L’impressionismo sentimentale di Irène Némirovsky

da | Ott 30, 2017 | Non Fiction

Quando nel 2004 sua figlia fece emergere e pubblicare in Francia il romanzo, pure se incompiuto, rimasto in una valigetta per oltre sessant’anni, Suite francese, tutti si resero conto che per troppo tempo ci si era dimenticati di Irène Némirovsky. Ma la Suite, tragica e abbagliante vicenda autobiografica e insieme affresco di un’epoca raccontati in presa diretta, durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e appena prima che Irène venisse arrestata e deportata ad Auschwitz e lì morire, è solo l’ultimo bagliore, e neppure, a ben vedere, il più rappresentativo, di un talento letterario incredibilmente prolifico, vista la brevità della sua vita: sedici romanzi, una biografia dedicata a uno dei suoi modelli letterari, Anton Čechov, circa cinquanta racconti e alcune sceneggiature.

Se dovessimo stabilire le due principali linee tematiche della sua opera, diremmo che la prima è “paterna” e la seconda “materna”. Ma dovremmo subito aggiungere cosa questo significhi, o quanto meno provare a stabilirne i termini. La linea paterna, a cui fanno riferimento romanzi come David Golder, I cani e i lupi, Una pedina sulla scacchiera, è quella del denaro, degli affari, del vizio, del gioco d’azzardo ma anche (e forse soprattutto) della religione o, meglio, del carattere di chi, a quella religione, l’ebraica, appartiene.

La linea materna è invece quella che riguarda il desiderio, la passione, l’infanzia, con i suoi correlati di odio, egoismo, disprezzo, rancore, dolore, infelicità, vendetta e che possiamo veder messi in scena in romanzi come La nemica, Il ballo, Il vino della solitudine, Jézabel.

Questa distinzione tematica, che ammetto essere di una certa schematicità (pure se la schematicità dei «tipi» è caratteristica fondante dell’opera di Némirovsky, e anche del suo successo di pubblico), non è separata nettamente nei singoli libri. La linea paterna e quella materna, quando in un romanzo si predilige l’una piuttosto che l’altra, si contaminano vicendevolmente. Meglio, l’una non può proprio sussistere senza l’altra. Il mondo degli affari è impensabile senza un contesto famigliare che da quegli affari ne ricavano tutti i benefici, ma che sono al contempo causa di infelicità. Così come la psicologia materna – più specificamente il rapporto madre-crudele/figlia succube e poi vendicativa – non avrebbe un sostegno strutturale senza la debolezza della figura paterna, incapace di vedere (o scegliendo di non vedere) come la moglie trama alle sue spalle.

Sembrerebbe un’esagerazione, eppure è così: il contenuto della gran parte dei romanzi della Némirovsky appartiene a un immaginario infantile e adolescenziale, cioè famigliare. La famiglia è il teatro in cui ogni sentimento umano emerge – è il concentrato (il microcosmo) di tutto il male e tutto il bene del mondo. Come se la Némirovsky avesse raccolto dall’infanzia fino ai suoi sedici/diciassette anni, l’immaginario che utilizzerà per tutti i suoi libri. Un immaginario che riguarda insomma il periodo prima dell’espatrio, quando dalla Russia (lei nata a Kiev nel 1903), dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, con la sua famiglia furono costretti a fuggire per salvare gli affari del padre, ma anche perché il loro stato sociale alto borghese, oltreché di religione ebraica, era quello maggiormente preso di mira dai bolscevichi. I Némirovsky emigrarono in Finlandia prima (e di questa permanenza resterà traccia in un racconto del 1934, I fumi del vino, un racconto molto descrittivo sulla rivoluzione, in cui si percepisce lo sfinimento di una vita monotona, assoggettata alle leggi di un clima infausto, glaciale, poi nel racconto che apre questo libro, del 1938, Magia, e anche in uno del 1940, Aino), poi in Svezia e infine in Francia, la nazione più bella del mondo, dirà sempre Irène, che il Paese di Balzac e Proust conosceva fin da bambina, visitandolo una volta l’anno. Ma la Francia fu per lei l’inizio della libertà, un’esplosione vitale, la scoperta delle proprie risorse (femminili – nel senso di seduttive – e intellettuali – gli studi alla Sorbona che indirizzeranno il suo talento di narratrice), ma anche un addio definitivo a quel mondo claustrofobico in cui aveva vissuto fino a quel momento. «Quando penso alla mia infanzia in Russia» dirà in un’intervista «al tramonto del regime zarista, vedo un susseguirsi di lezioni e professori. Mai tempo per fantasticare o rilassarsi. Niente distrazioni frivole. La domenica un’ora di pattinaggio, ecco tutto. Credo che il fondo di pessimismo che vi ha colpito nei miei libri provenga da quell’infanzia piuttosto triste». La Francia però, fu per lei prima di tutto il Paese della scrittura.

