Gente che avrei voluto conoscere: Jerry Thomas

da | Mag 26, 2014 | Senza categoria

Tra i molti mestieri che non ho mai avuto la presunzione di poter fare nella vita (oltre il calciatore, il samurai e l’astronauta dopo aver scoperto che purtroppo dovevi essere ingegnere, prima) spiccano, in onorevolezza, quello del poeta e quello del barista. Vuoi perché la semplice e passiva fruizione dei loro uffici rende il mondo un posto migliore da abitare e vuoi perché il non riuscirlo a fare, l’alone di mistero che circonda il risultato del lavoro di questi benefattori dell’umanità basta a fornirmi un’esperienza commovente e in qualche modo totalizzante, sia che stia leggendo una poesia di Gozzano o sorseggiando un martini cocktail perfetto (variante Hemingway, in&out, senza oliva, lemon twist, molto secco). Naturalmente ci ho provato anche io, ma solo per banali ragioni di sussistenza emotiva e incapacità nel trovare mezzi comunicativi soddisfacenti: l’unica poesia che scrivo ogni anno la scrivo il giorno della festa della Madonna della Marina di San Benedetto del Tronto e ho imparato a fare l’Old Fashioned usando la tecnica da macellaio che usa Don Draper in Med Man 3×03.

Ho intenzione di toccare solo rapidamente l’abusato tema del connubio tra scrittura e alcol, ma se hai la sfortuna di essere uno che come me che quando aveva sedici anni aveva lasciato perdere l’hip hop per provare a scrivere, nella vita, capisci bene che l’unica base solida per iniziare a farlo dignitosamente era assumere i comportamenti di quelli che avresti considerato i tuoi maestri fino all’età in cui la grazia di un cervello che almeno riuscisse a chiedersi il perché delle cose non fosse caduta dal cielo (fortunatamente la rivoluzionaria idea di guadagnarti le cose che meriti sarebbe venuta molto ma molto più tardi). Ma a sedici anni questo era tutto molto evanescente e fluido, e al liceo, se non giochi a calcio, non ti interessi di politica e le gioie dell’oppio sono ancora un mistero, l’unico modo per rischiare di scopare sentirti diverso dagli altri era sfogliare Baudelaire e Verlaine durante la ricreazione e sperare che a un certo punto quella carina del piano di sopra venisse da te a chiederti cos’è che stavi leggendo. Forse era colpa della provincia, che rendeva tutto più romantico, tutto più lento. Nonostante questo era una tecnica che funzionava bene, non c’è da spiegare perché. Il problema era che se ci credevi troppo avresti fatto fatica, negli anni a venire, a lasciare da parte le cose che non contavano, le parti accessorie e i vezzi, per concentrarti solo sulla scrittura, quando avresti compreso che non bastava per niente comportarsi da scrittore per essere tale (magari qualcuno ci ha messo cinque secondi, per capirlo, io qualche anno, la prima cosa buona che ho scritto l’ho scritta da sobrio dopo che un mio amico era quasi morto: fu una specie di rivelazione sulle ovvietà della vita e sulle stronzate che uno si dice). Sarebbero comunque passati anni tremendi, pieni di scritture fallaci, confusioni stilistiche, pochissimo ordine nelle letture e l’idea che ogni cosa che leggessi facesse al caso tuo. È qualcosa che c’entra con l’effetto Forer, quello che (magari incosapevolemte) usano la maggior parte dei cartomanti che ho incontrato, cioè ritenere il profilo che stai ascoltando, o il pezzo che stai leggendo, o la canzone che urli in spiaggia la notte pensando a quella carina di cui sopra, siano fatte apposta per te, che l’universo in qualche orrendo moto coheliano davvero ti percepisca come suo figlio e faccia di tutto per comprendere i tuoi bisogni e le tue necessità. L’immedesimazione mischiata al delirio di onnipotenza adolescenziale e al tequila sale e limone. Forse non esiste una bomba emotiva più distruttiva e divertente di questa. Va bene che magari Baudelaire non beveva tequila, ma in ottica panteistica tutto l’alcol avrebbe avuto lo stesso senso e io fino al compimento dei ventidue anni di età sono sempre stato molto poco selettivo, mi sentivo bene, reggevo parecchio e anche se ho sempre sofferto di hangover terribili, li vivevo con uno stoicismo degno di Crisippo e forse è per quello che anche oggi, quando mi chiedono quanti anni ho il cervello inciampa su quella doppia cifra, prima di ricordarsi che il tempo passa per tutti allo stesso modo.

Scrivere e bere per qualcuno sono cose che fanno parte dello stesso movimento di pensiero: non riescono a immaginare una cosa senza l’altra e non sto qui a fare esempi fin troppo noti. È anche piuttosto inutile ribadire che non ci sia niente di vero, dietro questa credenza: è evidente che il talento o chi per lui si nutra solo di fatica, non di stati di coscienza vagamente alterati.

