Il romanzo massimalista

da | Giu 8, 2015 | Senza categoria

Un estratto da Il romanzo massimalista. Da “L’arcobaleno della gravità” di Thomas Pynchon a “2666” di Roberto Bolaño, Milano, Bompiani, 2015 (Grandi Tascabili – Agone).

Dal Capitolo 10. “Realismo ibrido” (pp. 257-62).

Realismo e postmodernità non sono incompatibili.[1] Se già a proposito del libro fotografico di Walker Evans e James Agee, Let Us Now Praise Famous Men, si coniò l’espressione “realismo postmodernista”,[2] i romanzi massimalisti rivelano un complesso ripensamento insieme dei limiti e delle potenzialità della mimesis, nel tentativo di approdare a forme ibride di realismo, in cui la referenzialità immediata della parola è parzialmente sacrificata alla prospettiva di un maggiore impatto critico. L’autore massimalista che più di ogni altro si è mostrato sensibile a una problematica di questo tipo è stato David Foster Wallace, che, in Infinite Jest, ha elaborato una personalissima teoria mimetica, battezzata come “realismo radicale”.

Dopo la sparatoria alla Ennet House, lo spettro di James Incandenza appare a Don Gately immobilizzato nel suo letto d’ospedale, infliggendogli una serie monologhi, fra cui una lunga riflessione sul realismo cinematografico:

E lo spettro capovolto sul monitor del cuore guarda giù verso Gately con un’aria pensierosa e gli chiede se Gately si ricorda della miriade di comparse [thespian extras] nel suo amato Cheers!, per esempio, non i protagonisti, Sam e Carla e Nom, ma i clienti senza nome che stavano sempre ai tavoli e facevano gli avventori nel bar, vere concessioni al realismo, sempre relegati dietro a fare da sfondo o a passare sfocati davanti alla macchina da presa; sempre impegnati in conversazioni silenziose: le loro facce si animavano e le loro bocche si muovevano realisticamente, ma senza suono: solo le stelle famose potevano farsi udire. Lo spettro dice che questi attori frazionali, scenografia umana, erano visibili (ma non udibili) [could be seen (but not heard)] in molti intrattenimenti filmati.[3]

Folle di personaggi “visibili (ma non udibili)”. Lo spettro continua:

Lo spettro dice che anche lui, lo spettro, quando era animato, si era occupato di filmografia, cioè di farle, le cartucce, questo lo diceva per beneficio d’inventario di Gately, che ci credesse o no, ma negli intrattenimenti che aveva fatto lo spettro in persona, lui dice che o erano muti o se non lo erano poteva star sicuro che si sentivano le voci di tutti gli attori, anche se si trovavano alla periferia cinematografica o narrativa; e non era il dialogo autoconsapevolmente sovrapposto di un poseur come Schwulst o Altman, cioè non era solo un’imitazione sapiente di caos uditivo: era il blaterio vero ed egualitario della vita reale delle folle senza figuranti [it was real life’s real egalitarian babble of figurantless crowds], della vera agorà del mondo animato, il blaterio di una folla ogni membro della quale era il protagonista centrale e distinto del suo intrattenimento.[4]

Efficace mise en abyme delle strategie mimetiche adottate da Wallace in Infinite Jest, l’estremismo corale degli intrattenimenti creati da James Incandenza mette capo a un nuovo “realismo uditivo”; un realismo egualitario, più democratico di quello tradizionale in cui la massa dei figuranti è silenziata per far emergere i protagonisti. Un realismo in cui non esistono più le gerarchie enunciative della mimesi classica, ma soltanto il “blaterio” incessante della folla; un realismo in cui ogni personaggio è il protagonista di un mini-universo narrativo. Un realismo, insomma, “radicale”:

Era per questo, continua lo spettro, il completo ed egualitario realismo uditivo [aural realism] senza figuranti, era la ragione per cui i critici da salotto avevano sempre scritto che le scene nei luoghi pubblici degli spettacoli dello spettro erano incredibilmente noiose e autocompiacenti e irritanti, che non riuscivano mai a sentire le conversazioni narrative centrali davvero significative per via di tutto quel blaterio non filtrato delle comparse periferiche, e pensavano che il blaterio(/babele) fosse una posa autoriale d’arte alta ostile allo spettatore e autocompiacente, invece d’essere realismo radicale [radical realism].[5]

Si tratta di un progetto mimetico dal carattere ben definito, rispondente a un’urgenza insieme estetica ed etica avvertita in modo perentorio da Wallace. In una intervista del 1993 rilasciata a Larry McCaffery,[6] Wallace affronta il problema del realismo. A suo avviso, la mimesi tradizionale è oramai incapace di avere un impatto apprezzabile sui lettori, poiché il suo linguaggio è stato da tempo assorbito ed esaurito dalla televisione e dalla pubblicità, acquisendo, in negativo, un carattere anestetico:

DFW: […] Questa potrebbe essere la mia migliore risposta alla tua affermazione secondo cui la mia roba non è “realista”. Non sono molto interessato a fare un tentativo con il classico Realismo con la “R-” grande [big-R Realism], non perché non ci sia stata una grande fiction realista statunitense destinata a essere letta e goduta per sempre, ma perché la forma “R-” grande è stata oramai assorbita e subordinata all’intrattenimento commerciale. La forma realista classica è rassicurante, familiare e anestetica; scade dritta nel mero guardare. Non provoca quel tipo di aspettative che la narrativa seria degli anni novanta dovrebbe provocare nei lettori.[7]

