Kairòs: la grazia della leggerezza

da | Lug 24, 2013 | Senza categoria

Tutto sta nella leggerezza. Leggera appare la cappa di Morante quando fruscia nell’arena davanti al toro. Leggero appare il vestito da flamenca quando le donne sivigliane volteggiano e le estremità del tessuto che pare aria volano, saettano, si arrotolano in un’ulteriore danza. Leggero appare il paso della Vergine quando s’inchina, ondeggia, prende la rincorsa per una marcia trionfale o si raccoglie in un movimento basculante e doloroso. Tutto sta nella leggerezza. Su cui discende, come una specie di spirito santo, la grazia. E tuttavia prendete in mano una cappa da torero, sollevate i lembi di un vestito da flamenca, domandate di quanto supera la tonnellata il paso più piccolo fra quelli di tutte le confraternite sivigliane. Quanto peso sta dietro la liberazione dell’arte? Come è possibile far volteggiare il capote giallo e rosso, così pesante soltanto a tenerlo dritto, come donargli quell’apparenza di grazia? Come portare un vestito da flamenca nel sole a 40 gradi che la città segna in questi giorni verso le sei di pomeriggio, e mostrare una freschezza piena dell’eleganza dono delle Cariti? Come far sobbalzare in un moto ondoso irregolare dominato dall’eleganza del portamento una Vergine come la Macarena, che ogni anno chiede qualche granello di ricchezza in più, qualche novità per la sua dote, come il magnifico mantello restaurato in due anni di lavoro, un pesantissimo, lunghissimo, eterno manto che pare il vestito di luci torero? Grazia sotto pressione – diceva Hemingway di un atteggiamento umano che lo colpiva e che cercava di ritrarre. Grace under pressure. Dove trovare meglio che ovunque, tutto questo, se non in Spagna? Dove, in maniera esemplare, se non nella plaza de toros.

Leggerezza che vince la pesantezza. Questa sembra la parola d’ordine che lega i giorni infiniti di festa. Bisogno costante di crearsi un ostacolo per superarlo e vincerlo nel più trionfale dei domini. Le strettoie di porte, archi e vicoli per i pasos. Figure complicate di fronte a tori che caricano ognuno secondo la sua natura, la sua personalità, nel toreo. Quattro tempi di corteggiamento, seduzione, inganno e riconciliazione nelle sevillanas ballate sotto a un sole cocente, nella feria. Ma in questa feria immensa e delirante sono innumerevoli i momenti in cui la grazia della leggerezza tocca il suolo della piccola Manhattan di strade torere perfettamente intrecciate. Noi non possiamo saperne nulla. La città intera si è trasferita qui, le folle di cittadini si uniscono, si deformano, si accalcano come mai e ciò che esse rendono possibile è uno degli aspetti che i sivigliani esaltano di più della feria: la casualità, l’incontro, l’accidentale ritrovarsi o conoscersi, con tutto quel che questo porta con sé, dagli innamoramenti ai litigi, dalla gloria alla disfatta. Perché quel che deve dominare in questi giorni è il kairòs. Si tratta di un’idea volatile, che affonda le sue radici in una contingenza furibonda e che, siccome coglie l’altezza della più perfetta realizzazione dell’effimero, i Greci antichi resero immortale, divinizzandola. Kairòs. Eccolo, si slancia reggendosi sul suo piedino minuscolo, si congiunge alla terra sfiorando con l’alluce il suolo, innalzato in un volo costante. Leggerissimo di tutta la pesantezza terrena, aggraziato del suo contatto con gli umani e con i divini.

Ero bambino quando uno dei più autorevoli studiosi di arte greca classica del Novecento italiano mi spiegò per sempre chi fosse Kairòs. Lui si chiamava Enrico Paribeni, era un esteta che vestiva abiti di gran classe ma sempre un po’ troppo lunghi o troppo corti. Era in parte calvo ma dai fianchi del cranio lunghi capelli bianchi e in parte dorati gli scendevano sulle spalle. Si muoveva a passetti inconsulti, raccontava storie improbabili che fino alla fine nessuno capiva dove stessero portando. Appena tornava a Roma dalla Firenze di palazzi nobiliari in decadenza, s’immergeva nelle bancarelle di libri usati e aspettava domenica mattina per prendere il tram e sfidare fin dal mattino i mercanteggiamenti di Porta Portese. Aprì un fascicolo di fotocopie, un mattino, le spostò sotto il sole che entrava dalla finestra del salotto nella casa che i miei nonni avevano a Roma e spiegò perché quel disegno in parte incomprensibile che era stato recuperato sul ventre di un vaso di terracotta rappresentasse Kairòs. “Vedi questo piedino? Vedi come tocca e non tocca terra? Kairòs benedice il momento opportuno, l’unico momento perfetto perché una cosa accada. Non c’è prima e non c’è poi. C’è solo quel momento. Quell’istante, anzi. Una frazione di secondo. Prima non c’era questa possibilità. Dopo non ci sarà mai più. L’opportunità ha un unico istante per realizzarsi o meno. Kairòs si porta dietro questa enorme responsabilità. Con lui tutto sarà possibile. Senza di lui, un amore eccezionale non si realizzerà mai, un’idea resterà nel nulla, una possibilità di lavoro, un viaggio, tutto, insomma, proprio tutto. Perché tutto si verifica nel mondo seguendo stranissimi percorsi e c’è sempre un momento decisivo. Kairòs quindi si porta appresso tutta la pesantezza di questa necessità e tutta la leggerezza della sua stessa volatilità. Gli uomini toccati dalla divinità di Kairòs sono capaci di cogliere il momento perfetto per realizzare un’impresa, per adeguare un discorso a un uditorio, per modellare la loro strategia in una certa situazione. Insomma non è casualità, Kairòs. Ma grazia, una grazia infinita e leggera nonostante il peso di tutto quello con cui ha a che fare”.

