L’evidenza della cosa terribile (quarta di molte parti)

da | Ago 16, 2013 | Senza categoria

Ogni amore narrato da Proust si snoda in tappe meccaniche, nell’apparente libertà del sentimento, ma è sempre una trappola perfetta, un gioco di specchi illusionistici, un circolo vizioso e virtuale come del resto è la sessualità umana in generale, e non si salva realmente neppure l’affettività, così determinata in fondo dagli effetti dell’abitudine, perché «ad attaccarci alle persone sono le mille radici, gli innumerevoli fili costituiti dai ricordi della sera prima, dalle speranze del mattino dopo; è la trama ininterrotta delle abitudini da cui non sappiamo liberarci». Tenendo presente in quale tipo di astrazione, e di creazione tout court, siano prodotte in effetti, nel ragionamento proustiano che scavalca decenni di psicologismi cognitivi, le nostre relazioni umane e le persone che ne fanno parte, considerando per esempio che «ogni essere è distrutto appena smettiamo di vederlo; la sua apparizione successiva è una nuova creazione, diversa da quella che l’ha immediatamente preceduta, se non da tutte le altre».

Anche la scintilla dell’amore scocca con un’impressione, una creazione soggettiva, che genera il desiderio, si protrae nell’ossessione di non sapere, dà forma alla gelosia, alla pornografia del possesso, all’impossibilità di possedere e di ingabbiare l’amante, e si svuota nel disincanto. Ogni passione sessuale si potrebbe circoscrivere in questo movimento a vuoto, profondamente masturbatorio quanto la quintessenza dell’erotismo umano. L’immaginazione crea e distrugge, ciascuno imbastisce i propri miraggi a suo uso e consumo, miraggi che spesso sono incomprensibili agli altri. Rispetto a Robert, innamorato di Rachel, la quale, forse, non è altro, per chi non ne sia innamorato, che una attricetta arrivista e ragazza facile, ma che sembra a Robert una seria, giovane, promettente e grandissima attrice, il Narratore considera «tutto quel che riesce a mettere insieme l’immaginazione umana dietro un pezzetto di faccia», e si consideri quanto suona forte la polarizzazione tra il sentimento di Robert e il suo amore, l’amore di ciascuno di noi, ridotto a un pezzetto di faccia. Più avanti riflette che non era tanto Rachel a sembrargli poca cosa, «quanto la potenza dell’immaginazione umana, l’illusione su cui si fondano le sofferenze amorose», ossia la potenza della finzione dell’amore stesso, la sua mancanza di realtà. Altrove specifica ancora meglio in cosa consiste il «terribile inganno dell’amore: che comincia a farci giocare, anziché con una donna del mondo esterno, con una sorta di bambola interna al nostro cervello – la sola, d’altronde, che abbiamo sempre a disposizione, la sola che potremo possedere». Si comincia quindi con una «creazione fittizia cui gradualmente, per la nostra sofferenza, costringeremo la donna reale a somigliare». Si faccia caso che la persona amata non ha mai una realtà “esterna”, ossia al di fuori della coscienza, né prima, quando è una «bambola interna al nostro cervello», né dopo, quando sarà il rimpianto di ciò che abbiamo creduto di credere. Del piacere stesso occorre che sia preparato il terreno, perché possiamo godere solo di quanto abbiamo immaginato di godere, perché anche «il piacere non è che la realizzazione di una voglia preliminare», in amore e nel sesso si ha voglia di ciò di cui si sono create le condizioni di avere voglia. I rapporti “duraturi”, gli innamoramenti che diventano matrimoni, spesso altro non sono che promesse fatte a se stessi rispetto alle “bambole interne” del nostro cervello, prendendo sul serio l’errore per effetto del troppo pensarci e anche del troppo parlarne a terzi. Di Albertine il Narratore si rende presto conto che «la fanciulla della spiaggia l’avevo fabbricata io», e che «tuttavia, poiché nelle mie conversazioni con Eltsir l’avevo identificata con Albertine, sentivo verso di lei l’obbligo morale di mantenere le promesse d’amore fatte all’Albertine immaginaria». La realtà dell’amore, insomma, è una realtà virtuale, né più né meno o forse anche meno, concetto che Proust estenderà anche ai rapporti umani nella sua totalità.