Ma chi erano, e cosa hanno rappresentato per la futura scrittrice, i genitori di Irène?

Nel David Golder (1929), il primo romanzo che firmò col suo nome (l’anno precedente, sotto il nome di Pierre Nérey – che era un anagramma – aveva pubblicato La nemica, così come sotto pseudonimo firmerà anche Il ballo, insomma, i due libri che suggellavano la sua vendetta ai danni della madre), la moglie di David, l’uomo d’affari che mantiene tutta la famiglia (compreso l’amante e i genitori della coniuge), dice al marito: «Ma, caro mio, gli uomini come te e Marcus non è certo per le mogli che lavorano, andiamo! Lo fanno per se stessi… Ma sì, ma sì, in fondo gli affari sono una sorta di vizio, come la morfina. Se tu non avessi i tuoi affari saresti il più infelice degli uomini, tesoro mio…». Solo Balzac, prima di Némirovsky, era stato tanto ossessionato dal denaro. Ma le ragioni di questa ossessione erano a ben vedere opposte. Balzac, da parte sua, era bramoso di ottenere il successo e la notorietà, se non con la scrittura, almeno nell’alta società. Cinico e volgare fino all’insopportabile, fu forse lo scrittore più controverso della prima metà del secolo XIX. Ma questo suo carattere ripugnante non è dissimile da quello degli infiniti personaggi che compongono la monumentale opera di una vita, la Commedia umana. «Non c’era distinzione tra la vita reale e la vita dei suoi romanzi», scrisse di lui Proust, che un altro teatro umano (la mondanità) ritrarrà oltre mezzo secolo dopo. Come si capirà nel suo romanzo Luis Lambert, l’ossessione di Balzac nascondeva un trauma personale, il fatto di non veder riconosciuto il suo talento letterario neppure da sua madre. Come Luis, Honorè, che aveva origini umili, sentiva che la sua genialità, a contatto con la società (quella francese post-rivoluzionaria), veniva svilita, che a causa di quel contatto sarebbe potuto anche morire. A Irène Némirovsky, al contrario, non mancava nulla. Era ricca, la sua famiglia poteva permettersi una tata-istitutrice che si occupasse di lei a tempo pieno (Zézelle, che le farà da madre, accompagnando la sua solitudine infantile e le trasmetterà, oltre alla lingua, l’amore per la Francia e la quale poi farà una tragica fine, dopo essere stata licenziata – così come Irène racconterà ne Il vino della solitudine attraverso il personaggio di Mademoiselle Rose, fedelissimo a Zézelle, in quelle pagine commoventi del suo suicidio), e permettersi pure vacanze in Francia, nei luoghi più costosi e alla moda (la povertà l’avevano conosciuta i suoi genitori prima del successo sociale, ma non lei, che di ristrettezze visse molto dopo, poco prima della guerra, quando gli ebrei emigrati a Parigi ebbero non poche difficoltà a lavorare). Raccontare il potere esercitato dal denaro non nasconde un’ansia di riscatto sociale come per Balzac. Se le interessa il denaro, dipende dal fatto che è la cosa che conosce meglio. Per essere più precisi si potrebbe dire che ciò che meglio conosce sono le conseguenze morali di chi vive per il denaro. Grasset, l’editore di David Golder (lo stesso editore che prima della «Nouvelle Revue française», di Gallimard insomma, si accorse di Proust stampando il primo dei sette libri della Recherche), un «genio della pubblicità», dirà Irène, aveva lanciato il romanzo paragonandolo proprio a quelli di Balzac. Ma se il paragone fu proficuo in termini di vendite (il successo e le discussioni intorno al libro – che fu tradotto in decine di lingue – si protrarranno per anni, anche perché fu trasposto al cinema e a teatro) non era propriamente esatto in termini letterari. Il modello a cui Irène si rifaceva era invece La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj (autore che preferirà sempre a Dostoevskij). Quello che insomma voleva raccontare era una vicenda universale, quindi di carattere morale: un uomo alla fine della propria vita, utilizzando però il suo immaginario, la sua vicenda personale. Se Golder, lo spietato uomo d’affari col vizio del gioco, somiglia a suo padre, e la fredda e anaffettiva moglie ricorda sua madre, Joy, la ragazza insopportabilmente viziata, che preferisce andare a ballare pure quando il padre, David, sta per morire, e che non fa altro che chiedere soldi, non è che il brutale ritratto che Irène fa di se stessa: della ragazza disinibita appena atterrata in Francia e di cui troveremo traccia anche nei primi quattro racconti di Némirovsky del 1921, in quel personaggio seriale a cui aveva dato il nome di Nonoche e che già nei titoli dei singoli scritti mostra un carattere giocoso, disimpegnato (Nonoche dalla chiaroveggente; Nonoche a Louvre; Nonoche in vacanza; Nonoche al cinema). È insomma la feroce rappresentazione di una famiglia ebrea borghese nella quale a salvarsi, alla fine di tutto, è solo David Golder (dimostrando quanto la Némirovsky avesse mantenuto per suo padre, a differenza che per sua madre, un profondo rispetto). Ma come lo salva Irène? Dimostrando che Golder, in realtà, pur non occupandosi di altro, dal denaro non è affatto ossessionato. La sua ricchezza è totalmente donata agli altri: a sua moglie – e ai suoi amanti –, ma soprattutto a sua figlia. E pure quando la moglie gli rivelerà che Joy non è la sua vera figlia ma che il padre è in realtà Hoyos, il suo amante, Golder, pure sconvolto, in punto di morte lascerà tutti i suoi averi alla giovane ingrata. Ma quel gesto di umanità nasconde un sentimento più sottile. Se Golder avesse rinunciato a quel dono nei confronti di Joy, avrebbe perso l’unico scopo della sua vita, lasciando che il suo castello di illusioni e di volontarie cecità (fingere di non sapere tutte le avventure di sua moglie), crolli inesorabilmente.

