L’evidenza della cosa terribile (quinta di molte parti)

da | Ago 23, 2013 | Senza categoria

In “Albertine scomparsa” Proust riesce a colpire simultaneamente il concetto d’amore e l’opera d’arte, quell’idea della posterità dell’opera che in altri punti sembra così cara a Proust, poiché: «in fin dei conti, rimpiangere che una donna che non esiste più ignori che abbiamo scoperto quel che lei faceva sei anni fa è tanto più ridicolo del desiderare che fra un secolo il pubblico parli ancora con favore di noi, che saremo morti?». Anche desiderare la gloria postuma, osserva quindi Proust, è un «errore ottico» quanto l’amare.

L’amore non esiste se non nell’autoconvincimento del desiderio («è il desiderio a generare la convinzione»), e ciò che vale per il Narratore vale anche per Swann nei confronti di Odette, e nella patetica fine di entrambi così come di tutto ciò che vive e che vivendo si illude, desidera. Nella “Recherche” da cosa non nasce mai cosa, casomai il contrario. «Insomma l’artista, il Tempo, aveva “reso” tutti quei modelli in modo tale che erano riconoscibili ma non somiglianti, non perché li avesse imbelliti, ma perché li aveva invecchiati. Questo artista, d’altronde, lavora molto lentamente. La replica del viso di Odette di cui, il giorno del mio primo incontro con Bergotte, avevo scorto la traccia appena abbozzata nel viso di Gilberte, il Tempo l’aveva sviluppata infine sino alla perfetta somiglianza, agendo come quei pittori che stanno a lungo su un’opera e la completano anno dopo anno». Il compimento dei corpi e della vita da parte di questa cosa terribile, che nel passaggio citato Proust chiama “artista” e Leopardi avrebbe chiamato più semplicemente “natura” (ma altrove, spessissimo, anche Proust), è il disfacimento, la vecchiaia, il buco nero freddo, cosmico della morte. C’è chi d’aspetto sembra cambiare poco, come quando diciamo di qualcuno che “non è invecchiato per niente”, per esempio ne “il Tempo Ritrovato”, durante questa festa dei Guermantes che è l’epicentro del terremoto finale dell’opera, incontrando Ski, la quale tuttavia, all’occhio attento e scientifico del Narratore, non esce indenne: sembrerà pure uguale ai disattenti, ma «modificandosi non più d’un fiore o d’un frutto nell’insecchire». Lo stesso dicasi per Madame de Forcheville (con l’uso di una simile analogia floreale in chiave mortuaria) che addirittura sembra «ringiovanita», ma «d’altronde, proprio perché non era cambiata, non sembrava nemmeno viva. Aveva l’aspetto di una rosa sterilizzata». Fiori rinsecchiti e rose sterilizzate. È un movimento dall’organico all’inorganico fatto di progressivi smottamenti e necrotizzazioni, che trascina dietro di sé qualsiasi cosa, animale, vegetale, animale, e soprattutto smaschera ogni estetizzazione della vita, ogni imbalsamazione. Non c’è nessun personaggio, nella “Recherche”, che mantenga la sua integrità, che non precipiti verso la disintegrazione, che non si sciolga come una statua di cera, o meglio, che non si decomponga come una persona di carne, il cui volto non si deformi come in un ritratto di Francis Bacon. Perfino la nonna, la tanto amata nonna, inscindibile dai sentimenti provati per lei, a un tratto, poco prima di morire ma ancora viva e in apparenza ancora lì presente, rivela la mostruosità dell’evidenza della cosa terribile, e compare a un tratto come «una vecchia donna prostrata che non conoscevo».

I Guermantes e la nobiltà, quindi, non funzionano solo come simbolo teatrale di un declino verso il basso («ciò che più caratterizzava questa società era, infatti, la sua naturale tendenza al declassamento») e verso il caos (il salotto dei Verdurin equivale alla fine a quello dei Guermantes, il basso prende il sopravvento sull’alto, la Verdurin prende il posto di Madame de Guermantes, i valori si contaminano, la caduta è irreversibile), ma anche come metafora naturalistica, di un declassamento più cosmico, di una disperazione biologica più profonda e irredimibile, di cui l’odierna ossessione dei lifting, dei tiraggi, delle rughe da nascondere, non sembra altro che la caricatura medicalizzata di quanto Proust aveva già scomposto chimicamente, scorgendo dietro ai volti l’evidenza della cosa terribile. Rivedendo, alla fine dell’opera, Odette, la bellissima Odette, ancora bella per la verità, si chiede «quanta parte avevano il trucco, la tintura?» e osservandola bene tuttavia la trova inquietante, la paragona a una bambola meccanica. Dopo tre anni la ritrova a casa di Gilberte ormai rimbambita, svanita, «incapace di nascondere sotto una maschera immobile quello che pensava (no, pensava è dir troppo, quello che provava), scrollare la testa, stringere le labbra, scuotere le spalle a ogni impressione cui soggiaceva, come farebbe un ubriaco, un bambino…». Non c’è molta differenza tra una vecchiaia nascosta dietro la chirurgia plastica e gli strati di trucco che rivelano l’orrore dei volti descritti dal Narratore nell’ultima festa nel salotto declassato dei Guermantes, «dimentico e fiorito come un tranquillo cimitero».

