Fame

da | Lug 29, 2013 | Senza categoria

Due battute con Antonio Colombo, autore di “Fame”.

Francesco Pacifico
Come sei arrivato a scrivere?

Antonio Colombo
Di formazione sono un economista. Ho studiato economia alla Columbia University di NY e ho lavorato per molti anni in una grande organizzazione economica. Ho cominciato a coltivare la scrittura per uscire dal rigore della logica economica. Mia moglie è americana e a casa parliamo in inglese. Questo mi fa riscoprire continuamente l’amore per la ricchezza della nostra lingua.

FP
Vivi ancora all’estero?

AC
No, a Roma. Ma vado spesso negli USA

FP
Ok, era per capire che rapporto hai con la lingua italiana.
Il tuo racconto mi ha interessato perché cerchi di raccontare problemi digestivi. In realtà però mi è dispiaciuto che la descrizione rimanesse in superficie.
L’emicrania “imperversa indisturbata”, l’alito è “mefitico”. La fame “reclama imperiosamente i suoi diritti”. La caviglia “fa la sua parte”. E poi la fame diventa “buco nello stomaco”.
Secondo me potresti divertirti di più ad appuntarti i sintomi di una grossa mangiata e a descriverli più minuziosamente, andando oltre le frasi fatte come “alito mefitico”. Di cosa sa quest’alito? Quanto fa male l’acidità di stomaco?
Gadda è un autore di digestioni, secondo me là dentro si possono trovare molti esempi.
Quali sono i tuoi classici di riferimento?
Che rapporto c’è fra la lettura e la scrittura?

AC
Volevo che il racconto fosse breve.
Classici: su tutti Thomas Mann e Dostoevkij. Per gli italiani confesso che la lettura dei Promessi Sposi non mi stanca mai (sono uno di quelli). Calvino, Gadda, Tommaso Landolfi.
Lettura e scrittura: la scrittura attinge soprattutto alla vita e all’esperienza, per chi sa osservare. Secondo me riaffiora nello scrivere soprattutto nella lingua e nelle parole che si sceglie di usare. Chi scrive legge diversamente, con un occhio più attento alla tecnicalità, alla costruzione della storia, alla scelta delle parole.

 