 

Bisogna però essere onesti. I libri di Némirovsky – compreso Suite francese – sono imparagonabili ad alcuni capolavori di suoi contemporanei. Se pensiamo che nello stesso ventennio (tra l’inizio degli anni Venti e la fine degli anni Trenta) venivano pubblicati, tanto per fare degli esempi molto rappresentativi, Alla ricerca del tempo perduto di Proust, l’Ulisse di Joyce e La montagna magica di Thomas Mann, mentre cominciavano a comparire postumi i romanzi di Kafka e venivano stampati Viaggio al termine della notte e Morte a credito di Céline, che Musil scriveva L’uomo senza qualità, non possiamo non ammettere che Némirovsky è certamente una minore del suo tempo, e non bisogna farsi abbagliare neppure dal suo successo postumo. Sulla sua opera potremmo dire quello che laconicamente affermò Henry James a proposito di Dickens, ovvero che egli fu «il più grande tra gli scrittori superficiali». Come motivare tale affermazione? Anche David Golder, che aspirava ad essere un nuovo Ivan Il’ič, non arriva mai a possedere la complessità di una persona. Voglio dire che la visione che ne abbiamo resta bidimensionale, caricaturale. Némirovsky vuole ritrarre un borghese ebreo affarista e attribuisce al suo personaggio dei tratti che lo rendono, per chi legge, immediatamente tipico, riconoscibile. Quella riconoscibilità (cinismo e spregiudicatezza dal punto di vista morale – naso aquilino e barba incolta dal punto di vista fisico) creava immediatamente una connotazione che faceva appello a un immaginario comune e stereotipato che proprio in quegli anni, in Russia come in Francia, era il ritratto, certo sprezzante, che molti avevano in mente del borghese ebreo. Ma non si tratta solamente di questo. Se abbiamo detto che l’immaginario della propria infanzia e adolescenza è quello che ha dato vita a tutto l’“argomento” della sua opera, la conseguenza ne è stata un infantilismo anche dal punto di vista percettivo – un infantilismo di cui del resto ella stessa era cosciente, se con una spietata lucidità scriveva nel Vino della solitudine che «non essere stata bambina quando era il momento di esserlo forse fa sì che non si possa mai maturare come gli altri; si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro, come un frutto troppo presto esposto al freddo e al vento…». Insomma, il trauma, la ferita di Némirosky – quella competizione con sua madre che non riuscirà mai a superare, una madre che non lesinava insulti a Iréne, chiamandola «idiota», «cretina», come ci viene spesso rivelato ne Il vino della solitudine, ne Il ballo e ne La nemica, una madre che alla sostanza vede nella figlia la sua decadenza, il suo inevitabile invecchiamento e che la farà reagire con un’ostinazione disperata a voler restare giovane, seduttiva, anche pagando degli amanti – non producono in lei un pensiero che sia anche in grado di liberarsi di quella ferita. Piuttosto, il dolore resterà, per tutta la vita, uno stato emotivo (la rabbia, il rancore, il desiderio di vendetta). Un’emotività che, anche stilisticamente, se aiuta la scrittrice a trovare a suo modo una liberazione (o un’elaborazione) proprio grazie all’espressione, di contro non supera mai lo scoglio di un impressionismo.