Una volta mi lamentavo con un mio amico che ora fa lo scrittore vero di aver trovato un lavoro del cazzo per pagare l’affitto e gli raccontavo di avere paura che non sarei più riuscito a scrivere come prima, per questioni di tempo. Stronzate, mi ha detto lui, tu sei uno che beve, riusciresti a scrivere pure facendo il minatore. Ecco, credo che più o meno sia quello lo spirito che ci raccontiamo a vicenda quando la notte fa tanto freddo e ci sentiamo gli essere più inutili del pianeta. Ma oggi non voglio parlare di scrittori alcolizzati, ma solo di chi fa alcolizzare gli scrittori, anzi, del primo barista in assoluto, colui che ha avuto il merito di rendere la somministrazione alcolica un’arte, facendone un’esperienza performante e, meglio ancora, suggerendo l’idea che le cose da bere si potessero mischiare, come un navigato alchimista sovrappeso che gira l’America con il suo carrozzone strabiliante, seguendo da lontano un circo Barnum a caso e offrendo spettaccoli di magia per pochi centesimi: il professor Jerry Thomas. Qualche anno fa Feltrinelli ha ripubblicato la sua bibbia personale, How to mix drinks, un libro di ricette imprescindibili per chiunque sia appassionato alla storia del buon bere.
Chiaramente, se siete aficionados dell’invisibile alla fragola non è il libro che fa per voi, diciamo che questo non è nemmeno il mondo che fa per voi. Se invece avete meno di vent’anni siete ancora in tempo, gli errori sono naturali. Ricordo con agghiacciante terrore un intruglio di colore viola con una ciliegia al maraschino che bevevamo in un locale dotato di un ampio parcheggio vicino alla ferrovia, in una sera d’estate qualsiasi dei miei diciassette anni. Si chiamava il Nos, come quella cosa che dà il turbo alle macchine in Fast&Furious. Ora quelli si chiamerebbero gli anni del binge drinking, noi ci ubriacavamo e basta e io, che almeno avevo le velleità artistiche di supporto e che mi sentivo in qualche modo giustificato dal fatto che Lo Facevano Tutti Quelli Fighi, rimanevo stupito dal fatto che alle persone non sembrava servire una ragione particolare, per darsi alla pazza gioia. Era tutto molto americano, ci mancava solo un autolavaggio a gettoni (che poi avrebbero effettivamente aperto, sulla statale, due strade più in là) e due che pomiciassero attaccati alla ringhiera scrostata nella parte esterna di un rivenditore di macchine usate. Praticamente era il deserto, non sapevamo nulla dell’alcol, il massimo ritrovato tecnologico era una cosa che dovevi accendere e poi sbattere sul tavolo, si chiamava Thunderball mi pare ed era dolce da fare schifo. Ed è lì che è arrivato Jerry Thomas, perché i maestri arrivano quando decidono di arrivare, non proprio lui, ormai lo intendo come archetipo junghiano, nella mia testa ha la faccia del maestro Muten, o di Yoda, o di Albus Silente, che si impersonifica in qualcuno che a un certo punto ti porge un Gin Tonic ben fatto e ti trascina in quel paradiso di consapevolezza che il mondo del bere da sobri. Il mio si chiamava col mio stesso nome e lavorava nello stesso bar di cinesi dove avrei festeggiato la mia laurea, qualche anno dopo. Praticamente gli devo ogni cosa che so: il sapore del Singapore Sling, la freschezza del Mint Julep, il potere del cardamomo e la santità del Patròn blanco.

Jerry Thomas, detto Il Professore, nato nei primi giorni di novembre del 1830, inizia a far girare la sua fortuna quando si imbarca come marinaio sulla Ann Smith, dove cambia la ricetta del Grog e inventa i primi basilari tipi di punch, ovviamente molto apprezzati dalla ciurma. Torna sulla terraferma e si trasferisce in California: quelli sono i tempi dei saloon e della Gold Rush. Jerry, che non è tipo da azzardi e fatica, capisce che l’oro è meglio cercarlo nelle tasche di quelli che l’hanno già trovato, non nella dura roccia, ed è per questo che lo troviamo impiegato dietro al bancone dell’El Dorado, un locale di legno più orchestra dedito alle bevande semplici e ai ripetuti incendi. Il carattere nervoso di Jerry mal doveva sopportare quella routine fatta di liquori assoluti e tradizioni stantie, è per questo che inizierà a girovagare l’America mostrando le sue invenzioni e la sua leggendaria shackerata. Inizia ad essere famoso, riconoscono in lui il genio dell’uomo che inventa, e per ripagare la gente di tutta quella bontà lui non può fare altro che aprire bar, New Orleans, San Francisco, Virginia City, e lavorare nei migliori Hotel della nazione. Ebbe la sua consacrazione nella posizione di primo barman al Metropolitan di New York: le pareti ricordano ancora i suoi gioielli, e gli spettacoli di giocoleria con gli attrezzi del mestiere e l’esattezza delle dosi dei suoi drink. Finì come al solito in rovina dopo aver fallito qualche speculazione troppo azzardata a Wall Street da membro della fat’s men society. Il mio preferito tra i suoi cocktail, dei quali molti sono oggi irrealizzabili a causa dell’impossibile reperimento dei vari bitter e sour esistenti allora, è il Martinez, nella sua versione reverse (la leggenda vuole che sia stato il precursore del più noto Martini cocktail di bondiana memoria):