FAME

Soffro di colite. La mia fame si manifesta innanzitutto con una sensazione di gonfiore addominale. Seguono gorgoglii gastrici e alito cattivo. Comincia poi un senso di vuoto alla testa, che comincia a girare, mentre avverto una specie di calore interno, come se il corpo bruciasse tutto quello che può, in assenza di nuovo combustibile. A questo punto subentrano il languore allo stomaco, una generale debolezza, bordate di sbadigli e il cervello comincia a pulsare per l’emicrania. L’irritabilità provocata da questi sintomi diventa presto irascibilità.
La sera prima avevo saltato la cena per depurarmi dagli eccessi di un pranzo domenicale troppo abbondante a casa dei miei. Faccio sempre così. Quando mi appesantisco mi fermo un giro e aspetto di sentirmi di nuovo pronto a mangiare.
Ero allo stadio del gonfiore addominale e sospettavo l’alito cattivo quando smisi di contemplare la neve che cadeva su Roma, mentre la radio diceva “come non si vedeva da trent’anni”. Folgorato da un pensiero improvviso: “che c’è in frigo?”, lo aprii. Chi ha detto che i deserti devono essere per forza caldi e assolati? Passai alla dispensa. Scena simile. Vivo da solo da cinque anni ormai e ancora non ho un ritmo regolare dei rifornimenti.
Colsi un presagio sinistro nella simultaneità fra un giramento di testa, la chiusura della porta del frigo e l’annuncio della radio: “A Roma cominciano le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari”. Mi vestii alla meglio, agguantai un ombrello e mi scapicollai per le scale. Il vuoto nel cranio mi faceva rimbombare tutto e l’alito cattivo era diventata una certezza.
Faccio sport e ho sempre pensato di avere una buona stabilità. Quando avvertii la prima indecisione nel rapporto fra il mio piede e la superficie del marciapiede addebitai la cosa alla debolezza. Ci volle una frazione di secondo perché capissi che una delle mie vertigini si era sommata alle suole lisce delle scarpe che avevo calzato nella fretta, dimenticandomi del problema ghiaccio. Durante quella stessa frazione di secondo il mio piede destro, stortosi in un modo che non saprei raccontare, mi fece urlare di dolore e atterrai rovinosamente con il sedere.
Un paio di volenterosi mi portarono di peso nel bar vicino casa. Tutti spiegavano il pallore con il dolore lancinante, ma io sapevo che c’entrava anche il digiuno. Mi fu dato un bicchiere d’acqua. Il freddo che scendeva nello stomaco vuoto mi ricordò che la fame reclamava imperiosamente i suoi diritti rispetto ai segnali che altre parti del corpo lanciavano dopo la caduta. Lo stomaco era in competizione con il culo indolenzito e con la caviglia ormai gonfia e pulsante. La testa mi girava ormai vorticosamente. L’emicrania aveva trovato altre ragioni per imperversare indisturbata. Intanto i soccorritori si tenevano a debita distanza dal mio alito mefitico. Fu deciso che c’era sospetto di frattura della caviglia.
L’ambulanza, sfidando ghiaccio e traffico bloccato, arrivò dopo un quarto d’ora. In ospedale, durante l’attesa per la radiografia, fui rianimato con i sali e tutti spiegavano i miei mancamenti con il dolore. Certo la caviglia faceva la sua parte, ma la fame era ormai allo stadio di buco nello stomaco e la mia irascibilità andava ben al di là del disappunto per l’incidente. Durante l’ingessatura il medico fu distratto due volte dai miei gorgoglii ma io ebbi vergogna, in quelle condizioni, di offrirne la spiegazione. Alla fine di quell’esperienza ero prostrato e, mentre il medico mi faceva esercitare a camminare con le stampelle, le vertigini mi davano quasi la nausea.
Nel taxi feci una ricognizione delle persone che avrei potuto chiamare per aiuto e, soprattutto, per farmi portare qualcosa da mangiare. L’unica era mia cugina, che abita vicino, ma chissà dov’era. I gorgoglii e il sentore di topo morto che esalava dalla mia bocca erano alimentati dall’ingresso nello stomaco degli antidolorifici che mi avevano somministrato in abbondanza.
Arrivato a casa, arrancando con le stampelle sul ghiaccio verso il portone, lo vidi aperto. La ragazza che da due mesi era venuta ad abitare al terzo piano armeggiava con un carrello della spesa carico di ogni ben di dio. Mi piaceva, e molto. Spontanea, come ignara della sua bellezza, sicura e sportiva, con uno di quei sorrisi che ti stendono al primo colpo.
Lasciò il carrello e mi aiutò a entrare. L’avevo mancata per due mesi. Solo una volta c’era stato modo per un sondaggio reciproco con un mezzo sorriso. Due mesi senza un’occasione! E doveva succedere ora che ero in condizioni pietose! Rabbioso per la fame, mezzo svenuto, con un alito che avrebbe steso un cavallo, i gorgoglii in pancia e il culo dolorante. Tutto  mi girava intorno. Però, lo confesso, suscitare tenerezza è un trucchetto banale cui ricorro spesso. Solo che avevo bisogno di energia.
In ascensore cercavo di non farle arrivare la putredine che espiravo mentre sopprimevo sbadigli incontenibili e pregavo che i miei gorgoglii mi dessero una tregua. Mi chiese cosa fosse successo. Indugiai, lo giuro, inconsciamente, sul fatto che avrei ritrovato il frigo vuoto e, dopo un attimo di silenzio, tutti e due ci rendemmo conto che mi ero quasi invitato a pranzo.
L’invito arrivò!
“Non sono una grande cuoca”
“Non importa, ora come ora mangerei qualsiasi cosa”. Che imbecille! Ma sono cose da dirsi?
All’una presi una bottiglia di vino dallo scaffale e mi presentai alla sua porta mentre le mentine che avevo succhiato per neutralizzare ogni pericolo avevano fatto imbizzarrire i succhi gastrici.
A tavola, oltre a cercare di non asfissiarla col lezzo che mi usciva dalla bocca, oltre a tenere la gamba distesa contorcendomi per evitare posizioni penose per il mio sedere dolorante, tentai di mascherare la mia voracità, divorando e masticando quando lei non mi guardava. Il fatto è che quando mi guardava mi faceva sciogliere con dei sorrisi da paradiso. Mi sorrideva osservandomi divertita, ma col tempo ebbi la certezza che non era solo per quello. La testa riprese a girarmi, ma non si trattava più di fame.
La sera dopo uscimmo. Stiamo ancora insieme. Come immaginavo: non è difficile riuscire simpatici quando si ha un piede ingessato. L’importante è avere la pancia piena.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).