 

Robert Brasillach, allora giovane critico che pagherà con la condanna a morte il suo collaborazionismo col Terzo Reich (una collaborazione intellettuale, non già militare, per questo sulla sua causa resta qualcosa di irrisolto, di poco chiaro), il 30 maggio del 1934, sull’«Action française», nonostante in passato avesse scritto con toni anche entusiastici dei libri di Némirovsky, non le perdona il romanzo Una pedina sulla scacchiera: «Il personaggio non è convincente. La tensione che sarebbe dovuta nascere si muta in grigiore. Avevamo già rivelato lo stesso pericolo nell’Affaire Courilof: forse l’autrice di David Goldere non dovrebbe scrivere romanzi. Stiracchia il soggetto di un racconto, un misero aneddoto, e tutto si spezza. La disperazione vera sembra diventare disperazione letteraria. L’abilità della scrittrice non basta da sola a mascherare il vuoto del soggetto del libro. E viene a mancare qualsiasi evocazione. […] Chiediamo alla signora Némirovsky, la cui amarezza non ci piace, altre Mouches d’automne, altre colazioni fra amici ritrovati – altri racconti».

Prendendo per buono il ragionamento di Brasillach, e io credo che sia buono, cioè che la sua critica sia fondata, potremmo aggiungere che nei romanzi della Némirovsky, a leggerli uno di seguito all’altro, percepiamo una monotonia immaginifica che stanca, che sentiamo non scalfirci mai. Al contrario, nei racconti sembra più libera, la sua scrittura pare più tesa, meno «stiracchiata», e i temi si moltiplicano. Quel suo impressionismo sentimentale e quella sua superficialità da caratterista, nelle novelle assumono un aspetto inverso; come se un difetto divenisse in questo caso un pregio; quasi che quell’impressione di realtà, concentrandosi su un episodio, su un lampo di vita, su uno scorcio, acquistasse un’ambiguità che riesce a giovarle. Ma questo giovamento dipende pure da qualcos’altro. Nei racconti Némirovsky pare riuscire meglio a liberarsi di sé, del suo immaginario infantile, aprirsi maggiormente al mondo. È vero, lo sappiamo, molti dei suoi racconti le saranno anche utili come tracce, spunti, abbozzi per un successivo romanzo, o sono costole o strascichi di romanzi che sta scrivendo. Eppure, anche quando non si allontana dai suoi temi, nella forma breve si dissolve quell’acredine – la sua ossessione di rivolta nei confronti della famiglia, in specie di sua madre – dalla quale nei romanzi non riuscirà mai a svincolarsi. Se leggiamo i quattro racconti che scrisse nel 1934 – che fu un anno prolifico e proficuo, se si pensa che nel 1935 vede la luce anche il suo libro più apertamente autobiografico, Il vino della solitudine, un romanzo di cui lei stessa scriverà essere di «Irène Némirovsky per Irène Némirovsky», come a voler sottolineare anche l’aspetto profondamente terapeutico della scrittura del libro –, e parlo di I fumi del vino, Film parlato, Ida e La commedia borghese, ci rendiamo conto che i suoi temi sono qui affrontati fuori da ogni rancore. Piuttosto entra in campo una pietà che non le riconoscevamo altrove. Il personaggio di Ida, ad esempio, è sicuramente ispirato dalla figura di sua madre. Una donna di una certa età, che non accetta di invecchiare; anzi, che proprio durante la sua decadenza fisica, una decadenza che tenta di risolvere rifacendosi il seno più volte, vive il suo momento di massimo successo. Ida è quella che oggi chiameremmo una soubrette, o un’attrice d’avanspettacolo: il pubblico l’acclama e la invoca. Lei paga i suoi amanti, dei giovinetti coi quali si illude di aver mantenuto la freschezza di una ragazza. Le giovani attrici la odiano, la invidiano, ma non hanno il suo talento, il suo genio. La sola che può competere con Ida è Cynthya, la quale una sera, l’ultima, si esibirà prima di lei riscuotendo un tripudio di applausi: è bella, talentuosa e soprattutto giovane. Cynthya esce dal palcoscenico in un grande sorriso. Ida la guarda ed è già morta. È finita. Mai come in questo caso Némirovsky ha saputo raccontare il senso di impotenza che