2 parti di Gin (meglio l’Old Tom)
1 parte di vermut rosso (a me piace il carpano antica formula)
2 gocce di angostura (esiste anche con l’orange bitter)
1 cucchiaino di maraschino

Usare la tecnica del Stir & Strain (molto ghiaccio) per ossigenare il drink e fare in modo che tutti gli ingredienti si miscelino alla perfezione e servire in una coppa martini gelida. Twist di limone come guarnizione. Stiamo parlando in un cocktail del 1850, praticamente un pezzo di storia americana. Mentre lo bevete vi tornano in mente gli speakeasy dell’epoca del proibizionismo, e il riverbero di una certa musica che qualche anno prima sarà pure stata francese, e uomini in rendigote che bevono da bicchieri di cristallo o da coppe metalliche fissando giovani donne lascive stese sui velluti rossi di quei divani/tombe, e se per continuare il parallelismo dovesse venirvi in mente una poesia sarebbe qualcosa del genere

Wine comes in at the mouth
And love comes in at the eye;
That’s all we shall know for truth
Before we grow old and die.

William B. Yeats, A driking song

O una, di Capossela, che sta scritta sulla porta di un bar che frequento spesso, quando qualcosa mi riporta sull’adriatico dove è nato tutto: C’è chi beve e si vanta della propria ubriachezza. / C’è chi si ubriaca e si vergogna dei propri sentimenti. / C’è chi osserva tutto questo e lo sopporta solo bevendo. / Un bicchiere è un’arma micidiale quando lo appoggi vicino al cuore. / La vita va corretta..va corretta.. E’ cosi difficile berla liscia. / Il Bar non ti regala ricordi ma i ricordi ti portano sempre Al Bar.
Il recupero di personaggi alla Jerry Thomas passava per forza di cose dall’obbligato movimento da una ridente cittadina sul mare adriatico alla capitale, quando il bisogno di vintage che ci ricordasse di poter fingere di aver avuto un passato precedente agli anni ‘80 e ‘90, ci portò a ripescare le cose che di buono si erano fatte nel secolo scorso (mi rendo conto che parlare oggi di Jerry Thomas possa suonare un po’ hipster, un po’ come parlare di David Foster Wallace e bere Hendrick’s Gin nel 2011 o cavalcare oggi l’onda delle birre artigianali e del vino biologico). Oggi tutti conoscono il sapore di un Old Fashioned, o almeno, tutti dovrebbero. Senza arrivare a ritenere necessaria l’ora di Cocktail alle superiori, sarebbe forse il caso che la prevenzione alcolica passasse dalla qualità dei prodotti. Perfino Il Professore si affidava a un chimico, il Dottor Schulz, nella preparazione delle sue ricette e comunque sarebbe considerevolmente cosa buona e giusta arrivare a pensare che ogni parte del giorno abbia la sua ricetta, che ogni ora voglia il suo alcolico. Ogni mattina ha il suo Bloody Mary, ogni pomeriggio le sue birre. Ogni aperitivo i suoi Martini e ogni notte i suoi Margarita.

È affascinante pensare a come cambino le cose, quando sai come usarle. Dopo la fine di una relazione che mi ha colpito molto a fondo, ho naturalmente trovato conforto e rassegnazione nel delirio alcolico e ogni notte mi dicevo che era curioso, come il mondo diventasse un posto migliore dopo appena due gin tonic. Il pensiero seguente era che era naturale che fosse così, dato che proprio per questo esiste una patologia chiamata alcolismo, ma non c’era mai stato niente di veramente malato, solo allegria, e gemelli preziosi che chiudono maniche di camicia tenute su da reggimaniche in metallo, e alambicchi colorati e spettacoli flair, come se la vita potesse racchiudersi nell’operato di quello che faceva il  Professor Jerry Thomas, mentre crea un arco fiammeggiante di whiskey preparando il suo leggendario blue blazer (come nell’immagine sopra), mentre ti appare in sogno per dirti una di quelle verità ancestrali, sussurrandoti all’orecchio di stare tranquillo, che non c’era mica niente di sbagliato, nel correggersi la vita.

p.s.: ad oggi la tecnica che mi piace di più è quella esatta del barista samurai di una pubblicità del bacardi di qualche anno fa.