Il momento perfetto per far passare la cappa davanti al muso del toro, il movimento più adeguato a un certo animale, il passaggio che unico, e solo in quel momento, solo con quell’animale, può portare a altri passaggi, altri movimenti. Nell’arte del toreo sembra che la divinità di Kairòs sia scesa a determinare uno degli aspetti centrali della lotta e della danza fra uomo e animale. Ma quel che in un’arena può apparire come modello costruito a tavolino, riluce di una vita assolutamente propria in quell’arena che è la piccola città del recinto feriale, la Real Feria. Qui tutto scorre ininterrottamente e ovunque, in ogni istante, il piccolo piedino di Kairòs si stacca verso il cielo. Saranno le amazzoni che cavalcano sui viali polverosi, vestite perfettamente, il cappello cordobese a tese larghe, la lunga gonna, la giacca stretta e regalmente femminile, un’aria riposata e ilare. Saranno gli uomini che guidano gli automezzi con cui il Comune bagna di continuo le strade, liberandole da escrementi e mondezza. Saranno le ragazze vestite di rosso per pubblicizzare certe birre andaluse, o quelle vestite di giallo e nero per pubblicizzare certi vini andalusi, o quelle vestite di tutti gli altri colori per pubblicizzare la loro terra. Saranno le gitane incinte, gitane dagli occhi di fuoco, quelle che solo un proverbio spiega: “finché non hai baciato una zingara non sai cosa vuol dire accendere il fuoco”. Saranno gli uomini che guidano i carri e indossano bandane da pirati sotto ai cappelli, quelli che tentano di non sudare nel giacchettino stretto mentre cavalcano con i figli ai due lati, quelli che passeggiano, fumano, bevono, ridono, chiacchierano, si abbandonano sulle sedie all’ombra per riposarsi o lanciarsi nell’ennesima discussione.

E quante saranno le discussioni tra tutte le casette che compongono questa città? Le casette dei partiti politici (la più bella e indimenticabile, quella del Partito Comunista), quelle delle famiglie benestanti, quelle degli amici, quelle del dopolavoro, quelle dei dipendenti dei mezzi di trasporto pubblico, quelle di ragazzetti antipatici e snob, quelle di giovani perennemente ubriachi e quelle che sembrano una congrega di manifestanti in favore della chirurgia plastica nonostante la crisi, e quelle che glorificano le banche nel mondo distrutto dalle banche. Quante casette e quanto mondo e quanti momenti di discussione in cui si libera perfetto il dominio di Kairòs. La ciarla, la tertulia, lo spazio per discutere di qualsiasi argomento, questa pratica così tradizionalmente spagnola protetta da uomini che impediscono l’accesso ai non invitati in tutte le casette della Real Feria fatta eccezione per le casette pubbliche, che siano quelle di quartiere, comunali, sindacali o semplicemente private ma comunque aperte: rifugio per chi non ha case, o non ha amici, e può solo cercare per le strade il momento più giusto e opportuno. Allora lo cerco anch’io questo momento magico. Sono le nove, le mille luci della feria si sono accese una dietro l’altra mentre il cielo è ancora zuppo della luce calante del sole andaluso. Festoni colorati brillano contro un azzurro che sembra fradicio del sudore giornaliero e io trovo una caseta dall’ingresso libero su calle Joselito El Gallo, chiedo un vaso di rebujito e brindo con chi è alla barra. Rebujito, la bevanda della festa. Eccola la spiegazione. Non ci avevo pensato affatto nei giorni passati. Rebujito. Ossia Manzanilla stemperata da gassosa. Manzanilla, il vinello pesante di Sanlùcar de Barrameda, la cittadina alla foce del Guadalquivir da cui partì Magellano e a cui ritornò Pigafetta, la cittadina festosa, bianca, dove le telline sono un sogno e il suo vinello una promessa di ebbrezza. Ma quel vino, così forte, così prepotente, deve alleggerirsi. La gassosa lo tramuta in rebujito – fresco, leggero, pronto a portare ugualmente all’ebbrezza, alla risata ebbra di Kairòs che tocca terra solo per quel poco che basta.

[continua…]

La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
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Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).