una donna sente dinnanzi alla decadenza del corpo, nell’attimo esatto in cui capisce che nessuna forza di spirito o intervento chirurgico sono capaci di risvegliare negli altri il desiderio. Il momento in cui Ida scende i primi gradini del palcoscenico, non riuscendo neppure a entrare totalmente sulla scena – mentre una goccia di sangue esce dalla bocca disegnandole una riga sul mento come fosse una scolatura del trucco, una decadenza impensabile, un’oscenità –, è di una drammaticità lirica di grande tensione emotiva. In Ida non c’è, come accadrà nel Vino della solitudine, il sentimento di riscatto della più giovane nei confronti della più vecchia. Non c’è la vendetta di una figlia, la quale, raggiunta l’età sufficiente che le consente di essere desiderata, trama affinché l’amante di sua madre si innamori di lei. Non è insomma la vendetta la necessità del racconto, ma proprio la commozione, il senso di pietà. Come se la Némirovsky, per avvicinarsi a sua madre, per comprenderla, abbia dovuto inventare un personaggio che le somigliasse ma che non fosse lei. Come se la verosimiglianza avesse posto quella distanza necessaria dalla propria ferita, dall’odio che nei confronti di sua madre sentiva, indispensabile affinché un pregiudizio potesse non pregiudicare il desiderio di conoscenza e comprensione.

 

Nel 1938, dopo la morte di suo padre, Némirovsky si trovava in una precaria condizione economica. Suo marito, che lavorava come impiegato in una banca, si era pesantemente indebitato, e con i ricavi delle vendite dei libri di Irène, la famiglia non riusciva a sostenere la stessa qualità di vita che fino a quel momento ancora mantenevano (la madre della scrittrice aveva mantenuto praticamente tutta l’eredità del marito, lasciando poco e niente a sua figlia, con la quale aveva ormai definitivamente rotto ogni rapporto). C’è, nella Némirovsky, un atteggiamento insopportabilmente borghese, quello di chi non è disposto a rinunciare a nulla di ciò che ha acquisito o anche solo ereditato, tanto da farle affermare in un quaderno di quell’anno che scrivere non valeva la pena senza un riscontro economico, e che del successo puramente letterario non sapeva cosa farsene. Questa condizione di stenti, di miseria, e soprattutto l’avvilimento per aver perduto il benessere, la stabilità, è il contenuto del racconto Speranze, proprio del 1938. Una coppia di coniugi russi emigrati in Francia, Vasilij e Sonia, vivono di lavori mal pagati. Nonostante avessero vissuto, tempo prima, una floridità economica, ora sopravvivono con pochi spicci. Sonia, che lavora da modista, per ottenere commissioni è anche disposta a farsi sedurre da altri uomini. Vasilij, sapendola al cinema con un altro, si dispera, esce di casa, passeggia per le strade di Parigi e pensa al mondo, allo stato sociale che ha perduto, e lo invade un sentimento di invidia per chi, come i borghesi di Francia, non sono mai stati costretti, come lui e sua moglie, a emigrare, a umiliare la propria nobile condizione. Quando si affaccia alle porte la possibilità di una rivalsa, un vecchio zio rimasto solo dal quale si augurano possano ricevere, dopo la sua morte, un’eredità che finalmente li riabiliti, anche l’ultima delle speranze muore, dopo che il vecchio parente, in una lettera a Vasilij, domanda un prestito di 10000 franchi. Siamo di nuovo al denaro e alle conseguenze morali che questo fa ricadere sull’essere umano. Soltanto che qui la situazione è invertita. Il denaro non c’è – come c’era in David Golder o in Una pedina sulla scacchiera –, ma lo si brama, se ne ha bisogno. Ma se ne ha bisogno perché un tempo lo si è posseduto. Cosa diventano Vasilij e Sonia quando paventano la possibilità di riottenerlo se non moralmente indecenti, augurandosi la morte del parente pur di tornare a vivere dignitosamente con la presunta eredità che quello potrebbe lasciare loro? Irène scopre che quel “tipo” di essere umano che ben conosce e che, neppure troppo sottilmente, disprezza – l’ebreo borghese – le somiglia.

