Gente che avrei voluto conoscere: Anne Bonny

da | Lug 25, 2014 | Senza categoria

Alle feste di carnevale più divertenti a cui mi è capitato di partecipare, quelle cioè che organizzavano le maestre della materna nella palestra della scuola, io ci andavo sempre vestito da corsaro nero.

Chiaramente non è che potessi deciderlo io: per mia madre era ovvio che non volessi desiderare nient’altro che un vestito di velluto nero con i risvolti di pizzo, un paio di baffetti spagnoli disegnati con la matita per gli occhi e una benda sull’occhio sinistro che mi finiva in continuazione sul collo. Dev’essere stato un bel gioco, per lei, mascherare il suo primogenito seienne col caschetto con abiti ricercati, che facessero la differenza in mezzo a tutte quelle tartarughe ninja di gommapiuma, a quegli uomini ragno di nylon, a quelle squaw riempite di piume colorate e tamburelli di plastica e frange scamosciate. Di sicuro facevo la mia figura, in quella palestra colorata riempita di gomma e di tavolinetti rotondi a misura di bambini i cui muri sembrano vibrare, tipo la dimensione oggettiva delle cose con la frequenza Ohm, solo a canzonette che inneggiavano a una ferita di Garibaldi o alla macchina di un ipotetico e per quanto ne sapevo io sconosciuto capo.

Alla festa che ricordo più chiaramente, quella del terzo anno, si palesò una tizia vestita da pirata. Si chiamava Valeria e qualche settimana prima, quando durante una specie di gioco crudele ci costrinsero a sceglierci una fidanzata, io non avevo avuto il coraggio di dirle niente perché mi ero vergognato molto (era piuttosto carina, Valeria) e alla fine il mio sodalizio si era espresso in qualche sguardo silenzioso e nient’altro con una bambina bruttina di cui ho dimenticato il nome.

Valeria si era messa con uno vestito da Zorro, con i baffetti spaventosamente simili ai miei (si chiama Roberto, ora lui restaura barche di legno in Liguria e siamo ancora molto amici). In ogni caso, era chiaro che nel mio immaginario, che cominciava ad essere condito dalle evidenze delle differenze di genere, le donne pirata fossero una specie di abominio (e ancora non conoscevo la differenza tra la legittimazione che viene da una lettera di corsa e quella che ti dai da solo)

Guarda che i pirati sono solo maschi.

Non è vero.

Sì che è vero.

Non è vero!

 

Valeria era risoluta e dal piglio battagliero, brandiva la sua sciabola di plastica con le stelle filanti che le erano finite sulle spalle sfidando il cerchio di ragazzini paranoici che avevo fomentato mio malgrado. Chiaro che non esistono, aveva perfino detto il tizio vestito da Zorro, hai sbagliato tutto. Forse il rifiuto di quello che doveva essere l’amore della sua settimana (anche lei probabilmente iniziava allora a fare i conti con le imposizioni sociali sull’espressione della femminilità) fu troppo: la piratessa in questione mollò la sciabola, si sfilò la bandana rossa e corse in lacrime tra le braccia di una delle maestre, quella più grassa, sbavandole il grembiule di cerone nero che simulava le occhiaie.

 

Ora, vent’anni dopo, Valeria, voglio chiederti scusa pubblicamente: come mi succederà di ammettere più di una volta negli anni a venire davanti alle altre ragazze che avrò avuto, avevi ragione tu.

Le donne pirata erano esistite e anzi, non avevano niente da invidiare ai loro colleghi maschi.