Non esiste, in amore, neppure la percezione del sentimento corrotto, interessato, e a chi si chiede come faccia l’innamorato a non avvedersene, come nel caso di Robert, Proust risponde che si tratta di un ulteriore inganno, un ennesimo gioco di specchi, un effetto dell’amor proprio come derivato dell’autosuggestione dell’amore: «l’amor proprio, che ci induce a fingere gratuiti i segni di predilezione che riceviamo dalla donna amata, è semplicemente un derivato dell’amore, il bisogno di rappresentarci, a noi stessi e agli altri, amati da chi tanto amiamo».

Ogni amore raccontato e analizzato nella “Recherche” nasce da presupposti fittizi e muore nella sua verità, e il suo meccanicismo non lascia scampo ai rapporti sinceri e solidi (si tenga conto che per Proust il termine “amore” indica l’amore passionale, l’attrazione, il desiderio, che nulla ha a che fare con l’affetto e il “voler bene”). L’incontro con l’oggetto amoroso, il “colpo di fulmine”, nascono già sotto il segno della “vacuità”, della proiezione mentale, dell’autosuggestione. L’amore prescinde da chi, per caso, per occasione fortuita o provocata dalla predisposizione soggettiva, si decide di amare e ci si convince di amare, e talvolta proprio perché non si è corrisposti. Il limite segna l’inizio del sentimento e del desiderio. Si tratta, spiega Proust dandoci un’altra delle innumerevoli prove della sua visione impietosamente psicanalitica, comportamentistica e biologica dei sentimenti umani, di quella «vacuità dell’amore», l’arbitrario «variare di una convinzione» nel desiderio che «preesistente e mobile, si àncora all’immagine di una donna semplicemente perché è una donna cui sarà quasi impossibile accostarsi. Da quel momento, più che alla donna, che stentiamo a raffigurarci, pensiamo ai modi per arrivare a conoscerla. Si sviluppa tutto un processo d’angosce, sufficiente a fissare il nostro amore su colei che ne è l’oggetto a malapena conosciuto. L’amore diventa immenso, non abbiamo idea di quanto poco spazio vi occupi la donna reale». Non abbiamo idea di quanto siano quindi irreali i nostri sentimenti, così come i giovani non hanno idea del filo che li unisce alla vecchiaia, e di quanto i vecchi di oggi siano stati i giovani di ieri, di quanto il presente renda percepibile solo ciò che presenta e non la terribile evidenza di ciò che è trascorso, del lento progredire di mascheramento e dimenticanza che impediscono di cogliere l’orrore della costante, devastante opera di distruzione della vita. Così «i giovani fanno fatica a immaginarselo, perché hanno sotto gli occhi una vecchia e rispettabile marchesa di Villeparisis e non sospettano neanche lontamente che l’austera memorialista di oggi, così dignitosa sotto la sua bianca parrucca, possa essere stata, un tempo, una gaia nottambula che fece forse la delizia, e dilapidò forse il patrimonio, di uomini scesi ormai nella tomba». È uno dei modi privilegiati da Proust per smascherare l’evidenza, giustapporre, in immagini fulminanti, passato e presente, giovinezza e vecchiaia, vita e morte, amore e realtà dell’illusione, passione e noia. Costruzione per accostamenti giudiziosi che Proust riproduce nelle congiunture di ogni singola storia e, in grande, come principio dell’intera “Recherche” che culmina, appunto, nel “Tempo ritrovato”, nello smascheramento finale, nella rivelazione terminale della cosa terribile e di ogni cosa non sarà mai più.