Compito dello scrittore impegnato è recuperare alla mimesi zone della realtà inesplorate dal realismo classico, nella speranza di produrre un effetto straniante sul lettore. Il nuovo realismo, un realismo critico, deve puntare paradossalmente a una defamiliarizzazione dell’esistente, sulla scorta di uno slancio etico poderoso. Il movimento del realismo tradizionale verso la familiarizzazione del reale è bruscamente invertito, in un’operazione che non ha quasi più nulla a che fare con la rappresentazione realista comunemente intesa; un’operazione satura di quell’antirealismo di cui è intrisa gran parte della letteratura del Novecento e che ha segnato la nascita della grande narrativa statunitense:[8]

LM: […] Ho notato che non hai fatto a pezzi la stanza quando prima ho detto che il tuo lavoro non sembra “realista”. Sei d’accordo?

DFW: Allora, dipende sei stai parlando di realista con la “r-” piccola, o con la “R-” grande. Se vuoi dire che la mia roba è della scuola del realismo statunitense alla Howells/Warthon/Updike, chiaramente no. Ma per me, l’[opposizione] binaria narrativa realista vs. narrativa non realista è una distinzione canonica messa in piedi da persone con un interesse nella tradizione della “R-” grande. Un modo per marginalizzare quella roba che non è rassicurante e conservatrice. Perfino il più stupido programma avanguardistico, se possiede un minimo di integrità, non è mai “Rifuggiamo da ogni tipo di realismo”, ma “Proviamo a promuovere e a rappresentare aspetti reali di esperienze reali che fino a questo momento erano stati esclusi dall’arte”. Il risultato, spesso, sembra non realistico ai devoti della “R-” grande, perché non si tratta di una parte riconoscibile di quell’“esperienza ordinaria” che essi sono soliti promuovere. Credo che la mia posizione sia che “realista” non abbia una definizione univoca. […] Per la nostra generazione, l’intero mondo sembra presentarsi come “familiare”, ma poiché questa è certamente un’illusione in termini di ciò che è davvero importante delle persone, forse il lavoro di una certa narrativa “realista” è esattamente opposto a quello che è stato finora: non più rendere lo strano familiare, ma rendere il familiare strano ancora una volta [making the familiar strange again]. Sembra importante trovare modi di ricordarci che gran parte della “familiarità” è mediata e ingannevole.[9]

Cavalcando ipotesi alternative di realismo, il romanzo massimalista lancia nuove sfide estetiche al sistema letterario postmoderno, nell’amara consapevolezza che per raccontare il mondo di oggi, probabilmente, bisogna renderlo quasi irriconoscibile. Un prezzo altissimo, imposto da un’epoca di irrealtà diffusa, che gli autori dei romanzi discussi in questo studio sembrano, però, disposti a pagare, sostenuti da una profonda fiducia nel potere critico e universalizzante della scrittura massimalista.

 


[1] Di avviso contrario Raffaele Donnarumma, che ha visto nel relativamente recente revival di scritture di tipo realista, un tentativo di uscire dal postmoderno; cfr. Donnarumma, Raffaele, “Nuovi realismi e persistenze postmoderne. Narratori italiani di oggi”, in Allegoria, 20, 57, 2008, pp. 26-54. Più sfumata, invece, la posizione di Gianluigi Simonetti a riguardo; cfr. Simonetti, Gianluigi, “I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006)”, in Allegoria, 20, 57, 2008, pp. 95-136.

[2] Cfr. Reed, T. V., “Unimagined Experience and the Fiction of the Real: Postmodernist Realism in Let Us Now Praise Famous Men”, in Representations, 24, 1988, pp. 156-76; Id., Fifteen Jugglers, Five Believers: Literary Politics and the Poetics of American Social Movements, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1992, pp. 18-21. Si veda anche Fusillo, Massimo, Estetica della letteratura, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 104.

[3] Wallace, David Foster, Infinite Jest (1996), introduzione di Dave Eggers, New York, Back Bay Books/Little, 2006, p. 834; trad. it. Edoardo Nesi, Annalisa Villoresi e Grazia Giua, Infinite Jest, Torino, Einaudi, 2006, p. 1003.

[4] Ibid., pp. 835-36; p. 1004.

[5] Ibid., p. 836; pp. 1004-5.

[6] McCaffery, Larry, “An Interview with David Foster Wallace”, in Review of Contemporary Fiction, 13, 2, 1993, pp. 127-50.

[7] Ibid., p. 138.

[8] Classici, anche se oggi un po’ datati, Chase, Richard V., The American Novel and Its Tradition (1957), Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1980; Fiedler, Leslie A., Love and Death in the American Novel (1960), Urbana-Champaign, Dalkey Archive Press, 1998. Cfr. Deamer, Robert G., “The American Dream and the Romance Tradition in American Fiction: A Literary Study of Society and Success in America”, in The Journal of American Culture, 2, 1, 1979, pp. 5-16.

[9] McCaffery, “An Interview”, cit., pp. 139-41.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).