Il ribaltamento letterario che è stato operato sui pirati è affascinante e insieme curioso. Ancora oggi non riesco a pensare a niente di più affascinante che questi condottieri disperati, con un codice morale che andava eseguito alla perfezione ma allo stesso tempo discutibilissimo, che non si facevano scrupoli nello stuprare, nell’uccidere a sangue freddo, nel macchiarsi di azioni orrende. Insomma erano fuorilegge senza poesia, senza accenni di romanticismo, senza ideali che non fossero l’amore per il denaro, che facevano una vita orribile e scomodossima, ma che sono diventati malgrado la verità simboli eroici di avventure da vivere, di libertà, di tutta una suggestione caraibica che odora di rum, e di isole del tesoro, e di postriboli pieni di lanterne nei porti segreti nelle insenature di Haiti. E ancora dovevano arrivare Hook, One Piece, Jonny Depp e Dj Francesco. Tutto quello che per anni ho saputo dei pirati era rimasto a Salgari, alla tragica Didone e a Peter Pan e al ticchettio sfibrante di un orologio che era stato ingoiato da un alligatore. Poi, siccome nella mia vita le cose sono cambiate spesso a causa dei libri che mi capitava di leggere, è stato grazie a Storia generale dei pirati, del capitano Charles Johnson, per qualcuno nient’altro che lo psedunonimo di Daniel Defoe (che molti ricorderanno per tutta la pippa liceale sull’homo oeconomicus del suo Robinson Crusoe o per la più famosa canzone piratesca: Fifteen men on the dead man’s chest — Yo-ho-ho, and a bottle of rum!) che ho conosciuto per la prima volta la favolosa storia di Anne Bonny, insieme a quelle di tutti gli altri, Barbanera col suo vezzo di bere liquori e polvere da sparo, Henry Morgan e la sua base alla Tortuga, William Kidd e il suo cadavere ricoperto di catrame che per due anni ha oscillato su una sponda del Tamigi, a monito futuro.

Siamo intorno al 1700. Anne, di sangue e tempra irlandese, rossa di capelli e piena di lentiggini, si trasferisce ancora in fasce negli Stati Uniti insieme al padre dopo lo scandalo che aveva riguardato la sua illegittima venuta al mondo. Dotata di un carattere più che agitato e per niente disposta ad accettare avance troppo spinte, appena diciottenne finirà quasi per uccidere un ragazzo che aveva tentato di violentarla. In seguito, per far dispetto al padre distruggerà la piantagione di famiglia, scapperà di casa più volte e si fidanzerà con ogni losco individuo che riuscirà a trovare, finendo per essere la compagna del famigerato Calico Jack, l’inventore della bandiera nera della pirateria, il Jolly Roger.

A bordo della nave di Calico fu la responsabile degli esplosivi, insieme al suo migliore amico e confidente, uno stravagante pirata omosessuale che gestiva anche un negozio di abiti e di acconciature. Ma l’incontro più importante della sua vita Anne lo farà durante il corso di un abbordaggio, quando incrocierà le sciabole con Mark Read, pirata donna che non poteva farl altro che travestirsi da uomo, pseudonimo di Mary Read (la storia di Mary è bella e crudele quanto quella di Anne, ma ho preferito la seconda per il colore rosso dei capelli). Il sodalizio fu immediato. Iniziarono a condividere la stessa stanza e quando Calico, geloso di quel tizio effeminato che giaceva con la sua donna, si introdurrà nella camera per trucidarlo scoprirà le vere fattezze di Mary. Calico non dovrà essere convinto del coraggio della donna, per accettare di farla rimanere a bordo anche se questo era contro la legge che vigeva sulle navi dei pirati (al punto 9: chi porta una donna a bordo viene punito con la morte): Mary era già abituata a farsi passare per uomo e a combattere al loro fianco e quando, innamoratasi di un marinaio di una nave abbordata dovrà difenderlo da un regolamento di conti, si farà avanti per prima uccidendo l’accusatore mostrandogli il seno negli ultimi istanti, con orgoglio e scherno.

C’è da dire che anche Mary non era proprio una dolce fanciulla dalle maniere gentili: in molti casi, indossati gli abiti maschili durante gli assalti, arriverà a sparare ai membri della sua ciurma, secondo lei troppo codardi.