L’intera vita sociale che a molti è sembrata uno degli argomenti prediletti della “Recherche”, non è per Proust niente di particolare. Tuttavia ha il potere narrativo di rendere visibile il nulla in ogni singolo individuo oltre che di ingannare il tempo con un’attività vana, come il «tappezzarci la vita d’una vegetazione umana vivace ma parassitaria, che diventerà niente quando sarà morta, che è già ora estranea a tutto quanto abbiamo conosciuto, e alla quale si sforza tuttavia di piacere la nostra senilità verbosa, malinconica e civettuola».

Come arrivino, nella vita e nell’amore, il disincanto e la noia, ha poca importanza, arrivano come il dolore, l’infelicità, la morte, come ogni fiore che, se sboccia, dovrà pur appassire, ammenoché non sia essiccato, senza vita, sterilizzato e plastificato, allo stesso modo in cui appariranno molte donne della “Recherche” una volta consumate dal tempo, nel tentativo di mascherare l’evidenza della cosa terribile. L’indifferenza sopraggiunge per il Narratore con la scomparsa di Albertine, per Swann sposando Odette ma diventando, a causa della devitalizzazione dell’abitudine e della noia, inerte di fronte ai suoi tradimenti. I paradisi migliori sono quelli perduti, e la felicità perdute sono le fondamenta delle infelicità presenti, perché «quanto alla felicità, essa ha, si può dire, una sola utilità: rendere possibile l’infelicità». Nella visione totale di Proust, si tenga presente, c’è uno scatto in avanti rispetto al concetto classico dell’impossibilità di essere felici poiché la perdita non sopraggiunge solamente con la morte. La perdita arriva prima ancora, arriva nell’io e nell’altro, che muoiono, che non durano il tempo di potersi mantenere dentro un’idea di felicità vivibile. Anche per questa ragione Proust ha dato vita a una serie di storie parallele l’una duplicato dell’altra, l’una generatrice dell’altra, come una serie di ascese e cadute, illusioni e disillusioni: l’amore e la gelosia per Gilberte, poi trasformatasi nella passione per sua madre, Odette, amata da Swann, alter ego del Narratore, e vissuta per interposta persona. L’amore di Robert per Rachele. L’amore del Narratore per Albertine.