All’incombenza delle difficoltà economiche, si aggiungerà presto la paura per la situazione che si sta profilando nella storia del mondo. La Seconda Guerra si avvicina e si preannuncia più terribile della Prima. Iréne, conoscendo i rischi in cui incorrono lei e la sua famiglia, decide di battezzare le sue figlie e di convertirsi (senza alcuna convinzione religiosa) ella stessa alla religione cristiana. La Francia non era mai stata tenera con gli ebrei, e ora che la Germania solidificava la sua forza, che Hitler proclamava le sue folli idee sulla razza, l’antisemitismo, anche in chi era più prudente, veniva senza più remore manifestato pubblicamente. Iréne, trovandosi a riflettere sul modo in cui aveva ritratto gli ebrei nei suoi libri, se ne sente non tanto pentita, ma afferma che oggi certamente non sarebbe stata tanto dura come allora.

Nei suoi ultimi cinque anni di vita, dal ’38 al ’42, sembra vivere un’ambivalenza esistenziale che si specchierà anche sulla sua scrittura. Da una parte, riflettendo sulla complicata situazione storica, vorrebbe scrivere il Guerra e pace del nuovo secolo, insomma, il suo capolavoro; dall’altra le difficoltà economiche la spingono a chiedere con insistenza ai periodici di poter pubblicare i suoi racconti. Sembra una cattiveria anche solo pensarlo, eppure sono convinto che la condizione di necessità abbia concesso uno scarto alla scrittura di Némirovsky, specie alla scrittura delle novelle, ovvero proprio lì dove avremmo potuto sentire una frettolosità, visto che la maggior parte le scriveva per denaro. Se leggiamo l’ultimo romanzo che pubblicò in vita, I beni di questo mondo (comparso a puntate nel 1941 sotto pseudonimo per aggirare le leggi razziali), ci salta all’occhio una stonatura non di poco conto. Il libro attraversa un arco temporale che va dal 1910 al 1940 seguendo le vicende di tre generazioni attraverso la storia di una famiglia (e ci sembra di notare quanto Némirovsky si sia ispirata a quel meraviglioso romanzo, di matrice autobiografica, che Drieu La Rochelle pubblicò qualche anno prima, nel 1937, Piccoli borghesi, anche lui seguendo la storia di una famiglia – e la sua decadenza –, ma dalla fine dell’Ottocento fino agli anni della Grande Guerra). Nelle intenzioni di Irené c’era la volontà di raccontare le due guerre. Ma non potendo raccontare la tragedia che stavano subendo gli ebrei per non rischiare la vita sua e dei suoi cari, ci sembra che tra la Prima e la Seconda Guerra non ci sia alcuna differenza sostanziale se non per l’età dei personaggi che avanza. Quando, introducendo Tutti i racconti 1921-1937, Roberto Deidier scrive giustamente che «sotto il velo della Storia la vita continua a battere», ci suggerisce anche che la Storia, in Némirovsky, non riesce a incardinarsi nella forma del racconto, quasi che la Storia – una Storia in presa diretta, mentre tutto stava ancora accadendo (e sarà questo l’aspetto più straordinario di Suite francese) – fosse un’incombenza, il peso, la stigmate che condiziona i rapporti umani e i sentimenti degli individui. Eppure, quando non sente l’ansia di dover dipingere l’affresco, di scrivere il capolavoro sul proprio tempo, narrando sì la guerra che sente alle porte, come nel racconto del 1939 A causa delle circostanze, la paura, l’ansia, il dramma della vita si avverte più prepotentemente ed efficacemente. Quasi che aprendo una finestra su una situazione specifica, un lampo, una luce ci raggiungessero. A causa delle circostanze sembra preannunciare quello che sarà I beni di questo modo. Una coppia di sposi che rievoca