegro di quanto in realtà era.

Questo genere di addii fu l’unico aspetto triste del viaggio. L’intero percorso fu una serie di piccoli commiati più o meno dolorosi; l’indifferenza era rara, e il sollievo un’eccezione. C’era un qualcosa di intrinsecamente malinconico, un intenso presentimento della fugacità del tutto, inaspettato come un colpetto d’avvertimento sulla spalla, nel salutare persone che con te si erano dimostrate gentili … sapendo che, con ogni probabilità, non ci si sarebbe mai più rivisti».

Patrick Leigh Fermor arriverà a Costantinopoli il primo gennaio del 1935. Ma ci resterà solo pochi giorni per poi partire verso il suo grande amore: la Grecia. Lì parteciperà alla resistenza cretese e sposerà un’aristocratica fanariota. Diventerà un grande scrittore di viaggi.

La via delle mappe

«Se il nostro mondo non fosse già del tutto scoperto forse mi sarei imbarcata su una nave con la speranza di essere la prima ad avvistare una terra sconosciuta o addirittura a metterci piede, per scrivere il mio nome nei futuri atlanti solo in virtù di questo semplice fatto» dice Judith Shalansky nell’introduzione al bellissimo Atlante tascabile delle isole remote (Bompiani, a must-have).

L’amore per le mappe ha portato l’autrice a disegnare cinquanta isole remote e raccontarcene la storia – cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò (tradotto da Francesca Gabelli). Non so quanto le informazioni siano vere o meno, quanto sia inventato, ma è meglio non saperlo che ci si diverte di più. «Le rivoluzioni sono proclamate sulle navi, le utopie sulle isole».

Trinidade, Oceano Pacifico, 10km2,32 abitatori, scoperta il 18 maggio del 1502 da Vasco de Gama. «Questo fazzoletto di terra è un disastro topografico. L’isola è gettata nell’oceano con il più grande arbitrio, è scavata in profondità, scoscesa e ostile. Succede di continuo che una persona sparisca durante una passeggiata senza lasciare tracce. […]Nel cimitero le tombe senza croce ricordano gli scomparsi. Questo posto non è fatto per gli esseri umani. // La mattina del 6 gennaio 1958, poco prima che la nave per le ricerche oceanografiche Almirante Saldanha levi l’ancora, Almiro Baruana, uno dei civili a bordo, decide di scattare ancora alcune foto della costa meridionale di Trinidade. Quindici minuti dopo le dodici, appare in cielo un oggetto chiaro e luminoso che si avvicina all’isola e si dirige verso Punta Crista de Galo con un volo ondulato, simile a quello di un pipistrello. // Il disco volante luccica come se fosse di metallo ed è avvolto in una foschia verdognola e fosforescente. In preda all’agitazione, gli ufficiali e i marinai sul ponte indicano il punto abbagliante. Passano trenta secondi prima che Barauna prenda finalmente la macchina fotografia, guardi dentro al mirino e scatti, poi l’oggetto scompare […] Le fotografie di Barauna sono sovraesposte. Quattro delle sei immagini ritraggono l’oggetto sconosciuto in diverse posizioni di volo. Con l’anello al centro sembra Saturno schiacciato. Due foto malriuscite a causa della mischia a bordo, mostrano soltanto il parapetto di sbieco, l’acqua e la roccia scura della costa che, con i suoi picchi immobili, si erge scoscesa sul mare, estranea e sinistra come se appartenesse a un altro mondo»

Poi c’è l’isola di Pingelap dove «persino i maiali sono bianchi e neri» perché gli abitanti di quell’isola sono quasi tutti daltonici, c’è Maquerie dove nel 1840 l’allievo ufficiale della Peacock, Henry Eld, era sceso a terra per venir divorato dai pinguini. E poi c’è Amsterdam, nell’Oceano Indiano, che Alfred Van Cleef decide di visitare solo perché porta il nome della sua città natale,  «posto che sentiva essere adatto a lui» – dove non ci sono donne e gli uomini la notte «si ritrovano a guardare un film della raccolta di porno che gestiscono loro stessi. Ognuno ne possiede una serie tutta sua». C’è Takuu, dove «i giovani non pensano a niente, né al futuro, né al passato. Bevono tutto il giorno il succo dei cocchi fermentato alla luce calda del sole. Le corone degli alberi sono cariche di bottiglie di plastica che penzolano».

Ogni pagina è un viaggio, ogni isola potrebbe essere un romanzo.

 

L’arrivo

L’arrivo è Berlino, perché Parigi è troppo cara. Una Berlino dove «Tutti hanno un progetto. Sopportano un lavoro part time per portare avanti i loro sogni».

Alberto Madrigal lo aveva già raccontato in Un lavoro vero (Bao publishing), il suo esordio da fumettista: «Ho trovato un lavoro vero. Senza cercarlo. Otto ore al giorno, dal lunedì al venerdì, in una ditta che fa videogiochi per Facebook. Mi pagano molto bene. C’è la crisi, la gente perde il lavoro e io lo trovo. Senza cercarlo. […] Potrò comprare da mangiare senza prima fare uno studio di mercato. Giovanni Rana sarà contento.».

Questi trentenni amano i concerti negli scantinati dei locali, vanno  in bici e hanno lo spirito dei pionieri davanti ai primi bisonti nella prateria; «Guarda Javi. La prendiamo?» e indica una Billy Ikea bianca appoggia al cassonetto della spazzatura. «Sì, è perfetta!». E l’amico appena arrivato a Berlino: «Ma che cazzo fai? La prendi?» «Qui è normale» «Siete proprio zingari».

«Il punto è che tu esci di casa la mattina, e tutto quel che ti serve lo trovi nella città. La tua casa è la città». In due secoli i continenti sono diventati i quartieri.

In Va tutto bene (Bao) i protagonisti stanno mettendo radici a Berlino, hanno viaggiato per necessità, per arrivare dove l’origine non ha importanza, l’unica cosa che conta è avere o troppo o troppo poco tempo libero a disposizione.

Ma le velleità non aiutano a mangiare.

Su chi tra i venti e i trenta ha riempito valigie e Postepay per trovare e perdere un ufficio, per chi si lamenta di non poter più sognare, per chi “non avremo mai le certezze dei nostri genitori”, c’è chi come Sara investe tutto con l’idea che ormai «Non si vendono oggetti. Si vendono esperienze. Non può non funzionare». E’ tutto così mumblecore, così onesto.

E – SPOILER – la morale, e forse il mantra con cui viaggiare, rimane questo: «A volte siamo così occupati a scansare la merda da non renderci conto che la vita è piena di opportunità».

 

 

 

«c’est naître et mourir à chaque instant». V.H.

 

 

Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.