Albertine, con quel senno del poi che per Proust è sempre un senno pietrificante, la “vera” Albertine, era quindi quella intravista la prima volta di sfuggita, a Balbec, avvolta nel mistero della piccola banda, sconosciuta, inconoscibile, e anche impenetrabile. Gilberte, Odette, e Albertine sono tre modelli di donne imprendibili. La prima è l’amore adolescenziale, quello non corrisposto e che non si fa in tempo a vivere, la bugia infantile, la seconda (raccontata di riflesso, attraverso Swann, e vissuta intimamente anche dal Narratore) è la donna civetta, la bugia dell’adulterio sistematico di chi vive per farsi desiderare e che non può darsi totalmente a nessuno, mentre Albertine ama il piacere ma si tratta di un piacere precluso a chi la ama, e dunque mente per nascondere il proprio piacere, per sottrarlo. Chi sono dunque Gilberte, Odette, Albertine? Qual è il loro fascino, una volta vivisezionate, rese umane troppo umane, desimbolizzate, svuotate di significato? È un punto fondamentale della “Recherche”, la verità è nell’impressione, anche se l’impressione è falsa, ma meno falsa della verità, che è noiosa. Le cose ci danno felicità quando le percepiamo senza comprenderle, quando le comprendiamo non possiamo più sentirle. Albertine resta desiderabile fintantoché è impenetrabile, sfuggente e bugiarda, e ha la fortuna narrativa di morire presto, come quei miti la cui prematura scomparsa serve a rendere tale il mito. Albertine muore presto, nel pieno della passione del Narratore che non è riuscita a ingabbiarla, ma non così presto da lasciare l’enigma irrisolto. Perché perfino la scoperta dei tradimenti, non il sospetto ma la certezza, quando arriva non fa più effetto perché arriva tardi, nel momento in cui l’anestesia della realtà ha avuto il suo effetto, la presa di coscienza della menzogna non conta e non ferisce, siccome è finito l’incanto del credere all’amore: «E di colpo io mi dissi che la vera Gilberte, la vera Albertine erano forse quelle che si erano offerte al primo istante nel loro sguardo, una davanti alla siepe di spini rosa, l’altra sulla spiaggia». Vale anche, si faccia attenzione, per Swann con Odette, se Albertine non fosse morta ci avrebbe pensato la vita a renderla inerte e a uccidere ugualmente la persona. Infatti dove si è soliti dire che “è passato l’amore” per due persone che non si amano più, Proust non gira intorno alle parole, va dritto al nocciolo e dice che «un essere» ha smesso di esistere, è morto. «Perché la donna che rivediamo non amandola più, se ci dice tutto è perché, in effetti, non è più lei, oppure siamo noi a non essere più noi: l’essere che amava ha smesso di esistere. Anche là è passata la morte, rendendo tutto facile e tutto inutile». Proust afferma, in sostanza, che se son rose, sfioriranno. E sapendolo fin da subito, perché il Narratore non ha mai in fondo dubitato della simulazione dell’amore per Albertine come per chiunque altro. L’amore è sempre un «amore per sé», uno «stato mentale», più che un oggettivo sentimento verso l’amato, e appare quindi destinato a andare «fuori uso», e a essere «sostituito» da un nuovo amore, una nuova finzione, allo stesso modo in cui a ogni io, di giorno in giorno, viene sostituito un «io di ricambio». Quindi «la disgrazia degli esseri è di non essere per noi che tavole di collezioni molto usurabili nel nostro pensiero. Proprio per questo, si fondano su di essi progetti, che hanno l’ardore del pensiero; ma il pensiero si stanca, il ricordo si distrugge: sarebbe venuto il giorno in cui avrei dato volentieri la camera di Albertine alla prima venuta, così come avevo dato senza alcun dispiacere ad Albertine la biglia d’agata o altri regali di Gilberte».

Le persone, in buona sostanza, sono idee, proiezioni virtuali, ricostruzioni artificiali di quanto vogliamo credere che siano, illusioni, necessità. La sofferenza profonda consiste nell’impossibilità di possederle così come non si può possedere se stessi. Questo concetto può scandalizzare chiunque abbia eletto Proust a paladino del sentimento in maniera semplicistica. Il Narratore è capace di adattarsi tanto a Albertine viva quanto a Albertine morta perché entrambe, la viva e la morta, finiscono con l’occupare uno spazio mentale, e dentro questa virtualità contano e si muovono, e fanno soffrire entrambe nel «nero tunnel» del pensiero che rimugina se stesso, a tal punto che «era lei, mi chiedevo, quella vera, o tale era invece l’essere che, nell’oscurità in cui da tanto mi trascinavo, mi sembrava la sola realtà?». Si consideri che Proust spiega in diversi punti dell’opera quanto le uniche esperienze reali siano quelle “intellettuali”, ed essendo ogni cosa il pensiero di una cosa, la sua spiegazione è di fatto inconfutabile. L’immaginazione proustiana è una forma di realismo estremo, e ci dice che non esistono esperienze che non siano mentali, e qualsiasi esperienza che non sia mentale non è un’esperienza. Sembra ovvio, ma sfugge ancora a tanti che continuano a separare il realismo dalla psicologia, l’impressione dalla conoscenza, la realtà dalla realtà virtuale. «Non c’è stata ora della mia vita» scrive Proust, «che non mi sia servita per capire che solo la percezione più grossolana ed erronea pone tutto nell’oggetto mentre tutto è, al contrario, nella mente».

[continua…]

La prima parte è qui.
La seconda qui.
La terza qui.

Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.

Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).