Proust tesse un ordine al solo scopo di disfarne la tela e aprire il sipario verso il disordine e l’entropia, verso l’evidenza della cosa terribile dietro il maquillage delle cose in apparenza non terribili come l’amore, la mondanità, l’aristocrazia, le relazioni umane, l’arte, l’ambizione alla felicità. La “Recherche” è compatibile non solo con Darwin e la biologia evolutiva, ma anche con la seconda legge della termodinamica, con la tendenza al caos che domina l’universo. Nel corso dell’opera, dal primo all’ultimo volume, aumenta la forza di gravità, qualsiasi levità viene tirata verso il basso, procede verso il suo interramento. Non si dà felicità che non sia destinata a rivelarsi illusoria, non si dà ordine che non sveli il caos, ma nel caos ci sarà spazio solo per la distruzione di ogni illusione. «Siamo attratti da ogni vita che rappresenti per noi qualcosa di ignoto, da un’ultima illusione da distruggere». La “Recherche”, si noti, inizia appunto nell’ordine, direi quasi nella geometria geografica più pulita: la parte di Meséglisé, la parte dei Guermantes, Combray, la certezza dei nomi, dei luoghi, dei ruoli e delle genealogie, per esplodere alla fine nella corruzione ineluttabile di qualsiasi cosa, nell’evidenza della cosa terribile. In realtà, a una seconda lettura, i segnali dell’orrore del mondo sono presenti fin dalle prime pagine, sebbene camuffati nel discorso sonno/veglia o nell’innocenza dell’affetto familiare: la confusione degli spazi e dei tempi al risveglio, e il mancato bacio della buonanotte della mamma, che se occasionale all’inizio, prelude già alla perdita futura di qualsiasi affetto a cui ciascuno è destinato.

Dell’onomastica, così carica di suggestioni al principio dell’opera, dai nomi delle cose ai nomi delle persone, resta nell’ultimo volume solo il senso di un’etichetta funebre. «Un nome, molto spesso, è tutto quanto ci rimane di un essere, e non solo quando è morto, ma mentre è ancora vivo». Oltre a essere, il nome, lo straniamento allucinato di qualcosa che non si riconosce più, gravato dalla letale trasformazione del tempo: «Sentivo pronunciare un nome e restavo stupefatto al pensiero che esso si applicasse insieme alla bionda danzatrice di valzer conosciuta un tempo e alla greve signora dai capelli bianchi che mi stava passando pesantemente accanto». Certo, fin dal principio, poiché l’opera non precede ma segue le illusioni perdute, Proust specifica che i nomi sono soltanto nomi, e funzionano in quanto oggetti seduttivi solo finché evocano immagini a distanza, mentre «se ci accostiamo alla persona reale cui corrisponde il suo nome, la fata deperisce», e pertanto «il Nome, sotto le cui successive ridipinture potremmo finire col trovare il bel ritratto originario d’una straniera mai vista prima, si riduce a una semplice carta fotografica d’identità alla quale facciamo riferimento per sapere se conosciamo, se dobbiamo o no salutare una persona di passaggio». Il rapporto tra la parola e la cosa è una lotta impari e menzognera, la parola ha il potere di creare un’illusione, la vita di disilluderla. La distanza fa sognare, la vicinanza disintegra il sogno e ne lascia il rimpianto di averlo potuto sognare, di non poterlo più fare per consapevolezza intellettuale. Lo stesso nome dei Guermantes, come ogni altro nome incantato, deve cedere di fronte agli attacchi successivi del disincanto, scomponibile in una gradazione dalla suggestione alla più banale verità in almeno «sette o otto figure diverse; le prime erano le più belle: a poco a poco, spinto dalla realtà ad abbandonare una posizione indifendibile, il mio sogno veniva via via attestandosi un po’ più in qua, finché non fosse costretto a ripiegare ulteriormente» fino all’evidenza della cosa terribile che rende impossibile l’inganno lasciando solo spazio alla catastrofe definitiva, la verità, l’oblio, la vecchiaia, la malattia, la morte.

La maggior parte delle persone finisce con l’accettare la vecchiaia e l’idea della morte, l’evidenza della cosa terribile non suscita sconcerto, scandalo, non incute una tristezza inguaribile, non produce alcuna agoscia paralizzante. I più finiscono per dare le leggi della vita per scontate, quando non inventandosene di proprie, non per eccesso di fantasia, ma per difetto di «immaginazione», che, non va dimenticato, per Proust è l’unico mezzo per cogliere la realtà. Così «molti, probabilmente, scoprendo di essere invecchiati, sarebbero meno tristi di me. Ma, intanto, la vecchiaia è come la morte. Alcuni le affrontano con indifferenza non perché abbiano più coraggio di altri, ma perché hanno meno immaginazione». È quell’immaginazione che consente di afferrare l’incredibile precarietà del mondo e di ogni singola vita, e anche qui Proust sorprende per la visione scientifica e darwinista della vita, la cui azione è «quella di cambiare la faccia del mondo con il lavorio incessante di cambiamenti infinitamente piccoli», e si spinge, procedendo dall’ordine al caos, fino a considerare quanto la serenità di ogni persona non tenga presente il fragile e casuale equilibrio su cui si appoggia, espresso proprio in termini fisici, astrofisici, biologici e perfino idraulici, ampliando improvvisamente, con un effetto di vertigine e straniamento, le grandezze e le unità di misura, così da poter dire, all’improvviso, che «le persone corrono abitualmente ai propri piaceri senza mai pensare che qualora venissero meno gli influssi indebolenti e moderatori, la proliferazione degli infusori, sviluppandosi al massimo, ossia facendo in pochi giorni un balzo di parecchi milioni di leghe, passerebbe da un millimetro cubo alla scala di un milione di volte più grande del sole, distruggendo in pari tempo tutto l’ossigeno, tutte le sostanze in cui viviamo, e che non ci sarebbero più né umanità né animali né terra», e senza poterci rendere conto delle «minacce cosmiche» che aleggiano su di noi (o delle «catastrofi interiori» dentro di noi).

[continua…]

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Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.

Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).