Ma le belle storie d’amore a tre finiscono in molti casi come quelle a due: troppo presto. Durante l’ultima battaglia contro una nave inviata apposta per loro l’intera ciurma di Calico fu catturata e condannata all’impiccagione. Le due donne si sottrassero agli eventi perché dichiararono di essere incinte e la legge inglese prevedeva che non si procedesse all’esecuzione. Mary morì nel 1712, probabilmente di malattia, mentre era ancora rinchiusa nelle celle di una prigione in Giamaica. Di Anne invece si perdono le tracce, la leggenda (e l’Oxford dictionary) vuole che fu riscattata dal padre dopo aver corrisposto un ingente somma di denaro e che avesse finito i suoi giorni in una tranquilla cittadina della South Carolina, all’età di ottantadue anni in compagnia dei suoi successivi quindici figli.

Nella leggenda rimane pure la frase che l’ex sposa di Calico Jack avrebbe rivolto al suo compagno, qualche momento prima che venisse impiccato: se avesse combattuto come un uomo, adesso non starebbe lì a farsi impiccare come un cane.

Un tipetto tranquillo, insomma.

Ora, io l’ultima volta che ho visto Valeria è stato un sabato pomeriggio di dieci anni fa passeggiando per il corso pieno di palme di San Benedetto, me l’hanno indicata dicendomi guarda quella è quella figa dell’asilo, proprio così, e non aveva niente della feroce piratessa di quando eravamo bambini. Ora magari posso dire che ero contento per lei, ma mi domando se a sei anni avessi avuto la forza di un capitano dei pirati per dirle qualcosa come ti va di dividere la mia merendina alle carote, oggi magari salperemmo i mari dell’adriatico insieme come quei saraceni che imperversavano sulle nostre coste quattro secoli or sono. Ma no, io, come Calico Jack, ero stato poco più che un pavido farabutto da quattro soldi e come un cane sarei dovuto rimanere da solo ad assistere a una vita più brillante, rinunciando al concetto della vita in mare, per il quale molti della mia famiglia hanno perso la vita e il cui ricordo io e mio padre portiamo come una specie di vanto, in una medaglia per lunga navigazione appesa in salotto o quando andiamo a guardare le barche che la sera ritornano al porto. Così mi viene da pensare che solo quelli che hanno avuto la fortuna di nascere sul mare riescono a capire quella specie di richiamo sordo, e il senso di affannarsi a scorgere i temporali che vedi fiorire al di là degli scogli, immaginando i pescherecci che combattono le onde, e storie di naufragi più grandi di noi di cui rimangono foto sbiadite e cronache scritte in piccolo sui giornali, e mi torna in mente una canzone marinaresca di casa mia, che poco c’entra con i pirati, perché parla di una madre e della speranza di un ritorno a casa che per Anne e Mary non poteva esistere: La lune t’accumpagne / stu core sta nghe tte / vanne senza nu lagne / te vuie troppe bbe. /E quasce ’ntutte ll’ore / i stinghe a recetà / pe quelle che qua’n còre, / sempre mme ce starrà. (Che la luna ti accompagni / questo cuore sta con te / vattene senza piangere / ti voglio troppo bene. / E quasi a tutte le ore / io sto pregando / per quello che nel cuore / sempre rimarrà).

Un’altra versione della storia dice che Anne avrebbe ripreso il mare, sotto un altro nome e che abbia continuato a imperversare sui mari dei caraibi fino alla fine dei suoi giorni. È un finale tranquillizzante, che ti rimette la coscienza a posto con la vita, con quello che nella vita sei stato destinato a fare. E vorrei farmelo spiegare da lei, magari mentre acconcia i manichini sui ponti della nave, imbrattandosi di sangue di tartaruga per ricorrere allo stratagemma del vascello fantasma, che cosa vuol dire saper abbandonare le cose, volgersi al nuovo giorno come si volge lo sguardo a una nave nemica, e rincorrerla fino alla fine dell’oceano, sapendo che sul ponte di una nave fantasma c’è Anne, con un coltello in mezzo ai denti e il seno al vento, che ti rincorre inevitabile come in quel verso di Tarkovskij, “come un pazzo col rasoio in mano”.