la propria vita passata, negli anni della Prima Guerra. Lei era sposata con un ragazzo – un ragazzo che conosceva fin da bambina. Ma il giovane deve partire soldato. Quando tornava in licenza dalla trincea sentiva di non possederlo più, che una distanza tra loro si era posta irrimediabilmente, nonostante avessero concepito una figlia. La guerra aveva maturato quel giovane troppo in fretta, come volesse invecchiarlo prima del tempo per giustificare, di lì a poco, la sua morte precoce in battaglia. Ora la donna ha un’altra vita, si è di nuovo sposata ed ha avuto altri figli, ma rivive quel breve periodo della sua esistenza osservando sua figlia appena sposata con un giovane che sta partendo al fronte. Il fronte è quello di una nuova guerra, la seconda. In queste poche pagine ciò che ci interessa è la tensione emotiva che Némirovsky riesce a raggiungere. È chiaro che la guerra ha la funzione di un doppio pretesto espressivo. La Seconda Guerra risveglia il ricordo della Prima, come se la madre rivedesse la sua vita in quella della figlia. Ma quello che conta è come Némirovsky ci fa percepire la gelosia del marito, una gelosia pure ingiustificata, poiché il primo uomo di sua moglie è morto, e anche il tremore emotivo della donna che sta risvegliando il proprio ricordo, e soprattutto, il suo antico amore, quello che non è riuscita a comprendere, a rendere felice, a proteggere, a salvare. L’impressionismo sentimentale di Némirovsky raggiunge qui il suo apice espressivo. Sì, «sotto il velo della Storia la vita continua a battere». E quando scrive racconti che ricordano la sua infanzia, come in Aino o in Il sortilegio (entrambi del 1939), non c’è più la ferita che aveva narrato in tutti i suoi romanzi. Anzi, il ricordo della propria infanzia sembra ora un’evasione dalla Storia, una fuga dal dolore del presente (e la stessa funzione hanno i racconti che hanno per tema vicende amorose). Quella Storia che mette in atto tutto il suo carico di sofferenza e di dolore, fa scrivere a Iréne i suoi racconti più drammatici e più belli (si legga anche Destini, del 1940 e, dello stesso anno, Il signor Rose). Ma non al racconto della Storia, o all’affresco storico siamo realmente interessati. Quanto piuttosto alla vita minuscola, misera, umanissima di questi individui che finalmente si sono liberati dalla galera di una tipizzazione – che tanto più sono lontani dalla volontà di rappresentare un carattere, di essere letteratura, tanto più ci rendiamo conto che non avremmo potuto conoscerli se non grazie alla letteratura; quasi che Iréne ci avesse svelato finalmente una profondità proprio nel momento in cui era dimentica del suo talento, della sua vocazione letteraria.

 

Andrea Caterini (Roma, 1981) è scrittore e critico letterario. Tra le sue pubblicazioni i romanzi La guardia (Italic Pequod, 2010) e Giordano (Fazi, 2014, Premio Volponi 2015) e i libri saggistici Il principe è morto cantando (Gaffi, 2011), Patna. Letture dalla nave del dubbio (Gaffi, 2013) e La preghiera della letteratura (Fazi, 2016, Premio Prata per la saggistica). Ha curato opere di autori italiani come Enzo Siciliano e Franco Cordelli e commentato Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij (Ianieri, 2015). È stato responsabile della narrativa della casa editrice Gaffi e consulente della narrativa italiana per l’editore Fazi. Attualmente dirige una collana di autori italiani, “Gli Impossibili”, per Melville edizioni e una di classici della letteratura, “Futuro Anteriore”, per le edizioni Theoria. Collabora alle pagine culturali de «Il Giornale».